Nel 1966 un gruppo di sei adolescenti fu ritrovato sull’isola di ‘Ata, nell’arcipelago di Tonga, dall’avventuriero australiano Peter Warner. I ragazzi erano dispersi da 15 mesi: come hanno poi raccontato loro stessi, la vicenda era iniziata con un viaggio in barca dal porto di Nuku’alofa, l’isola dove vivevano e che si trova 160 chilometri più a sud.
Doveva essere un’avventura tra amici; ma quando una tempesta ha danneggiato la bagnarola, i giovani erano rimasti alla deriva senza acqua o cibo per otto giorni, prima di naufragare sulle rive di ‘Ata. Lì avevano costruito una capanna e acceso un fuoco, e nel corso dei mesi sono sopravvissuti mangiando pesce, banane e papaya.
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La notizia del ritrovamento aveva sconvolto molti, all’epoca. Il fotografo di Sydney John Carnemolla fu spedito sull’isola insieme ai ragazzi per documentare il modo in cui avevano vissuto. Nonostante la storia del gruppo abbia raggiunto le testate di tutto il mondo, con il passare del tempo è finita nel dimenticatoio—fino a maggio del 2020, quando è stata rispolverata dall’autore Rutger Bregman.
Finora, nessuno dei ragazzi aveva rilasciato un’intervista audio completa dell’avventura. Sione Filipe Totau, noto ai più come Mano e oggi 74enne, ha raccontato a VICE l’esperienza vissuta quando aveva 19 anni. Questo articolo è un piccolo estratto, che potete ascoltare in forma integrale (e in inglese) nell’episodio dedicato ai fatti del podcast di VICE Extremes.
Ecco il racconto di Sione Filipe Totau:
Sono cresciuto a Ha’afeva, nell’arcipelago di Tonga. Quando ho iniziato a studiare geografia e storia, e ho scoperto l’esistenza di Fiji, Nuova Zelanda e Australia, ho notato che erano tutte isole molto molto più grandi della mia, che è minuscola. Non facevo che chiedermi: “Come faccio ad andarmene da qua?”. Volevo vedere il mondo.
Un giorno, uno dei miei compagni di scuola mi ha detto: “Andiamo alle Fiji, vuoi venire?” Aveva intenzione di rubare una barca. E io ho risposto, “Ok, vengo anch’io!” Dopo scuola, quel giorno, siamo andati a scegliere una barca. C’era un tizio che ormeggiava la sua nello stesso punto tutti i giorni, sempre tra le sei e le sette di sera. Così, quando lo abbiamo visto andarsene, abbiamo preso la barca e siamo salpati.
Eravamo in sei, tra i 15 e i 19 anni. Uno di noi, dato che suo padre aveva una barca uguale a quella, era piuttosto esperto di navigazione. Abbiamo tirato su la vela e siamo usciti dal porto. Tirava un buon vento.
Quando ormai non si vedevano più le luci d Nuku‘alofa, a notte fonda, il vento ha iniziato a tirare molto più forte e le onde sono diventate alte. È sopraggiunta una tempesta e noi non abbiamo avuto la prontezza di tirare giù la vela, così è stata strappata dal vento.
Il giorno successivo pioveva e noi eravamo alla deriva nel mezzo dell’oceano. Abbiamo raccolto l’acqua piovana in alcune lattine che abbiamo trovato a bordo, ma non avevamo cibo. Alcuni di noi hanno iniziato a piangere—ma non c’era nulla che potessimo fare. Abbiamo cercato di farci forza a vicenda. Avevo paura che saremmo morti.
Abbiamo navigato trasportati dalla corrente per otto giorni, e all’ottavo abbiamo avvistato l’isola di Ata. Saranno state circa le nove di mattino e l’isola era ancora parecchio lontana—ma lentamente, lungo la giornata, il vento ci ha portati sempre più vicini.
L’abbiamo raggiunta intorno alle 11 di sera. È un’isola vulcanica, piuttosto alta, e noi siamo arrivati con l’oscurità più totale. Abbiamo recitato una preghiera e io ho detto agli altri ragazzi: “non uscite dalla barca finché non ho capito cosa c’è laggiù.”
Sono saltato fuori dalla barca e ho nuotato tra le onde. Quando sono arrivato alla spiaggia, ho notato che l’intera isola si contorceva. Poi ho capito: non era l’isola, ero io. Mi girava la testa tantissimo, dopo otto giorni senza acqua e cibo. Appena ho ripreso fiato, ho chiamato gli altri. “Ehi, ehi! Sono qua!”
