Música

Giocare un cavallo perdente: Discogreve di Enzo Jannacci

“Cosa vuole, il cervello funziona in un modo che non è ancora stato capito né spiegato del tutto, e meno male che è così. Pensi, altrimenti, a quanto saremmo controllati, in un momento come questo?”.
Omaggio a Enzo Jannacci su TomTomRock, 2013

Ci sono dei personaggi nella musica italiana che sono stati molto più che uomini di spettacolo: trattasi di simboli, di figure dalla personalità definitissima, ma nello stesso tempo incasellabile e inafferrabile, dei veri e propri outsider che nonostante questo (o forse proprio in virtù di questo) hanno fatto scuola di generazione in generazione, in un continuo slalom tra il podio e la polvere. Uno di questi è il grande Enzo Jannacci, nato appunto in quel di giugno, che oggi Italian Folgorati vuole omaggiare come uno dei più grandi scomparsi della nostra musica.

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A dire il vero Jannacci era forse l’outsider per definizione. Il suo modo di scrivere era perennemente sopra le righe, totalmente alieno alle regolarità dei cicli terrestri, quasi un pazzo a piede libero. Persona colta e preparata, non solo aveva alle spalle regolari studi al conservatorio, ma riusciva anche e soprattutto a dimenticarsene spaziando dal jazz al rock al pop moderno, tutti generi di cui il nostro in Italia fu vero e proprio pioniere, suonando anche con pezzi grossi come Chet Baker.

Affiancato a questo, c’era il mondo del cabaret, la piazza alternativa degli anni Cinquanta, nei cui siparietti comici il nostro eroe affinava la sua vena surreale e grottesca e sperimentava un modo completamente diverso di narrare storie anche pese portandole su un altro piano poetico (“Vincenzina davanti alla fabbrica”, o “Sei minuti all’alba” in cui si narra del difficile periodo della Resistenza). Le collaborazioni con Gaber, con Dario Fo, con Cochi e Renato sono state fra le più prolifiche della storia del nostro spettacolo e hanno dato vita a sempreverdi come “Ho visto un re“, “La canzone intelligente“ e via discorrendo. Non solo: pur essendo un rocker di razza senza regole e avvezzo ad alzare il gomito, oltre che attore (ricordiamo la sua grande performance ne L’udienza di Marco Ferreri), il nostro era anche un medico professionista. Una delle sue tante personalità, tanto che lui stesso definiva il suo stile “schizo” in tempi non sospetti, quando ancora lo xanax e gli antipsicotici non andavano di moda tra i giovani.

In realtà Jannacci era semplicemente Avanti!, con il doppio significato di avanguardia e di rivista di sinistra. Cuore “rosso”, più che nel Sessantotto (nonostante il fatto che “Vengo anch’io” e “Ho visto un re” siano diventati dei tormentoni simbolo del periodo) il nostro era già proiettato nel Settantasette, nel Movimento degli Skiantos. Senza dubbio Jannacci è stato uno dei pionieri del rock demenziale, fautore della scomposizione dei linguaggi, dell’assurdo, di quello che è poi il teatro della vita in cui tragico e ridicolo, follia e ragione, alto e basso si mescolano entrando e uscendo l’uno nell’altro senza che neanche ce ne accorgiamo.

In questa epoca devota alla trap e a testi che sembrano scritti in un anti-linguaggio, Jannacci risulta ancora attualissimo e anzi, precursore di una comunicazione che tronca se stessa, che fugge dal senso per arrivare al puro flusso di coscienza iperrealista, comunque con i piedi per terra quando si tratta di tracciare quadretti di vita vissuta, talmente veri da apparire, appunto, assurdi, come in canzoni tipo “L’Armando”. E infatti oggi stesso ho letto almeno tre notizie sul giornale incredibili, tipo il becchino che colto da malore investe col carro funebre una ragazza, uccidendola: puro assurdismo alla Jannacci che, di fatto, non ha mai raccontato frottole.

