Prima della pandemia, le giornate di Gwen Clarke cominciavano alle 5:45 del mattino. Come prima cosa andava in palestra vicino a casa, a cui seguivano 40 minuti da pendolare per raggiungere l’ufficio, dove lavora come digital content producer. Spesso le capitava di lavorare fino a tardi, o persino nel weekend. A fine giornata si ritrovava a bere con i colleghi prima di tornare, del tutto esausta, a casa.
Il 2020, tuttavia, è stato molto diverso. A causa del COVID-19, la ventiseienne è andata a vivere a Southampton, nello Stato di New York, e il ritmo della vita ha rallentato. “Mi sveglio al mattino e non devo precipitarmi fuori dal letto,” conferma Clarke. “Posso rimanere sdraiata a fare quello che voglio per quasi due ore, prima di alzarmi e cominciare a lavorare.” In più, durante la giornata si può concedere un po’ di yoga o una passeggiatina quando preferisce.
Videos by VICE
In soldoni, è riuscita ad allontanarsi un po’ dalla tirannia dell’iperproduttività, del lavoro frenetico che occupa tutto il tempo a propria disposizione. Un approccio al lavoro e alla vita che non solo ingombra il più possibile la giornata di cose da fare, ma evidenzia anche il valore associato all’atto: essere sempre così impegnati fa sentire bene, nonché utili agli altri e degni di attenzione. “Lavorando nell’ambito televisivo, ho sempre ritenuto che essere pieni di lavoro fosse un’ottima cosa,” conferma Clarke. “Significa che le altre persone hanno fiducia in te, che sei importante.”
Si tratta di un segnale sociale potentissimo, benché per certi versi risulti controintuitivo e paradossale. A cavallo tra il XX e il XXI secolo, gli economisti avevano infatti immaginato che il simbolo ultimo di ricchezza e successo sarebbe stato legato al tempo libero: mostrare agli altri di essere così ricchi da potersi astenere dal lavoro. Al contrario, è successo l’opposto. Oggi non è il tempo libero a raccontare l’importanza e rilevanza di una persona, bensì quanto questa è indaffarata.
“Essere iper-occupato mi faceva sentire una risorsa molto valida, dotata di abilità molto richieste,” conferma Robbie McDonald, 53 anni e stakanovista presso un ente noprofit. “Alimentava la mia insicurezza e sindrome dell’impostore. Più ero indaffarato e più mi facevo carico di altre mansioni, per il timore di sembrare inutile. Ne andavo decisamente fiero, e arrivavo a lamentarmi con colleghi e amici del troppo lavoro. Eppure, sotto sotto ero orgoglioso che così tante persone facessero affidamento su di me.”
Tuttavia, diversi indicatori suggeriscono che le persone non vogliono tornare a questa condizione. Ad aprile del 2021, sul New York Magazine è stato pubblicato “The People Who Don’t Want to Return to Normalcy,” che riportava dichiarazioni come “per la prima volta avevo una scusa per non fare niente… Ma mi sento in colpa a dirlo.” Su Cut, un lettore ha ribadito, “Non mi sento pronto alla fine dell’isolamento.” Il Wall Street Journal ha parlato di fine delle fasi più intense della pandemia come del “ritorno all’ansia.”
“Molte persone si sono sentite sollevate alla prospettiva di non avere altra scelta se non quella di interagire con gli altri alle proprie condizioni. E non sono pronte a tornare alle vecchie abitudini,” conferma la psicologa Peggy Drexler. Nel 2020, McDonald ha accolto con somma felicità la sua nuova routine, che “non include chat di gruppo alle 5 di mattina o riunioni di emergenza il sabato riguardanti i commenti su Facebook.”
La pandemia ha offerto uno spiraglio per essere meno impegnati e, cosa ancora più importante, per crearsi una nuova prospettiva sulle convenzioni culturali riguardanti il lavoro. Invece di farsi catturare dall’inerzia di dover sempre presentarsi come impegnatissime, molte persone hanno avuto modo di riflettere su quanto l’eccesso di lavoro venisse usato per definire la propria vita—e quanto questo abbia procurato stress e creato una sovrapposizione tra autostima e produttività.
