Due ex ministri etiopi accusati di genocidio vivono da 24 anni in un’ambasciata italiana

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Sono trascorsi quasi 25 anni da quando in Etiopia è stato rovesciato il regime militare del Derg, appoggiato dall’Unione Sovietica.

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Il 27 maggio 1991, mentre una coalizione di forze ribelli si avvicinava alla capitale Addis Abeba, quattro ministri di punta del governo – accusati di genocidio – approfittarono del buio per rifugiarsi all’interno dell’Ambasciata italiana.

Quella notte ebbe inizio una storia di suicidi e assassini.

Ad oggi, resta sconosciuta l’identità della persona che permise ai politici di varcare la soglia dell’ambasciata. Secondo le verifiche effettuate da VICE News, due ex ministri si trovano ancora all’interno dell’edificio. Gli altri due, invece, sono morti.

Il primo a morire fu l’ex Primo Ministro Hailu Yimenu, che si tolse la vita nel 1993. Undici anni dopo, nel 2004, morì anche l’ex Ministro della Difesa e Comandante Militare in Eritrea, Tesfaye Gebre Kidan. Si ritiene che Kidan sia stato assassinato durante una “rissa” dal collega Berhanu Bayeh, ex Ministro degli Esteri e grande sostenitore del leader del Derg, Menghistu Hailè Mariàm.

VICE News ha potuto verificare che Bayeh e l’ex Capo di Stato Maggiore Addis Tedla vivono ancora nell’ambasciata italiana di Addis Abeba, dove si trovano da ben 24 anni, in un rifugio che è diventato anche una prigione.

A quindici anni dal loro ingresso nell’ambasciata i due uomini, che oggi hanno più di 70 anni, sarebbero stati condannati a morte per il loro ruolo nelle uccisioni di massa perpetrate dal Derg durante gli anni ’70 e ’80.

A settembre, VICE News ha visitato il quartiere di Addis Abeba in cui si trova l’ambasciata italiana.

L’ambasciata italiana ad Addis Abeba. (Foto di Sally Hayden/VICE News)

A destra dell’ingresso, una lunga strada in salita si estende per oltre un chilometro. Alcuni ragazzi giocano a calcio incuranti della pioggia, dei bambini chiedono l’elemosina agli stranieri di passaggio. Dalle case-baracche in metallo, erette a pochi metri dalla cinta dell’ambasciata, si alza un filo sottile di fumo.

Grandi alberi si stagliano sopra il filo spinato che circonda il perimetro dell’ambasciata, e ogni ingresso è presidiato da telecamere a circuito chiuso. Alcuni cartelli in inglese, italiano e amarico, appesi a un cancello laterale, istruiscono i visitatori sulla procedura migliore per richiedere un visto di studio – ‘assicuratevi che i vostri genitori siano disposti a pagarvi vitto e alloggio’ – e sull’orario in cui gli eritrei possono presentarsi agli appuntamenti, il martedì alle 8.30.

Una donna italiana residente ad Addis Abeba – che è entrata nell’ambasciata svariate volte – ci ha raccontato di essere rimasta “sorpresa, ma neanche troppo” di sentire che due ex ministri del governo Derg vivano ancora al suo interno.

Secondo la donna, all’interno l’ambasciata non è proprio il centro del mondo, anche se a volte i diplomatici vi organizzano delle gare di equitazione. Il suo pensiero è rivolto alla madrepatria, dall’altro lato del Mediterraneo: “Anche il nostro governo ci tiene nascoste molte cose. Sono tanti i misteri del nostro passato di cui non sappiamo nulla.”

Con una dichiarazione diffusa nel 2004, l’Italia ribadì che non avrebbe consegnato all’Etiopia gli ex funzionari del Derg, aggiungendo che “le autorità etiopi sono a conoscenza della posizione italiana sulla questione.”

Undici anni dopo, interpellati da VICE News, i funzionari italiani hanno confermato la loro posizione.

“Data la natura della questione, abbiamo sempre preferito non rilasciare interviste ai giornalisti. Abbiamo privilegiato un canale di comunicazione con le associazioni per i diritti umani e le ONG,” ha spiegato via e-mail il Primo Segretario Giuliano Fragnito De Giorgio.

“Posso confermare che due ex alti funzionari del Derg sono presenti all’interno dell’ambasciata italiana. Confermo inoltre che il governo italiano non può costringerli a lasciare l’ambasciata (che secondo il diritto internazionale è territorio italiano) finché corrono il rischio di essere uccisi. È un obbligo che deriva dal nostro sistema giudiziario.”

Fragnito ha spiegato a VICE News che Bayeh e Tedla non hanno mai ricevuto asilo politico e aggiunto che, secondo le informazioni in suo possesso, non sono assistiti da un avvocato.

“Finché corrono il rischio di essere uccisi, il governo italiano non può costringerli a lasciare l’ambasciata.”

VICE News ha chiesto un commento sulla vicenda al governo etiope, senza tuttavia ricevere risposta.