Sì, Jannacci era tutto questo, ma forse il problema è che in troppi l’hanno percepito come cabarettista e basta. Costoro hanno in qualche modo skippato la rigorosa ricerca musicale del nostro (che ricordiamo è stato anche compositore di colonne sonore per Monicelli, la Wertmüller, Bolognini, ecc.), ricca di soluzioni pescate dalla musica di ogni era, persino dal medioevo (De Andrè gli copiò paro paro il riadattamento di una canzone del Cinquecento, “La mia morosa la va alla fonte”, usandolo per la celebre “Via del campo”), ovviamente con spruzzate di jazz e… sì, anche elettronica. Forse proprio in quest’ultimo punto il nostro Jannacci è stato particolarmente sottovalutato. Italian Folgorati vuole invece analizzare un disco dimenticato dai più e, sorprendentemente, anche da Enzo stesso: Discogreve, anno 1983.

Chiariamoci: Jannacci, per quanto popolarissimo, è sempre stato una persona incapace di compromessi, un autore di musica scomoda, difficile seppur “divertente”. Dopo il grande exploit dei successi di fine anni Sessanta e primi anni Settanta, infatti, Jannacci è praticamente sparito dalla ribalta, diventando un fenomeno di nicchia e registrando dischi anche per etichette indipendenti alternative di grandissimo rispetto, come la famigerata Ultima Spiaggia, che già ospiterà i primi lavori di Ivan Cattaneo e di gente assurda tipo Francesco Currà e Claudio Lolli.

Poi, però, negli anni Ottanta, un miracolo inaspettato: dopo vari cambi di etichetta, approdato di nuovo alla Ricordi (la sua label originaria), incide Ci vuole orecchio e sbanca il botteghino. Jannacci è di nuovo prepotentemente e inaspettatamente sulla bocca di tutti. Sarà stato sicuramente il ritorno in carreggiata con i live, fino ad allora sporadici poiché l’attività di medico chirurgo lo assorbiva, sarà stato anche la collaborazione con Paolo Conte, dalla quale nacque l’immortale brano Bartali; ma è più probabile sia stato invece merito della generazione del punk italiano in ascesa, la quale vedeva in Enzo uno dei suoi padrini. Non a caso le stesse sparate delle Kandeggina Gang, o lo stesso Vasco che in quegli anni si appresta a diventare la rockstar di casa nostra per antonomasia, rivelano un amore per testuale e musicale per il nostro allo stesso tempo nascosto e dichiaratissimo. Il cantare sguaiato e fuori partitura di Jannacci, ritmicamente sfasato e che se ne frega palesemente della forma è paragonabile se non superiore a un qualsiasi punkettone di oltremanica.

Infatti ci vuole orecchio e per calibrarlo il nostro convoca il grande Roberto Colombo ad affiancarlo negli arrangiamenti. Di Colombo abbiamo parlato tantissimo in questa rubrica: produttore e deus ex machina del technopop italiano, nel 1980 era ancora associato ai suoi lavori di produzione per Ivan Cattaneo e nello stesso periodo produrrà il primo lavoro su major di Camerini. Gli anni successivi lo vedranno padrone delle classifiche italiane, sia con Camerini che con i Matia Bazar. Logico che Jannacci, dopo la fortunata esperienza di Ci vuole orecchio, lo riconvochi per il successivo album dell’83, Discogreve appunto, in cui il cantautore milanese vuole sperimentare una sorta di technopopcabaret elettronico (per parafrasare e precorrere i Gronge di technopunkabaret?), pompato, quasi steroidale, prendendosi in giro in copertina per la sua fissa della palestra e in un certo senso prevedendo gli attuali scenari che uniscono l’elettronica della trap con l’immaginario sportivo (vedi OG Eastbull). Ma andiamo con ordine.

Eccezionale duetto con Vasco in cui Jannacci è talmente lesso che non si ricorda neanche le parole, superando il suo allievo.

Il 1983 sarà anche l’anno di Tango dei Matia Bazar, pietra miliare del genere. Durante le registrazioni fa capolino Jannacci che, condividendo lo stesso produttore, Colombo, si spara una comparsata proprio nell’epocale “Elettrochoc”, che dello stile di Jannacci condivide l’ironia surreale e aspra. I Matia ricambieranno in Discogreve, con un cameo vocale di Carlo Marrale in “L’amico”. Sulla carta Discogreve potrebbe essere il capolavoro annunciato di Jannacci, proiettato in un’era che, da innovatore, è il primo a esplorare e annusare in maniera estrema, tanto che a Colombo viene data carta bianca dietro a sequencer e sintetizzatori. Il problema, però, è che l’operazione è effettivamente troppo estrema: lo stesso autore ne parlerà sovente come di un disco “confuso”, a volte anche rinnegando la qualità dei brani. Eppure, nel momento della registrazione Jannacci ha forse fotografato uno stato mentale e musicale che ci portiamo ancora oggi appresso. Quello al limite fra innovazione e imbarazzo, che sono due parole che devono necessariamente stare insieme se si vuole parlare di qualcosa di “nuovo”. Andiamo dunque a sentire di che pasta è fatto Discogreve.

