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Perché l’Italia non riesce a fare i conti con il razzismo sistemico

razzismo sistemico

Nelle ultime settimane, le aggressioni a sfondo razziale in Italia a noi note sono state pari a sei.

C’è l’omicidio di Alika Ogorchukwu, un uomo nigeriano di 39 anni, a Civitanova Marche; le percosse a Beauty David, una giovane donna nigeriana di 25 anni picchiata dal datore di lavoro per aver chiesto la paga dovutale; il fermo violento di Chen Chaohao, un giovane di 22 anni malmenato da alcuni agenti di polizia, da lui stessi chiamati dopo un diverbio con una cliente del suo negozio; e l’accoltellamente di un ragazzo marocchino di 22 anni (il cui nome non è stato reso pubblico), colpito alle spalle da un uomo di mezz’età a Recanati. 

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E ancora: l’ingresso negato in piscina a una famiglia nigeriana ad Asti, perché per l’appunto si trattava di nigeriani. Poi c’è l’aggressione verbale a Andi Nganso, medico di turno al pronto soccorso di Lignano Sabbiadoro (Udine).

Usiamo l’espressione “a noi note” perché le persone soggette a questo tipo di episodi sono tante, e non tutte hanno la possibilità di girare un video o di denunciarle in altri modi. 

I casi citati qui sopra derivano da diverse forme di oppressioni, odio e razzismo. Quello di Ogorchukwu, ad esempio, è legato alla povertà e all’abilismo; quello di David al lavoro e quello di Chaoao all’abuso di potere. Eppure, seguendo il solito copione, la narrazione prevalente ha parlato di casi isolati provocati da momenti di rabbia incontrollata, oppure da “raptus,” o ancora da azioni irrazionali dettate da fragilità psichiatriche

Non è la prima volta che succede. Anzi: osservando la lunga lista di nomi delle vittime di questi crimini d’odio, emerge chiaramente il motivo per cui nella società italiana è difficile comprendere le complessità e problematicità che ne stanno alla base. Se non si crede all’esistenza del razzismo, della xenofobia e della islamofobia come si può credere al fatto che queste cose sono in grado di uccidere? 

Il movente che ha spinto Filippo Ferlazzo—l’assassino di Alika Ogorchukwu, attualmente in custodia cautelare in attesa del processo—così come il neofascista Luca Traini (l’attentatore di Macerata), Amedeo Mancini (che nel 2016 ha ucciso Emmanuel Chidi Nnamdi a Fermo), e tante altre persone che hanno assunto un comportamento violento è infatti l’intenzione: ossia la volontà di ledere una persona che si ritiene subordinata per motivi razziali, di classe, religiosi, di genere, di orientamento sessuale e simili. 

Traini, ad esempio, aveva chiaramente detto ai pubblici ministeri dopo l’arresto che “il mio obiettivo erano i neri che spacciano droga a Macerata.” Eppure quella matrice così lampante è stata minimizzata subito dopo l’attentato, e ha continuato a esserlo fino all’ultima udienza in Cassazione (che ha confermato la condanna per tentata strage aggravata dall’odio razziale). 

Il legale di Traini, infatti, ha affermato che “non c’è odio razziale: i neri vengono identificati come i responsabili dello spaccio di droga […], potevano essere anche gialli o pellerossa e il discorso sarebbe stato lo stesso.” 

Per quanto riguarda l’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi, Mancini ha sempre frequentato ambienti fascisti nonché tenuto comportamenti apertamente razzisti: a detta del fratello, infatti, “quando vede dei neri tira loro le noccioline, ma lo fa per scherzare.” Anche in questo caso, però, la matrice è stata rimossa; un editoriale dell’epoca aveva derubricato l’accaduto a una semplice “rissa,” come se il carnefice e la vittima avessero le stesse responsabilità. 

Insomma: dal 1979—anno della morte di Ahmed Ali Giama, un giovane uomo somalo bruciato vivo a Roma mentre dormiva sotto un ponte—a oggi, l’unica cosa che si sceglie di non vedere e menzionare è la volontà dell’atto, nonostante quest’ultima sia chiaramente percepita e più volte denunciata dalle persone razzializzate. 