Nel frattempo, la moglie e i figli di Tedla si sono trasferiti negli Stati Uniti. Nel 2004 chiesero al governo americano di aiutarlo, ma la questione è poi rimasta irrisolta.

Felix Horne di Human Rights Watch, esperto di Etiopia ed Eritrea, ha spiegato a VICE News che, nel caso in cui i due uomini dovessero uscire dall’ambasciata, lui avrebbe “svariate perplessità sulla messa in atto di un giusto processo.”

L’Etiopia oggi: più soldi, poca libertà

Negli ultimi 25 anni, in Etiopia, molte cose sono cambiate. Nella capitale, le conseguenze degli investimenti sauditi, yemeniti e cinesi sono visibili ovunquebasta vedere i grandi edifici incompiuti, ancora incorniciati dalle impalcature di legno, la “suggestiva” Rotonda dell’amicizia Etiope-Cinese, o il numero crescente di locali e bar di qualità.

Ad Addis Abeba si svolgono molte conferenze internazionali: qui sorge la sede dell’Unione Africana, hanno avuto luogo i negoziati di pace per il Sud Sudan, ed è stata battezzata la nascita del primo servizio ferroviario elettrico dell’Africa subsahariana. Una stanza d’albergo nella capitale etiope arriva a costare decine di volte di più rispetto a un alloggio nelle zone rurali del paese.

Un trend positivo confortato anche dai dati: secondo la Banca Mondiale, entro il 2017 l’economia etiope crescerà più rapidamente di ogni altra. Tuttavia, questo sviluppo economico è arrivato a caro prezzo.

Se i critici definiscono da tempo l’Etiopia uno “stato di polizia,” oggi anche l’etiope medio sembra essere consapevole di vivere in un paese che non gli garantisce la totale libertà a causa della censura, dei rigidi controlli sulla stampa, e delle “tecnologie di spionaggio” importate dalla Cina.

Il partito al potere ha vinto le elezioni di quest’anno con una maggioranza schiacciante, di poco inferiore al 99,6 per cento di voti ottenuto nel 2010. I media stranieri spesso definiscono il governo etiope un “regime.”

Il giornalismo locale è sotto stretto controllo governativo. Stando a Human Rights Watch, nel 2015 nessun paese al mondo ha arrestato tanti giornalisti quanti l’Etiopia. La visita di quest’anno del Presidente americano Barack Obama ha destato scalpore: secondo le associazioni per i diritti umani, attraverso la sua visita Obama ha contribuito a legittimare un governo discutibile.

L’Etiopia fino al 1991: il Derg del “Terrore Rosso”

L’assenza di democrazia è una costante della storia etiope. Nel 1974, un comitato di militari noto come il Derg assunse il potere dopo avere detronizzato Hailé Selassié, il ras che aveva governato dal 1930 al 1936 e tra il 1941 e il 1974. Il gruppo ordinò immediatamente l’esecuzione – senza processo – di 61 ex funzionari del governo, e lo stesso Selassié fu ucciso nel 1975. Il corpo del sovrano, un tempo seguito e venerato dal suo popolo come una divinità, venne sepolto sotto gli uffici del nuovo capo di stato Menghistu Hailè Mariàm—secondo alcuni, esattamente sotto al suo bagno.

Il Derg, di dichiarata ispirazione comunista, introdusse una serie di riforme tra cui la nazionalizzazione delle terre, delle banche e delle compagnie assicurative. Lanciò inoltre un programma che prevedeva l’invio di 10,000 studenti nelle campagne come insegnanti, nel tentativo di scongiurare a priori ogni possibile rivolta giovanile nei centri del potere.

Il Derg si distinse anche per i numerosi omicidi di massa, dando vita al sanguinoso periodo del “Terrore Rosso.” Molte vittime del Derg furono studenti e sostenitori dell’unico movimento di opposizione, il Partito Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRP). Per recuperare i corpi dei figli uccisi, i genitori delle vittime venivano costretti dalle milizie a pagare il costo dei proiettili utilizzati durante le esecuzioni.

I resti delle vittime del regime del Derg in mostra al museo del “Terrore Rosso” di Addis Abeba.

Secondo una stima di Amnesty International, il Derg giustiziò circa 500,000 persone tra il 1977 e il 1978.

La violenza del Derg si è poi gradualmente ridotta. Il decimo anniversario della salita al potere, tuttavia, ha coinciso con la carestia del 1984 – resa famosa in occidente da Bob Geldof e dal suo Live Aid -, che si pensa sia stata esacerbata dal malgoverno.

Quando il regime Derg venne rovesciato nel 1991, il nuovo governo etiope istituì una sorta di “Norimberga africana“, un processo per crimini di guerra che si concluse solo nel 2006 e al quale – pur di assistere alla condanna dei propri oppressori – le persone percorsero centinaia di chilometri per raggiungere la sede del Ministero per la Programmazione Centrale di Addis Abeba, dove si svolgevano le udienze.