Ovviamente, la possibilità di rallentare i propri ritmi implica a sua volta un certo grado di privilegio. Diverse ricerche hanno indicato che l’iperproduttività sbandierata e lo status sociale che ne derivano sono legati soprattutto alle fasce di lavoratori con reddito più alto. Secondo la sociologia, quando questo approccio viene adottato dalle classi più “basse” smette di essere considerato un simbolo di successo per tornare ad essere un effetto collaterale del troppo lavoro, del basso salario e della mancanza degli ammortizzatori sociali.
Sono quindi i lavoratori pagati meglio a beneficiare delle conseguenze positive sulla propria posizione, oltre ad aver probabilmente goduto di più del rallentamento imposto dal COVID-19. Tuttavia, se la pandemia ha concesso di mettere in discussione l’esaltazione acritica del lavoro costante, potrebbe forse anche riuscire a smantellarla. “Non posso tornare a quei ritmi frenetici,” conferma McDonald, mentre pensa a una mattinata passata in spiaggia. “Sembrava tutto così semplice e facile. Ho iniziato a chiedermi se la mia vita potesse essere tutta così.”
Nel 1840, per un certo periodo di tempo è stato considerato appetibile portare a zonzo delle tartarughe lungo le vie di Parigi. “Significava che avevi tempo libero in abbondanza, era un simbolo del tuo status sociale,” spiega Tony Crabbe, uno psicologo del lavoro e autore di Busy: How to Thrive in a World of Too Much. Il passeggiatore di tartarughe e “il suo aspetto rilassato, come tratto della sua personalità, sono una protesta contro la divisione del lavoro che trasforma gli uomini in specialisti. Una protesta anche contro l’industriosità,” scrisse il filosofo e critico Walter Benjamin.
Questo è anche ciò di cui scrive Thorstein Veblen, un economista del Novecento autore di La teoria della classe agiata. Veblen riteneva che le élite future avrebbero ostentato il proprio tempo libero, per segnalare agli altri il proprio successo. L’idea si è poi incarnata nel personaggio di Violet Crawley in Downton Abbey che domanda, “Cos’è il ‘weekend’‘?” “La gag consiste nel fatto che la contessa è troppo aristocratica persino per riconoscere l’idea stessa di una settimana divisa tra lavoro e tempo libero,” hanno scritto i ricercatori su Harvard Business Review.
Veblen non è stato l’unico a predire che il tempo libero sarebbe diventato uno status symbol. Nel 1928, John Maynard Keynes tenne una conferenza, pubblicata poi sotto al titolo Economic Possibilities for Our Grandchildren. Nel suo discorso, prospettava una settimana lavorativa di sole 15 ore nel 2028, grazie all’innovazione tecnologica e alla fiorente economia. Con così tanto tempo libero, però, “le persone dovranno affrontare il vero problema, quello definitivo: come utilizzare questa liberazione dalle più pressanti preoccupazioni economiche, come occupare il proprio tempo libero,” scrive Keynes.
In ogni caso, nemmeno le persone benestanti sono vicine a questo traguardo. Al contrario, si vantano e fregiano di tutti i loro innumerevoli impegni. “Così come nel 1900 poter oziare significava affermare il proprio status sociale, oggi questo avviene presentandosi estremamente impegnati,” conferma Jonathan Gershuny, professore di sociologia economica presso la University College London e co-direttore del Center for Time Use Research.
Silvia Bellezza, professoressa associata di Economia aziendale e marketing presso la Columbia Business School, studia il modo in cui questo atteggiamento ha rimpiazzato il tempo libero come forma di “consumo ostentativo” o “posizionale”: grazie alla costante operosità, le persone segnalano di essere una risorsa rara all’interno del mercato. Se non hai tempo per riposare, stai indicando di essere una persona molto richiesta e che il tuo capitale intellettuale è altamente apprezzato. Per questo, vieni considerata appartenente a uno status più elevato.
Questi atteggiamenti possono essere ritrovati anche nelle relazioni personali che nulla hanno da spartire col lavoro. Negli ultimi 20 anni, Ann Burnett, una professoressa di Comunicazione e studi sul genere e sulle donne presso la North Dakota State University, ha raccolto e raggruppato le lettere che le famiglie spedivano durante le vacanze. Come riportato da Brigid Schulte, autrice di Overwhelmed: Work, Love, and Play When No One Has the Time, “Parole e frasi emerse inizialmente tra gli anni Settanta e gli Ottanta per definire una vita troppo frenetica, caotica e intensa, ora appaiono con sorprendente frequenza.”