Il problema si riflette anche a livello legale. Gli atti di razzismo sono puniti dalla legge Mancino del 1993, che nel 2018 è stata modificata e ampliata con due nuovi articoli—il 604-bis e il 604-ter. Quest’ultimi disciplinano fattispecie di propaganda di idee fondate sulla superiorità di razza/etnia, istigazioni o commissione di atti violenti legati alle medesime idea e punisce la formazione di associazioni aventi lo scopo di propaganda o discriminazione razziale.

La norma però non definisce cos’è effettivamente un atto razzista in tutte le sue varie sfaccettature. Manca del tutto qualsiasi riferimento alle discriminazioni che non prevedono la violenza fisica, e manca una tutela per le barriere istituzionali che concorrono alla formazione del razzismo sistemico, come il possesso della cittadinanza come requisito per accedere a certi concorsi pubblici o benefici individuali. Un chiaro esempio di come le istituzioni possono creare barriere altamente discriminanti per determinate categorie di persone, agevolandone la marginalizzazione e la discriminazione.

In definitiva, la legge punisce l’atto (l’aggressione) e considera l’aspetto del razzismo (l’insulto “sporco n*gro,” ad esempio) solo come aggravante—ossia come qualcosa che può essere o meno preso in considerazione. Le due cose sono collegate: il primo esiste anche senza la seconda, ma non viceversa. 

Dal 2016, con il cosiddetto decreto “svuota carceri”—che nasce dalla necessità di arginare il problema dello sovraffolamento delle prigioni attraverso la depenalizzazione di reati minori—l’ingiuria non è più un reato, per cui oggi rappresenta un illecito civile. Oggi dunque non c’è più la possibilità di querelare chi pronuncia parole offensive o insulti, ma la minaccia resta punibile.

Per rendere l’idea di cosa voglia dire in concreto, è utile citare una sentenza della Corte di Cassazione del 2019. Nel caso in questione si doveva decidere se l’offesa “n*egro di merda” fosse o meno reato: la Corte ha stabilito che l’odio razziale costituisce solo un’aggravante e deve poggiarsi su un altro reato (che possono essere lesioni, minacce, ecc.). Da sola, quella frase è un’ingiuria e—come detto prima—è punibile al massimo con una multa. 

Infine, c’è l’aspetto mediatico. Diversi giornali italiani hanno riportato la morte di Alika attraverso un parallelismo con l’omicidio di George Floyd. Anche una simile scelta narrativa la dice lunga su come in Italia sia estremamente difficile accettare che episodi del genere succedano anche qui.

Ogorchukwu non è stato ucciso da un agente di polizia, e il video girato da un passante a Civitanova Marche non ha nulla a che vedere con quello di Darnella Frazier a Minneapolis, visto che quest’ultimo ha permesso di smontare la prima versione falsa della polizia.

Paragonarlo a una vicenda lontana non ci permette di analizzare le cause e le conseguenze del razzismo sistemico italiano, che è diverso da quello statunitense.

Se non si crede all’esistenza del razzismo, della xenofobia e della islamofobia come si può credere al fatto che queste cose sono in grado di uccidere? 

Questo atteggiamento si riscontra quando ci si affetta a gridare “Black Lives Matter” per casi simili all’estero, ma non si fa lo stesso quando succedono in Italia—evidenziando come non ci sia ancora la volontà di affrontare un passato fascista e coloniale che ha profondamente influenzato la costruzione della società odierna

Tutto ciò è alimentato anche dall’incapacità delle forze politiche di adottare una dialettica lontana da pietismi e sensazionalismi che popolano campagne politiche mirate a definirci “tutti uguali,” senza mai porre delle soluzioni concrete a livello legislativo—come potrebbe essere una revisione della legge Mancino, oppure una riforma radicale delle norme che regolano la concessione della cittadinanza. 

La rabbia che proviamo davanti alla morte di Alika deve essere la stessa per i morti in mare, nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), nei campi di pomodoro, per lo scandaloso numero di ragazzi e ragazze senza cittadinanza, per chi vive tutti i giorni con la paura per via del cognome straniero, per la religione che professa, per il colore che lo riveste.

E questo non fa altro che confermare come questa empatia sia inquinata da ciò che ci si rifiuta di vedere: il razzismo.

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