Chiudete gli occhi per un secondo e immaginate di essere alla festa dei vostri sogni. Tutti coloro a cui volete bene sono intorno a voi, e la musica della vostra adolescenza risuona nell’aria. Ballate, vi divertite, vi innamorate, e poi tutti i vostri amici muoiono.
Lo so, è dura, ma è più o meno ciò che è successo a Tom Bianchi all’inizio degli anni Ottanta con l’arrivo dell’AIDS. È anche il soggetto del suo ultimo libro, Fire Island Pines – Polaroids 1975-1983, una selezione di foto scattate in una piccola parte di Long Island chiamata Pines, che negli anni Settanta rappresentava una sorta di utopia per la comunità gay.
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Bianchi—che all’inizio degli anni Settanta lavorava anche come avvocato a New York e Washington—ha trascorso gran parte della sua vita a combattere l’AIDS ed è il co-fondatore di una società biotecnologica per la ricerca di cure nel campo. Con il lancio del suo nuovo libro come scusa, ho chiamato Tom per sapere di più della sua vita.
VICE: Ciao Tom, come stai?
Tom Bianchi: Bene, ho appena fatto una buona colazione a bordo piscina. Sono pronto per questa giornata.
Ok, pronti. Dovremmo cominciare raccontando la storia di questo libro, giusto?
Crescendo, soprattutto se lo fai nel centro degli Stati Uniti, in testa hai l’immagine di un mondo molto diverso da quello in cui sei abituato a vivere. Il mondo in cui vivevamo ci disprezzava e ci chiamava pervertiti. La bellezza di Fire Island era l’essere stata costruita da coloro che immaginavano un mondo diverso e hanno cercato di crearlo. Ci siamo ritagliati un posticino solo per noi, dove poter stare al sicuro e ridere e giocare insieme sulla spiaggia. Fire Island attirò i più belli e brillanti gay d’America—soprattutto per la sua vicinanza a New York, che era il centro della cultura, della moda, dello stile e anche del cinema. Era un periodo molto glamour.
La sua creazione era stata pianificata o è avvenuta in maniera casuale?
L’isola è una barriera lunga 50 chilometri a poca distanza dalla costa di Long Island, separata in piccole comunità da grosse dune di sabbia. Il Pines, che è una di queste comunità, è un reticolo di marciapiedi che collegano circa 600 case costruite su palafitte. Il luogo iniziò ad attrarre i newyorkesi più bohémien; gli scrittori e gli artisti arrivavano e si compravano una casa. Non era nata appositamente per la comunità gay, ma alla fine divenne una sorta di casa.
E tu capitasti lì con una Polaroid.
Ero un avvocato della Columbia Pictures. A una conferenza a Miami ci fu regalata una Polaroid SX-70. Era una cosina di plastica, che più tardi portai a Fire Island per fotografare i miei amici. Allora molti non erano ancora usciti allo scoperto, quindi, come puoi immaginare, non erano estremamente felici di farsi fotografare. La cosa più importante di questa macchina fotografica era che mi permetteva di scattare la foto e pochi minuti dopo avere l’immagine in mano da mostrare ai soggetti stessi. Ciò mise tutti più a loro agio e poco dopo nacque il bisogno di mostrare al mondo quanto fica e meravigliosa fosse la capitale del pianeta dei gay. O al limite la sua parte più provinciale [ride].
Sfogliando il libro, non posso fare a meno di notare che tutti i soggetti delle foto sono incredibilmente belli.
Be’, c’è una duplice ragione. Gli uomini gay della mia generazione venivano chiamati checca o frocio. Siamo cresciuti sviluppando sentimenti molto negativi a proposito di noi stessi. Ai miei tempi, quindi, sempre più ragazzi scoprivano la palestra. Improvvisamente emerse questa comunità di uomini incredibilmente belli, ed erano tutti su treni, bus e aerei diretti a Fire Island, ogni weekend. Allo stesso tempo, volevo che i miei partner fossero belli, ragazzi mozzafiato. E non volevo che nessuno pensasse che stessi usando la mia macchina fotografica per sedurre gli altri, quindi la maggior parte degli scatti più intimi sono di ragazzi con cui avevo una relazione.
E ti credo. I soggetti delle tue fotografie sembrano a loro agio con il proprio corpo e l’obiettivo. Non credo riuscirei a fare altrettanto posando nuda per qualcuno con cui non ho alcuna relazione intima.
Devi sapere che sarai amato e non sfruttato.
Parlando di nudità, nell’introduzione racconti la storia di un ragazzo che ti aveva approcciato sulla spiaggia mentre stavi fotografando delle conchiglie, proponendoti di scattargli delle foto più sexy. A un altro punto del libro, fai riferimento al fatto che, dopo aver dato un’occhiata alla prima bozza, Sam Wagstaff ti avesse incoraggiato a rendere il libro più sconcio. Pensi che questa insistenza sulla nudità abbia a che fare con il fatto che la comunità abbia dovuto sopprimere la propria identità e i propri desideri così a lungo?