Sono arrivati sulla battigia a loro volta, tutti vivi. Ci siamo riuniti per recitare un’altra preghiera, tenendoci stretti e piangendo.
Ascolta la storia di Mano raccontata con la sua voce:
Siamo crollati e non ci siamo svegliati finché il sole non è sorto la mattina dopo. La priorità era trovare un modo per salire in cima all’isola. Ci siamo arrampicati e a un certo punto ho messo un piede su un pezzo di legno, che era bagnato fradicio. L’ho preso in mano e l’ho spezzato, pezzo pezzo, e l’ho spremuto sulla mia mano, per poi leccarla. Era la prima acqua che bevevo in otto giorni.
Arrivati in cima, abbiamo guardato giù verso le scogliere che ci circondavano. Ci siamo sentiti incredibilmente vivi. Eravamo su terra ferma, e questo di per sé ci dava molta più speranza del restare alla deriva.
Abbiamo cercato di accendere un fuoco, ma era tutto ancora bagnato dalla tempesta. Abbiamo continuato a provare ogni giorno, e in più andavamo in spiaggia in cerca di crostacei. Abbiamo trovato degli alberi di papaya e delle palme di cocco, e finalmente abbiamo recuperato abbastanza energia per sfregare due pezzi di legno insieme con la forza necessaria per accendere un fuoco. Ci sono voluti tre mesi per riuscirci: è stato il nostro primo pasto caldo.
Il passo successivo è stato costruire una piccola casa. Io sapevo come intrecciare le fronde del cocco e abbiamo imbottito le pareti della capanna in quel modo. Mi ci sono volute due settimane per intrecciarne abbastanza, poi abbiamo sistemato l’interno. Abbiamo messo un falò al centro, e abbiamo fatto un letto per ognuno con le foglie del banano. Poi ci siamo organizzati: come tenere vivo il fuoco, come recitare le preghiere, come prenderci cura dei banani. Abbiamo lavorato tutti insieme, come se vivessimo su quell’isola da tutta la vita.
Non posso dire di aver mai amato quell’isola. Volevo tornare a casa, dalla mia famiglia. Ecco perché, dopo un mese, abbiamo iniziato a costruire una zattera. Abbiamo abbattuto un paio di grossi alberi e abbiamo usato il fuoco per levigarli. Abbiamo costruito la zattera e tentato di spingerla al largo, ma non funzionava. Tornava sempre lentamente verso la spiaggia. Abbiamo capito che non saremmo mai scappati.
Cercavo di non pensare troppo a quanto tempo era passato dal nostro naufragio. Vivevo nella speranza che sarebbe successo qualcosa; che l’indomani ci avrebbe portato qualcosa di buono. Non mi è sembrato di passare 15 mesi laggiù.
Finalmente, un giorno, abbiamo visto una barca avvicinarsi all’isola. Steven è stato il primo di noi ad avvistarla: si è tuffato in mare e ha nuotato fino a raggiungerla. Il capitano, il signor Warner, ci ha raccontato successivamente che uno dei suoi marinai aveva detto “sento una voce umana,” ma che lui gli aveva risposto “no, sono solo gli uccelli.” Proprio in quel momento hanno visto Steven in acqua. Poi hanno guardato verso riva e hanno notato cinque ragazzi nudi, con i capelli lunghi e arruffati.
Non so descrivervi ciò che ho provato. Eravamo emozionatissimi. Eravamo sopravvissuti tutti e io avrei rivisto la mia famiglia.
Tornati a casa, abbiamo festeggiato per tre giorni. La prima festa è stata organizzata dalle nostre famiglie, la seconda dalla chiesa e la terza da tutta l’isola.
Quando ripenso a quei mesi sull’isola, mi rendo conto che abbiamo imparato tantissimo. E quando confronto quegli insegnamenti con ciò che ho ricevuto dalla scuola, non c’è paragone. Perché sull’isola ho imparato a fidarmi di me stesso. Mi rendo conto ora che non importa chi sei; non importa di che colore sei, che razza, niente di tutti quei discorsi ha importanza. Perché se sei davvero nei guai, alla fine ti chiedi solo cosa devi fare per sopravvivere.
Questo è un breve estratto di una puntata del nostro podcast, Extreme. Puoi ascoltarlo per intero solo su Spotify.