Bellezza e i suoi colleghi hanno poi osservato diverse celebrità che sui social media si lamentano di avere un’agenda fitta di appuntamenti e troppo poco tempo a disposizione. Il lavoro di Bellezza ha dimostrato che questo tipo di segnali fa pensare agli altri che tu sia importante. In uno studio, hanno scoperto che le persone che si fanno recapitare la spesa a casa tendenzialmente vengono percepite come più impegnate e appartenenti a una classe sociale più elevata, così come chi utilizza delle cuffie Bluetooth e non con il filo. E che lo stesso vale per chi si definisce “impegnatissimo” e non “rilassato.”
Eppure, viene anche messo a nudo il masochistico paradosso: persino chi aspira ad essere tremendamente impegnato ritiene che questa condizione sia fonte di infelicità. Questa ossessione, inoltre, finisce per contaminare anche il poco tempo libero a disposizione. Avviene, secondo Bellezza, nel tentativo di portare a termine più cose possibili nel minor tempo possibile, anche durante il proprio tempo libero—un atteggiamento definito come “tendenza alla produttività.”
Il fenomeno è particolarmente forte ed evidente in America. Secondo la ricercatrice, “La gente si vanta di quanto lavora, quasi fosse una medaglia al valore il fatto di non andare mai in vacanza anche se puoi permettertelo.”
Un’altra ragione per la mancata realizzazione della visione di Keynes è la disuguaglianza sociale ed economica. Lo spiega Judy Wajcman, professoressa di Sociologia presso la London School of Economics e parte dell’Alan Turing Institute a Londra. “C’è un’intera categoria di professionisti, dirigenti e manager ai quali è andata molto bene e i cui stipendi sono aumentati esponenzialmente,” afferma. “Ma c’è anche stato un aumento spropositato di lavori con paghe molto basse nel settore dei servizi, dove il salario minimo non è rimasto al passo.” Si tratta di un problema fondamentale: molte persone non hanno abbastanza soldi per accrescere e sfruttare a dovere il proprio tempo libero e l’iperproduttività diventa più un motivo di vanto che altro, conferma Wajcman. Oppure rimane una pura questione di necessità economica.
Alcune ricerche hanno inoltre dimostrato che le persone che tendono a lamentarsi di più del fatto di essere troppo impegnate non hanno riscontrato davvero un grosso aumento del proprio carico di lavoro: si tratta più di un sentimento o uno stato d’animo che di una condizione materiale riflessa nel lavoro. L’economista svedese Staffan B. Linder ha proposto il concetto di “classe agiata indaffarata e stressata”—in pratica, all’accumulo di ricchezza corrisponde una maggior possibilità di consumo, ma anche giornate sempre più cariche di impegni e attività.
Nei propri studi, Bellezza individua anche una differenza nella percezione del lavoro tra i cosiddetti colletti bianchi e blu, “impiegati” e “operai”: la prima categoria, quando dice di essere particolarmente impegnata, rafforza il proprio status, ma ciò non vale per la seconda. “È un attributo molto legato alla classe sociale d’appartenenza,” conferma Wajcman. “I lavoratori della gig economy non ne parlano. Non c’è alcuno status particolare legato all’iperproduttività, se lavori in un magazzino Amazon. Si tratta di una concezione del lavoro del tutto propria alle classi manageriali medio-alte.” Secondo Wajcman, chi non rientra in questa categoria percepisce la cosa come una mancanza di controllo sul proprio tempo.
La pandemia potrebbe ora spingere diverse persone, in special modo le più privilegiate, a riconoscere che il loro approccio al lavoro era solo un costrutto sociale, qualcosa a cui potrebbero voler resistere in futuro. Un cambio del proprio paradigma comportamentale che Burnett raccomanda fortemente: “Quando ti chiedono come stai, smettila di rispondere, ‘Sono super impegnato’.” E aggiunge: “Dobbiamo ripensare le interazioni con le altre persone, pensare a come ci descriviamo e rispondere a tali quesiti fondamentali.” Ci sono tanti aspetti negativi in questa cultura del lavoro, ribadisce Burnett. “E, onestamente, se il principale lato positivo è la possibilità di vantarsene, be’, allora non ne vale proprio la pena.”