Sì, assolutamente. Queste erano storie di trasformazione personale. È questa generazione quella responsabile di tutto il movimento del gay pride. Abbiamo sviluppato questo senso di comunità e iniziato a vederci come persone davvero speciali, indispensabile per la cultura con cui convivevamo. E, alla fine, una cosa che ci ha uniti è stata il desiderio.
Andavamo lì per scopare con ragazzi che erano divertenti e attraenti. Andavamo per il sesso e per ballare. Ballavi fino a quando avevi trovato il partner che avrebbe riempito il tuo letto per quella notte. Il desiderio è una forza più potente della gravità. La gravità tiene in pianeta unito, il desiderio avvicina le persone e permette loro di creare qualcosa. L’importanza della nudità, il potere del desiderio fisico che ci fa riunire, non può essere superato.
E poi arrivò l’HIV. Il senso che ho colto leggendo il tuo libro è che questa malattia ha spinto il movimento gay indietro di anni.
Penso sia l’opposto. Penso che fossimo dei ragazzini che festeggiavano, pensando di essere intoccabili, immortali. L’AIDS ci ha obbligati a crescere.
È stato un campanello d’allarme, quindi?
È stato un campanello d’allarme—non che stessimo facendo niente di male. Stavamo solo facendo quello che fanno tutti i ragazzi. Giocavamo ed è importante imparare come si gioca. Quello che successe con l’AIDS fu che cambiò completamente il modo in cui vedevamo noi stessi. Allo stesso tempo, gli eterosessuali iniziarono a conoscere l’orrore della discriminazione. Iniziarono a circolare storie di persone che erano risultate positive all’HIV e venivano cacciate di casa, dalle loro comunità, nemmeno ammesse negli ospedali. Mi vengono le lacrime agli occhi solo a parlarne, è stato un olocausto. Era semplicemente incredibile. Abbiamo dovuto fare qualcosa.
E l’avete fatto.
Molti di noi si levarono per l’occasione e combatterono. Un gruppo di noi a Los Angeles, per esempio, formò una società di biotecnologie per sviluppare nuove terapie di cura all’HIV. Ho speso sette intensi anni della mia vita finanziando queste ricerche. Ma tutto ciò ci fece rimettere a fuoco la situazione.
Ancora peggio, non riuscii a pubblicare il libro su Fire Island quando lo scrissi. Era considerato troppo da finocchi. È stato quando David Peterson, il mio partner all’epoca, morì di AIDS nel 1998, che ho deciso di scrivere un libro, come memoriale e testamento che comunicasse che eravamo vivi e vitali. Quel libro era Out of the Studio. Scattavo in bianco e nero perché pensavo sarebbe stato meno costoso che stampare un libro a colori. Mi sbagliavo. Comunque, Out of the Studio fu un enorme successo e la ragione fu che eravamo una comunità in profondo lutto e con tanta paura. Quel libro è stato un messaggio di speranza. Dice, “Siamo ancora intatti, siamo ancora belli, siamo ancora potenti e ci faremo strada attraverso tutto questo.” E tutti i libri che seguirono parlarono della nostra conquista di coscienza e potere.
Cosa successe a Pines?
Nel periodo immediatamente successivo, causammo uno shock all’intera città, perché i nostri amici iniziarono a morire uno dietro l’altro. Ogni tanto ci tornavamo e le conversazioni finivano sempre con “Hai sentito di…?” Diventò impossibile affrontare tutto questo, quindi mi tirai indietro. Quando tornai nella mia casa a Pines un po’ più avanti, mi sembrava… che tutti i miei amici se ne fossero andati.
Ti ho fatto intristire. Concludiamo con una nota positiva. Raccontami una storia divertente successa a Pines.
Ok, ce ne sono molte. Questa è su una delle mie prime volte a Pines. Dei ragazzi avevano organizzato una cena a casa loro. Avevano preparato tacchino all’hawaiana con pezzi di ananas. Dopo cena, uno dei ragazzi portò fuori una sedia pieghevole e la piazzò sopra il tavolo da caffè e mise su questo disco di musica hawaiana. Poi quest’altro ragazzo uscì dalla camera da letto con addosso un costume da bagno nero stile anni Trenta, con dei buchi sui fianchi, e una di quelle cuffie da bagno di gomma con le balze cucite sopra, tipiche degli anni Cinquanta. Fece un numero acquatico alla Esther Williams in piedi sulla sedia. Fu meraviglioso. In quel momento, in quel luogo, pensai, Tutto questo è folle. Ed è quello che voglio fare per il resto della vita. Essere circondato da queste assurde, bellissime persone.
Se volete sapere di più su Tom e sul suo lavoro, visitate il suo sito, e se volete mettere le mani su Fire Island Pines – Polaroids 1975-1983 cliccate qui.
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