Ho deciso di iscrivermi a LinkedIn pochi giorni fa, a 26 anni, che equivale ad arrivare a una festa dove non conosci nessuno alle 4 del mattino. L’ho fatto dopo aver rimandato a lungo malgrado le insistenti pressioni di tutti quegli ingegneri indiani che negli anni mi hanno implorata di entrare nella loro rete LinkedIn, e comunque non prima di aver chiesto in giro se ne valesse la pena. “Un sacco di miei amici freelance hanno trovato lavoro nel campo 3D,” mi è stato detto. Il noto campo 3D. Comunque, una mia amica che non lavora nel campo 3D mi ha detto che lei ha ottenuto dei colloqui interessanti grazie a LinkedIn.
Ho anche appurato che è possibile avere LinkedIn senza essere una di quelle persone che manda mail minatorie a chi non ha ancora accettato il loro invito—sapete chi siete. Perché LinkedIn non ti chiede di iscriverti: nasci già iscritto, stanno tutti aspettando te, il tuo rsvp. E chi sono io per rifiutare la pioggia di lavoro che mi travolgerà una volta accettato l’invito di Mutu Raj? Nessuno, quindi eccomi.
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Ore 11:00 – La prima cosa da fare per iscriversi a LinkedIn è scegliere una foto. Durante questo passaggio sono serena perché non penso di veicolare alcun messaggio. O meglio, non pensavo di veicolare alcun messaggio: un’altra amica che non ha LinkedIn mi dice che se ci provasse perderebbe giorni soltanto a scegliere quella. Inizio a prestare un’attenzione inquietante alla foto scelta. Sono venuta bene, ma sono vestita da nonna. Ho dolcevita nero, un maglione di mia nonna e un girocollo regalatomi da una nonna non mia. Entro nel mondo del lavoro già in pensione. Decido di provare a farmi un selfie seduta stante, ma sono a casa con la febbre e la mia pelle è unta e gialla. Noto anche un pelo mannaro che dalla fine del collo fa capolino sulla curva del mento. Avete presente? Quei bulbi piliferi associati al gene del “beccati questo cretina” che di solito risiedono in luoghi tanto visibili agli occhi degli altri quanto invisibili ai tuoi. Lascio sia il pelo che la foto da nonna.
Ore 12:00 – LinkedIn mi dice che il mio profilo è a livello intermedio, e per farlo progredire devo aggiungere delle competenze. Delle competenze. L’algoritmo mi suggerisce analisi dati. Paradossalmente è vero, è una mia competenza, una competenza che ripudio con fermezza. Ho studiato per un po’ roba scientifica, quindi mi hanno insegnato a programmare. Aggiungo riottosamente analisi dati (SPSS, Rlab, basi di Matlab), e improvvisamente la mia giornata si trasforma in una di quelle feste celebrative, come il Natale e San Valentino, che hanno come unico scopo quello di sbatterti in faccia una famiglia disfunzionale e la solitudine. Mi ricordo quando era primavera e studiavo sulle panche nel giardino terrazzato del convento medievale riconvertito a università di Rovereto, mi ricordo di quando parlavo un’altra lingua e che questa lingua la indossavo come una personalità diversa, che mi stava bene: una ragazza che scalava le montagne, sapeva programmare ed era serenamente sola.
Ora sono qui con il mio pelo mannaro, la febbre e compilo un profilo per un mondo del lavoro del tutto diverso da quello che mi ero immaginata non troppi anni fa. Grazie LinkedIn.
Ore 15:00 – Mi sono presa una pausa dopo la madeleine delle competenze, che per inciso non sono aumentate dopo l’analisi dati. LinkedIn continua a dirmi che se non le aggiungo i recruiter non mi vedranno. Già me li immagino questi recruiter in incognito a cercare scrittori e giornalisti. Il noto mercato in espansione dell’editoria, una giungla di cacciatori di teste che stanno solo aspettando che io, Irene Graziosi, aggiunga proprio quella competenza lì, e poi BAM! Sarà un fremere di comunicazioni, una gara a chi mi lusingherà di più proprio grazie a quella competenza in Social Media. Che mi manca. Penso ancora oggi, nel 2018, che aggiungere tag nelle foto di Instagram ti renda lo stesso tipo di persona che invia freneticamente inviti su LinkedIn: #mare #oceano #sea #LucaIsAwaitingYourResponseOnLinkedIn.