Un piccolo, ma appassionato movimento di resistenza esisteva comunque già prima della pandemia. Carl Honoré è autore di The Power of Slow, e uno dei leader del movimento globale per la lentezza, una battaglia per rallentare i ritmi della vita moderna, “assaporando le ore e i minuti invece di limitarsi a contarli. […] Preferendo la qualità alla quantità, in ogni cosa.” Honoré si è ispirato alla sua stessa vita personale, dopo essersi reso conto che leggeva al figlio le favole della buona notte sfrecciando tra le pagine. “Ho avuto come un’illuminazione: è questo quello che voglio davvero? Una vita di multitasking, distrazioni, lavori, stimoli e impazienza ti isola da te stesso e da quello che vuoi davvero. Finisci per trasformarti nella lista delle cose che devi fare.”
Quando è cominciata la pandemia, molte persone hanno scritto a Honoré per chiedergli se era contento per la situazione e l’apparente battuta di arresto del mondo intero. “Una pandemia è un incubo per tutti. Ma può esserci un risvolto positivo, possiamo usarla come un corso accelerato per rallentare i ritmi.”
Il movimento per la lentezza fa parte di un trend più ampio inteso a “decelerare” e rallentare. Giana Eckhardt, professoressa di marketing presso il King’s College di Londra ed esperta del tema, sostiene di aver notato un rallentamento anche nella fase precedente alla pandemia: ad esempio, nell’aumento di attività quali meditazione, ritiri yoga, escursioni lungo vie di pellegrinaggio e “viaggi lenti”, quelli dove si rimane in un posto per un periodo di tempo indefinito per fare esperienza dello stile di vita locale.
Il termine “decelerazione” è un tentativo di cercare un sostituto per l’“accelerazione sociale”, così come definita da Hartmut Rosa, professore di sociologia e scienze politiche: “un aumento del numero di singole azioni o esperienze in un’unità di tempo”, ovvero, sostanzialmente più attività realizzate ogni minuto e in media al giorno. Questa accelerazione porta a quanto viene definito come un malessere relativo alla frenesia della vita, o “un senso di urgenza, del tempo che vola via e della necessità di corrergli dietro,” come espresso da Eckhardt in un paper.
Per tutta risposta, le persone cercano sollievo nelle “oasi di decelerazione”, un qualcosa di ben diverso dal farsi affossare sul divano da Netflix. Eckhardt e colleghi hanno percorso il Cammino di Santiago in Spagna per intervistare i camminatori e chiedere loro da cosa stavano “scappando”. Nel 2017, il percorso è stato completato da più di 300.000 persone da 161 paesi diversi, la maggior parte delle quali non aveva intenti religiosi ma il semplice bisogno di staccare e rallentare.
Sono tre gli elementi che creano l’esperienza della decelerazione: la decelerazione concreta, quella tecnologica e infine l’episodica. La decelerazione concreta consiste nel rallentare fisicamente il corpo, ad esempio muovendosi in bici o a piedi, invece che in macchina, aereo o autobus. La decelerazione tecnologica non implica la rinuncia alla tecnologia, ma il sentire di avere un controllo su di essa. E quella episodica sottintende l’avere un minor numero di singole azioni o esperienze giornaliere. Ma non solo: significa anche avere un numero minore di attività tra le quali dover scegliere. Se qualcuno riesce ad ottenere tutti e tre questi stati—per esempio camminando lunga la rotta di un pellegrinaggio—allora la maggior parte dello stress e della pressione di una vita accelerata tenderanno a sparire.
L’ironia deriva dal fatto che questo stato decelerato è spesso un rifugio appannaggio dei più privilegiati, perché non tutti hanno i mezzi materiali per accedervi. Proprio per questo, Eckhardt ammette che prima della pandemia questo nuovo approccio stava diventando una tendenza, un nuovo simbolo del proprio status sociale—in linea con le teorie di Veblen. Vale ad esempio per il brand di Arianna Huffington, o per il libro di Tim Ferris, Four-Hour Work Week.
Durante la pandemia, diverse persone (per quanto anche loro privilegiate) hanno potuto accedere ad almeno uno di questi modi di decelerazione della vita quotidiana. Ed è una buona cosa, secondo Eckhardt. Se diventa un segnale importante e prevalente di benessere e status sociale potrebbe trasformarsi nel nuovo standard, fino a diventare un punto di svolta contro la predominanza dell’iperproduttività.
