Tutte le foto: Jason Favreau
Qualche giorno fa ho incontrato YG. Appena entrato nella stanza, si è subito diretto al buffet che era stato appositamente preparato per esaminarlo da vicino e scegliere uno snack alla frutta e una bottiglietta d’acqua. Cammina con una grazia noncurante e leonina; il suo contegno è disinvolto ma presente. Porta un cappello rosso con la scritta “4Hunnid”, una t-shirt bianca, dei bermuda a quadretti e scarpe a ginnastica senza calzini, sembra un semplice avventore del caffè dietro l’angolo. Due anni e mezzo fa, promuovendo il suo primo album My Krazy Life, il rapper di Compton si poneva con un atteggiamento di rilassatezza arrogante che lo identificava immediatamente come stella nascente. Ora, YG sembra più consapevole di se stesso: si vede che ha carisma e che è considerato, ma è impossibile capire che cos’è che lo ha portato al successo. Potrebbe essere un imprenditore, un attore, o magari il miglior gangsta rapper della sua generazione, cosa che è.
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Il nuovo album di YG, Still Brazy, non è un album che si adatta al discorso memetico del 2016 o che cerca di farsi degli amici tramite ospitate importanti. Mentre l’industria musicale gira sempre più attorno ai singoli, YG—che in passato non ha avuto problemi a produrre singoli di grande impatto e che si è ritagliato il proprio spazio nella scena di LA essenzialmente come rapper da festa—ha deciso di giocarsi tutto e confezionare un album ambientato dall’inizio alla fine in un unico spazio sonoro che racchiude senza sforzo due decenni e mezzo di rap californiano. Il momento più pop, “Twist My Fingaz”, è un ripensamento in chiave street dei classici temi G-funk. Il palese momento paraculo con il featuring di Drake “Why You Always Hatin’” si appoggia a un ritornello della rapper di Oakland Kamaiyah che sembra racchiudere ogni sfaccettatura ritmica della calda California anni Novanta.
Still Brazy è pieno di narrazioni psicologicamente dense, di acuti “vaffanculo” e di una forte dose di vetriolo politico. Analizza con toni oscuri l’episodio della sparatoria nello studio in cui YG è rimasto ferito durante le registrazioni (e se parlate inglese potete saperne di più guardando lo speciale di VICELAND “YG and the Therapist”) in “Who Shot Ya” e l’ultima traccia dell’album, “Police Get Away with Murder”, che elenca gli omicidi di cittadini disarmati come Kimani Gray e Laquan McDonald da parte della polizia, finisce con l’inquietante verso “and they wonder why I live life looking over my shoulder”. È un mondo oscuro e YG ne esplora ogni angolo.
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Eppure la traccia che spicca più di tutte è il singolo che più diretto non si può “Fuck Donald Trump” con Nipsey Hussle. Sembrerebbe improbabile—in fondo stiamo parlando di un rapper che ha raggiunto la fama con “Toot It and Boot It”—ma è la canzone di protesta definitiva durante la campagna elettorale più assurda della storia recente. È un raro esempio di arte politica che riesce a spaccare, con un ritornello (“fuck Donald Trump”) impossibile da non cantare, spesso anche a caso. YG mi ha detto che la gente gli urla “fuck Donald Trump” quando lo vede per strada. È diventato il simbolo della protesta contro i peggior demagogo razzista d’America in un momento in cui, vista l’incredibile esposizione pubblica di Trump, avere una voce come la sua dalla nostra parte, la parte del popolo, la parte della ragione, sembra profondamente, visceralmente necessario. YG è sempre stato figo, ma oggi potrebbe essere più figo che mai.
La radio di Noisey USA Beats1 ha raggiunto YG sul set del video di “Why You Always Hatin’” per parlare di musica (ascolta la trasmissione a questo link), e in seguito lui è stato a trovare VICE a New York per concludere la chiacchierata sulla sua situazione politica.
Noisey: Come ti sei sentito dopo l’uscita di Still Brazy vedendo la reazione del pubblico?
YG: Cazzo, è una bella sensazione. Ho passato un periodo piuttosto brutto, quindi riuscire a togliermi questo peso dal petto e ricominciare a muovermi è stata una gran bella cosa.
Come ti sei trovato a lavorare con Terrace Martin su questo album?
Lui è il mio uomo. Era anche sul primo album, ma su questo ha lavorato un po’ di più. Mi piace lavorare con Terrace perché è un vero musicista, un vero producer. Io gli dico un’idea, o gli chiedo di costruire un beat a partire da un certo sample, e lui sa esattamente come metterla in pratica. È pieno di beat maker che non sono veri producer, quindi quando riesci a trovare queste persone speciali è meglio che te le tieni vicine perché sono rare.
Quale canzone pensi metta in risalto al meglio le doti di Terrace come autore e arrangiatore?
“Bool, Balm & Bollective”.
Parliamo di “Bool Balm & Bollective”. Com’è nata?
Lui era di sotto a fare un beat. Io l’ho sentito e sono sceso di corsa dicendo “ehi, mi piace, ho qualcosa per questo beat”. E ho iniziato a rapparci sopra. A volte funziona così con me: sento un beat e se mi piace mi ci butto sopra immediatamente.
Di che cosa parla “Don’t Come to LA”?
