Questo articolo è stato pubblicato in versione originale su openDemocracy, nella sezione 50.50 della piattaforma.
Un anno fa, ho scritto un articolo intitolato ‘L’unica persona nera nella stanza’. Sì, nera. Non abbiamo una parola italiana per brown—be’, ce l’abbiamo, è marrone, ma non si dice che una persona è marrone. Qui in Italia, le persone non bianche sono o nere o di colore. Questo articolo riguardava principalmente la mia esperienza di persona nera che si è trovata a vivere, lavorare e parlare in stanze piene di gente bianca.
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Come giornalista, da tempo scrivevo di italiani figli di genitori immigrati (le cosiddette ‘seconde generazioni’), identità e migrazione, ma quel pezzo ha rappresentato un momento di svolta per me. Penso che sia stato il primo articolo a descrivere, senza filtri, il razzismo dilagante nella società italiana: non si trattava solo di gente che si lasciava sfuggire la parola con la N, aggrediva le persone, o sosteneva che i migranti dovessero morire nel Mediterraneo. Non era solo un razzismo che potevi vedere, era un razzismo che potevi sentire.
L’ho sperimentato io stessa in stanze piene di intellettuali italiani dove ero l’unica persona di colore [inteso all’inglese, person of color]; quando mi è stato chiesto di commentare gli attacchi terroristici di Pasqua in Sri Lanka nel 2019, su un canale televisivo nazionale, e non avevano trucco appropriato per la mia carnagione; quando sono tornata a casa una sera, ho acceso la tv e ho capito che non c’erano personaggi che mi somigliassero.
Un paio di giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, quello che poi sarebbe diventato l’editor del mio libro mi aveva scritto. “C’è un libro in questo pezzo,” aveva detto. “Sei interessata a scriverlo?” Ho poi dedicato l’ultimo anno a fare ricerche, leggere e concentrarmi su razza e razzismo [il libro uscirà l’anno prossimo per 66thand2nd]. Non è stato un compito facile: in Italia, la gente non vuole nemmeno pronunciare la parola razzismo, figuriamoci parlarne.
Mentre stavo lavorando sul libro, George Floyd è stato ucciso a Minneapolis. Non avrei mai pensato che la notizia potesse attraversare l’Atlantico con tale forza. Ma improvvisamente tutti i media italiani erano concentrati sul razzismo endemico americano, sulla brutalità della polizia e sulle uccisioni di afroamericani. Sono rimasta sorpresa.
Tuttavia, sono stati altrettanto veloci nel dire che il razzismo americano non ha nulla a che fare con quello europeo—secondo alcuni giornalisti, “In America la parola ‘razzismo’ ha un significato più complesso.”
Non sono necessariamente d’accordo con quel commento. La definizione del razzismo sistemico è la stessa negli Stati Uniti come in qualsiasi altro luogo: è la normalizzazione e legittimazione di una serie di comportamenti (culturali, storici, istituzionali) che avvantaggiano costantemente i bianchi e producono conseguenze negative per quelli che bianchi non lo sono.
Semmai, credo che il razzismo sia più complesso da questa parte dell’Atlantico. La differenza principale tra Europa e Stati Uniti è che per moltissimo tempo gli europei hanno praticato il loro razzismo all’estero. In Italia, il razzismo sistemico non è radicato nella segregazione, come in America, ma nel colonialismo e, più recentemente, nell’immigrazione.
In una certa misura, la mancanza di volontà dell’Italia di affrontare il suo passato coloniale ha creato uno spazio per la negazione, la distorsione storica e, in ultima analisi, l’idea che gli italiani non possano essere razzisti.
Storicamente in Italia non abbiamo mai avuto una società polarizzata tra nero e bianco e questa è una delle ragioni per cui il razzismo sistemico può essere più difficile da identificare qui. La sua esistenza non è confermata delle statistiche etniche, come succede nel Regno Unito o negli Stati Uniti (i censimenti in Italia non chiedono alle persone la loro etnia). La prova sta nell’esperienza collettiva degli italiani non bianchi—che sono raramente ascoltati.
Nella narrativa sulle proteste in corso negli Stati Uniti, ancora una volta i nostri media non sono riusciti a riconoscere gli italiani di colore che stanno lottando per una giustizia razziale sul nostro territorio. Se le persone che lavorano nei media italiani percepiscono il razzismo americano come una cosa abbastanza lontana dalla società italiana, è perché il giornalismo in Italia è un’industria quasi totalmente bianca.
È piuttosto ambizioso (per usare un eufemismo) parlare di razzismo per un bianco, qualcuno che non l’ha mai provato sulla propria pelle. Le proteste transnazionali sono state liquidate come manifestazioni di solidarietà con l’America Nera, #BlackLivesMatter, ma gli italiani di colore stanno protestando anche per le lotte quotidiane contro il nostro razzismo endemico.
A Milano, una grande folla si è radunata davanti alla stazione centrale. Alcune persone portavano cartelli con scritti dei nomi: Idy Diene, Emmanuel Chidi Namdi, Assane Diallo, Soumalia Sacko e tanti altri, tutte vittime del razzismo nostrano.
Alcuni mi hanno chiesto se la copertura mediatica italiana sulla morte di George Floyd possa avere un impatto a lungo termine sul modo in cui la razza viene affrontata in Italia. Sono scettica.
Certamente, non posso non sperare che questo momento e questa reazione possano incoraggiare una conversazione pubblica e onesta sulle questione razziale in Italia. Ma questo è ancora un paese in cui politici apertamente razzisti sono invitati dai giornalisti nei programmi TV per esprimere le loro opinioni non democratiche, in nome della “libertà di parola”.
Penso che non puoi cancellare da un giorno all’altro, per esempio, il ricordo di Gianluca Buonanno, un parlamentare italiano (Lega), che descrisse le persone rom come “la feccia della società,” solo perché una manciata di giornalisti italiani sta scrivendo della morte di George Floyd e delle sue conseguenze in America. Io certamente non posso.