“Durante il periodo del Terrore Rosso, tra il ’77 e il ’78, il Derg avrebbe ucciso mezzo milione di persone.”

Senza la credibilità di un tribunale internazionale indipendente, i processi sono stati costellati da accuse di ingiustizie e violazioni dei diritti umani dei prigionieri—molti degli imputati sono stati detenuti per anni prima del processo, salvo poi essere rilasciati per mancanza di prove.

Il Derg poteva contare su più di 100 funzionari. Durante il processo, il cui primo grado si è concluso nel 2006, 73 alti esponenti del Derg furono giudicati colpevoliper crimini contro l’umanità e genocidio (per ragioni politiche), omicidio aggravato, abuso di potere e detenzione illegale. Tra questi figurano otto dei 12 membri del comitato centrale accusati di aver ucciso l’imperatore Selassié, il Patriarca della Chiesa Ortodossa Etiope, 59 membri della corte imperiale e quasi 2,000 membri di gruppi rivoluzionari rivali o sostenitori dell’imperatore.

Tra i 25 imputati che furono giudicati in absentia ci sono anche gli “ospiti italiani” Bayer e Tedla.

Menghistu Hailè Mariàm, il “Negus Rosso” che fu leader del Derg, è stato condannato a morte. Dal 21 maggio 1991 si è rifugiato in Zimbabwe, dove è scappato in aereo con la scusa di dover far visita a un campo di addestramento militare e, ricevuto come ospite ufficiale dal Presidente Robert Mugabe, è riuscito a ottenere l’asilo politico. Lo Zimbabwe spiegò che si trattava di una sorta di risarcimento: Menghistu e il regime Derg avevano aiutato lo Zimbabwe durante la sua “lotta per l’indipendenza.” Oggi, Menghistu vive ancora in un sobborgo di Harare.

Il museo del “Terrore Rosso” di Addis Abeba sta ancora raccogliendo i nomi delle vittime.

Il Museo del “Terrore Rosso” di Addis Abeba – situato accanto alla storica Piazza Meskel, che all’epoca del Derg si dice ospitasse un ritratto di Karl Marx – custodisce pile di scheletri. Alcuni corredati da nomi, fotografie e oggetti personali, altri meticolosamente distribuiti in scatole a seconda del tipo di ossa.

Quasi tutte le guide che lavorano al museo, aperto nel 2010, furono vittime di tortura durante il regime comunista, e alcune ne portano ancora i segni: cicatrici da ustione, lacerazioni inflitte dalle fruste, piedi e mani cui è stato amputato qualche dito.

Sebbene i visitatori escano dal museo con un’orribile sensazione addosso, i critici ritengono l’esposizione troppo semplicistica. “Con ogni nuovo presidente viene allestito un museo,” ci ha spiegato fuori dall’edificio uno studente dell’Università di Addis Abeba, prima di definire “propaganda” gran parte del museo.

“Il museo racconta una storia semplificata rispetto a quella che invece è stata documentata nei processi,” ha confermato Jacob Wiebel, professore di storia africana all’Università di Durham.

“[Nei processi] è emersa una storia molto più disordinata. Nel museo la sofferenza delle vittime cittadine del Terrore Rosso non è differenziata in modo chiaro dalla violenza della guerriglia che ha formato il governo attuale.”

“I due ex ministri andrebbero certamente in prigione, ma una condanna a morte sarebbe molto improbabile.”

Wiebel ha recentemente scritto la sua tesi di dottorato sul periodo del Terrore Rosso in Etiopia, quindi conosce da vicino la vicenda dei ministri del Derg rifugiatisi nell’ambasciata italiana. “Una cosa che mi intriga molto è il sospetto che uno di loro ne abbia ucciso un altro all’interno dell’edificio. Nessuno è riuscito a verificare la notizia, ma se fosse vera si tratterebbe di un omicidio avvenuto su suolo italiano che è rimasto senza conseguenze,” ha spiegato Wiebel.

Wiebel ha ribadito che l’Italia non vuole espellere i due uomini dall’ambasciata per evitargli la pena capitale, sebbene molte delle condanne a morte per i membri del Derg alla fine siano state ridotte a ergastoli. “Andrebbero certamente in prigione, ma una condanna a morte sarebbe molto improbabile,” ha aggiunto Wiebel.

Nel secolo scorso, l’Italia ha colonizzato l’Eritrea e occupato l’Etiopia—e le conseguenze dell’occupazione sono ancora molto evidenti. La maggior parte dei ristoranti servono pasta e pizza, e sui menù si possono trovare fianco a fianco la carbonara e i piatti più tradizionali come shiro, kitfo, firfir e tibs. Wiebel ha fatto notare che le relazioni tra l’Italia e l’Etiopia sono oggi “molto cordiali. [Sono] incentrate sullo sviluppo economico e sul sostegno allo sviluppo.”


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Tutte le fotografie sono di Sally Hayden/VICE News, tranne l’immagine
di apertura pubblicata da Adam Jones con licenza Creative Commons.