“Don’t Come to LA” parla dei forestieri che vengono a LA e vogliono appropriarsi della cultura e del lifestyle locale. E non è roba loro. Ecco di che cosa parla. Dice che i fratelli devono smettere di lasciare che questo accada. Sta contaminando la nostra roba, un sacco di gente la pensa così. Ma queste persone non hanno modo di parlarne pubblicamente, far passare il messaggio e far capire a questi figli di puttana che questa roba non va bene. Così ho dovuto farlo io.
Come hai coinvolto Drake in “Why You Always Hatin’”?
Normale. Mi fanno tutti questa domanda. Gli ho mandato il pezzo, lui ha detto che gli piaceva, ci si è messo sopra e me l’ha rimandato, fine.
E Kamaiyah? Sembra che vi capiate alla perfezione. Che cosa ti ha conquistato della sua musica?
Lei è la prossima. Ha uno stile e un sound personale. Non avevo mai visto una rapper femmina di Oakland avere il successo che ha lei. È davvero agguerrita. Lassù hanno tutto un altro bagaglio di problemi da affrontare per entrare nel music business e uscire da Oakland. La percezione comune è che Oakland e in generale la Bay Area non sia cagata da nessuno. Per cui lei è molto agguerrita. Spacca.
Che cosa collega la Baia a LA in questo momento, musicalmente?
Andiamo d’accordo. La Baia mi adora. Sul serio. Vado a suonare là dal 2008, mi sono fatto degli amici, ho suonato in ogni blocco, in ogni ghetto. Ci ho girato video, stronzate così. Adesso siamo tutti connessi musicalmente.
Hai ricevuto molti commenti sulla sessione di psicanalisi che hai girato con noi per VICELAND?
Sì, alla gente è piaciuta molto quella roba. Mi hanno detto che si sono sentiti toccati, che gli ha fatto venire da piangere. Mi sono arrivati un sacco di commenti di questo tipo. I miei amici mi dicevano da tempo che avrei dovuto parlare con qualcuno, così l’ho fatto, lasciando che VICE registrasse la conversazione. A volte è bene provare cose nuove.
Qual è stata la reazione più strana a quel video che hai sentito?
Mio padre mi ha chiamato e fa: “oh, dobbiamo parlare. Ho sentito quello che hai detto là dentro. Mi hai aperto gli occhi su varie situazioni. Dobbiamo parlare”. E io faccio: “Di che cazzo dobbiamo parlare? Mi fai paura, my nigga”. A parte quello…
La canzone “Police Get Away with Murder” tocca un argomento molto importante in questo momento. Perché hai scelto di parlarne in questo album?
È una cosa che sta succedendo in questo momento, e nessuno ne sta parlando dalla parte della comunità rap, non c’è nessuno che metta pressione alle autorità e prenda le difese delle vittime là fuori. Era roba che succedeva tutti i giorni mentre io lavoravo al disco. Io e i miei amici ne parlavamo in continuazione: Mike Brown, Eric Garner e tutti gli altri innocenti uccisi dalla polizia, la roba che è successa a Baltimora e tutto il resto.
Insomma, ne parlavamo davvero un sacco, e io non sono il tipo di persona che ama discutere di questi argomenti. O si fa qualcosa al riguardo, o lasciamo perdere. E stavamo lì a parlarne. Leggevamo le notizie e ci chiedevamo: “chi è che può spingere l’argomento con una certa autorità?”. Un sacco di persone parlano e parlano, ma l’argomento non è davvero sentito o individuato come una minaccia perché viene affrontato in modo leggero. Ho pensato che quel ruolo toccava a me. Così ho registrato il pezzo, ed è successa altra merda.
I miei mi hanno consigliato di far uscire il pezzo mentre stava succedendo tutta quella roba a Baltimora, ma io ho detto “nah, non voglio dare l’impressione di strumentalizzare i fatti. Lo terrò in serbo per l’album perché questa merda è vera”. E nel frattempo sono successe molte altre cose, e così sono nate “Fuck Donald Trump” e “Blacks and Browns”. È che mi sentivo in un certo modo mentre lavoravo al disco, e ne stavamo parlando troppo, così ci ho scritto delle canzoni.
Pensi che sia arrivato il momento che gli artisti scrivano di questi argomenti?
Certo, è ora, perché la roba che c’è in giro è diluita. Mi sono stancato di queste stronzate perché ci sono tanti figli di puttana che vengono glorificati nel mondo del rap, e, voglio dire, tutti dovrebbero sentire questa responsabilità se vogliono far parte della cultura hip-hop. Queste sono le basi. Tutto è iniziato da degli artisti che rappavano della situazione in cui si trovavano, nelle loro comunità e nella loro cultura, usando la musica per svegliare la gente, coinvolgerla e far sapere agli stronzi che noi siamo qua, e saremo uniti nel momento del bisogno. E finora non è stato così, è questo il messaggio che voglio far passare.
I tuoi primi dischi parlano di far festa, ma ora c’è “Fuck Donald Trump” e tu sei diventato il volto di questa idea. Come ti fa sentire il fatto che la gente voglia sentirti parlare di politica?
Io non sono un politico. Però capisco quando certe cose non vanno, e la mia gente sa che certe cose non vanno, e la mia gente non se la beve. Io parlo dalla strada, per la gente di qua. Sono il loro portavoce. Non sono un politico. Non sono in grado di parlare di queste cose. Ma so che questa merda non va, bro.
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