“Ragiono nei termini del ritmo generale della vita. Le persone difficilmente vorranno tornare a fare le pendolari,” sostiene Eckhardt. “Penso che molti cercheranno di mantenere il più possibile i ritmi del 2020.” Eckhardt sottolinea che se vogliamo mantenere questa decelerazione anche dopo il COVID, dobbiamo salvaguardare anche i tre aspetti già citati. Ma potrebbe anche essere molto più d’aiuto il provare a valorizzarne il senso, renderlo uno status sociale desiderabile da tutti.
Kevin Roose ha scritto sul New York Times della “YOLO economy”—un acronimo per “You only live once”, ovvero “Si vive una volta sola”, che si riferisce a chi è nel pieno della propria carriera, ma abbandona il lavoro stabile in favore di altri da svolgere da remoto, in luoghi più tranquilli e accomodanti, con meno doveri e mansioni giornaliere. Come sottolineato però dalla giornalista Anne Helen Petersen, molte persone stanno compiendo queste scelte soprattutto perché il 2020 le ha traumatizzate, esaurite e spinte oltre il punto di rottura. La frenesia della vita precedente semplicemente non gratifica più.
Può essere d’aiuto enfatizzare i benefici sociali e il piacere derivante dalla decelerazione. Nel libro Post-Growth Living, la filosofa Kate Soper descrive una vita alternativa, considerata come una forma di liberazione dal “presente dominato dal lavoro, dallo stress e dalla mancanza di tempo”. Secondo l’autrice, questo consentirebbe anche di prendersi cura della propria salute mentale e di eventuali sofferenze. Al di là del ritmo della vita individuale, la “lentezza” può anche diventare un modo per sostenere altro e altri, magari tramite il consumo e la produzione etici—che implicano dei salari migliori, un minor impatto ambientale e una miglior qualità della vita in generale.
Honoré ha dei vicini che nel 2020 si sono dedicati al volontariato e gli hanno detto che vorrebbero continuare. “Una parte importante del rallentare consiste nel crearsi le possibilità per costruire dei nuovi legami, o rafforzare quelli già esistenti. Dunque non soltanto tra amici, ma anche per mettersi al servizio di altre persone,” ribadisce Honoré. Benché quanti sono davvero riusciti a rallentare rimangono i più privilegiati, la pandemia ha dato anche ad altre persone la possibilità di accedere a quel tipo di prestazioni sociali che consentono maggior autonomia rispetto al proprio tempo e lavoro. In sostanza, si sono venute a creare reti di supporto più concrete—ad esempio, i divieti di licenziamento e sfratto.
Persino altri tipi di approcci e politiche imposte dall’alto potrebbero aiutare a mantenere questa situazione, come dimostra il caso del diritto alla disconnessione.
Ma questi cambiamenti diventeranno permanenti? Bellezza non è ottimista a riguardo, ma riconosce quantomeno che il tema ora è entrato nel dibattito pubblico, e che lei stessa ha cominciato ad applicare questa decelerazione alla sua stessa vita. Steven Taylor, un docente di psicologia presso la Leeds Beckett University che studia la crescita nei periodi post-traumatici, sostiene che i lutti e le sofferenze causate dalla pandemia abbiano portato le persone a rivalutare la vita e le relazioni, ed è speranzoso riguardo i potenziali cambiamenti sul sistema di valori.
“L’ordinamento sociale può cambiare,” ribadisce. “È influenzato dalle persone che vivono al suo interno. Cambi nell’atteggiamento portano a cambi nei comportamenti, che conducono poi a rivedere la struttura della società.” Se il tempo libero e le giornate lavorative più corte erano un tempo valorizzate e apprezzate, nulla vieta che tornino presto ad esserlo. In più, durante i mutamenti nei periodi post traumatici, le persone sono meno interessate al lavoro. “Preferiscono godersi i singoli momenti e il semplice fatto di essere vivi,” ha scritto Taylor su Conversation.
Clarke tornerà presto a New York, dopo un anno trascorso altrove, e, benché sia contenta di essere vicina agli amici, i ristoranti e la vita cittadina, vuole comunque mantenere parte delle nuove buone abitudini. “Adoro le mie mattinate lente e le giornate meno intense a lavoro, che ti permettono di fare due passi o un salto a fare un po’ di spesa,” ribadisce. “Ho ancora giornate molto piene,” precisa Clarke. “Ma ho una prospettiva del tutto inedita e ora capisco che non c’è bisogno di essere sopraffatta dal lavoro per essere apprezzata.”
Segui Shayla Love su Twitter.