Per un attimo rifletto sulla possibilità di aggiungere l’inglese. Competenza: lingua inglese. Questa è vera, la padroneggio bene. Io e altre cinquecentomila persone solo in Lombardia. Cancello.
Ore 16:00 – Ora devo fare un resoconto delle mie esperienze educative. Liceo classico. Poi psicologia alla Sapienza perché non sapevo cosa fare; poi ho scoperto neuroscienze, mi sono sbattuta e ho fatto domanda centro di ricerca nelle prealpi dove prendevano 20 persone in tutto il mondo. E mi hanno presa!
Quindi Liceo Classico Tasso, Facoltà di Medicina e Psicologia alla Sapienza, CIMeC. E fin qui. Se non fosse che LinkedIn continua a sostituirmi Psicologia con Management. Management Sapienza. Non ho studiato Management e onestamente dubito che alla Sapienza, luogo in cui per rifiutare un esame devo mandare un fax, esista la facoltà di Management. Tra l’altro studiare Management a Roma è un concetto ossimorico che mi spezza il cuore.
Ore 16:30 – Sono riuscita a togliere Management e a inserire la mia facoltà, non senza sviluppare sfoghi cutanei da stress. Ora tocca alle cose che faccio nel 2018, principalmente scrivere e tradurre. Sono solo due cose, due briciole. Quale cacciatore di teste editoriale mi noterebbe?! In preda alla sfiducia decido di fare come si fa in ambito accademico: mi eiaculo addosso.
Scrivo: “Malgrado il mio profondo interesse per le neuroscienze, mi sono accorta presto (fortunatamente per me) che non era la strada che mi avrebbe resa felice.” Proseguo: “Mi sono trasferita a Milano e ho iniziato a collaborare con VICE Italia, un’azienda che mi ha permesso di avvicinarmi al mondo culturale, composta da persone giovani e stimolanti.” Ancora: “Con VICE ho iniziato a scrivere, tradurre e condurre documentari video, attività che mi hanno resa felice.” E aspettate, perché non ho finito: “Credo che il mio passato accademico mi abbia permesso di costruire un prisma complesso attraverso cui codificare il mondo e i fenomeni che lo percorrono.”
Giuro, per qualche ora, fino alle 22, mi è sembrato ok.
Ore 22:00 – Sono sul divano di casa fatta come una pigna e sto leggendo un libro. A un certo punto tra le pagine spunta la parola “prisma”. COSA CAZZO HO SCRITTO SU LINKEDIN.
“Mi sono trasferita a Milano e ho iniziato a collaborare con VICE Italia, un’azienda che mi ha permesso di avvicinarmi al mondo culturale, composta da persone giovani e stimolanti.” Ma cos’è, una pubblicità progresso per VICE? Che problemi ho? Ma soprattutto, quante volte cito la parola felicità? Non sono felice, voglio essere felice, allora non ero tanto felice. Sono la versione ibridata tra Licia Colò e Kate Bush.
“ Credo che il mio passato accademico mi abbia permesso di costruire un prisma complesso attraverso cui codificare il mondo e i fenomeni che lo percorrono.” Un prisma complesso? Se fossi un cacciatore di teste editoriale nel mondo ricco e in espansione della carta e dell’online mi starei cercando un altro lavoro prima di subito. “Basta cazzo, non posso più fare il cacciatore di teste dell’editoria perché una ha appena scritto che vede il mondo attraverso un prisma complesso dopo aver studiato psicologia. Ora iscrivo a LinkedIn e cerco qualcos’altro, affanculo tutto.”
Ore 23:00 – Ho distrutto l’anima di Kate Colò e ho lasciato solamente “Perfetta padronanza della lingua inglese; ho studiato psicologia, neuroscienze cognitive e psicopatologia dello sviluppo. Scrivo, traduco e conduco da freelance per VICE.”
La tachicardia è diminuita, il mio profilo sembra completo e ora posso andare a vedere i profili di un po’ di gente. Leggo chi ha studiato cosa, confronto diversi profili. Torno sui profili sui quali avevo un dubbio. Cerco i direttori di giornali, gli stagisti, i miei ex compagni di liceo. Immagino il difficile percorso emotivo di chi ha compilato quei profili, cerco un po’ di boni e di bone e relativi fidanzati boni e bone. Confronto le foto dei boni su Facebook e su LinkedIn per capire se anche i maschi si siano interrogati sulla foto.
Poi vado a dormire, placida.
10:36 del giorno dopo:
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