Colombo, accreditato come coautore di tutti i brani dell’album, fa sue le esigenze di Jannacci, cercando di trovare una continuità con il passato. Quindi ecco l’inserimento dei fiati, l’inserimento di soluzioni legate all’avanspettacolo, le arie drammatiche mescolate a melodie popolari da osteria.

Il primo brano, “Il maiale”, è forse uno di quelli che meglio sintetizza la faccenda. Forse l’unico brano che Jannacci apprezza veramente di questo disco, parte da un vissuto autobiografico: la morte del padre di Enzo per mano di un medico incompetente che alle vite umane preferisce farsi le infermiere. Talk box in primo piano, andazzo white funk dal tiro e dalle percussioni micidiali perfettamente in linea con i Talking Heads d’epoca, il testo inizia con un apparente delirio pronunciato al verbo infinito, che in realtà è un messaggio ai giovani ancora attualissimo. Ad ascoltarlo oggi sembra proprio parlare con la loro voce e il loro spirito di sintesi: “Giovani / Giovani / Guardare più lontano / Giovani / Giovani / Bucate l’aeroplano”: insomma, andate avanti, rifate tutto da capo, svitate il linguaggio perché il nostro mondo adulto ha creato veri e propri suini al posto di esseri umani. Finale tutto slap di basso e suoni grotteschi di talk box, il maiale che si rivela in tutto il suo orrore comico.

Il secondo brano è il già citato “L’amico”, dalle atmosfere epiche, medieval-cartoonistiche e technopop tipiche di brani come “Morgana” e “Il re” di Camerini. Un brano gonfio di dolore e malinconia in cui Jannacci ricorda la morte di Beppe Viola, suo braccio destro nelle canzoni e amico di sempre. “Scrivere il vento / Giocare un cavallo perdente / Scoprire il mare / Scoprire che il mondo sta male”. Profonda poesia di morte e resa, con inserimenti wave di chitarra, synth che grugniscono e bassi infilati nel flanger, arrangiamenti di fiati potenti per uno struggente spaccato elettro-disperato, un po’ come il Side Baby di “Medicine”.

Il terzo pezzo è una cover del classico napoletano “O surdato nnamurato”, con una caterva di elettronica, vocoder, Casio impazzite e storte, cantato in italiano ubriaco. A prima vista la scelta di questa rivisitazione è incomprensibile, potrebbe essere vista come un inno antimilitarista, ma soprattutto potrebbe essere davvero una roba fatta senza pensarci troppo su. Una specie d’imitazione degli Hi-Fi Bros quando rifacevano “Magic Moments”, poiché spicca una schizzata no wave nel ritornello, in cui il basso spastico e pulsante sembra rubato ai Bisca dell’era che fu, con tanto di coro degli alpini (probabilmente fregato al Battiato di “Bandiera Bianca”). Davvero una roba assurda, forse omaggio alla Napoli no funk dell’epoca, ma è difficile entrare nel cervello di Jannacci, che addirittura nella registrazione tiene un falso attacco del ritornello senza timore di offendere l’ascoltatore. Anarchia totale, sicuramente una delle peggiori e nello stesso tempo migliori versioni del sempreverde partenopeo, finisce con un vero e proprio urlare senza senso di Jannacci e una sventagliata di talk box ruggente.

“L’americana” è un brano in cui la programmazione sembra figlia delle session di Tango, giocata tutta sui particolari, sulle micro variazioni e sui synth FM, a volte con fiocchi di chitarre stordite che appaiono qua e la come batteri in un polmone. Armonia leggermente obliqua, per una canzone che “puzza di sporcizia, di sudato, di bagnato”, tanto che pare assolutamente improvvisata. Critiche forti alla televisione, e forse “L’americana” è proprio un riferimento dedicato al cinema, un discorso sul cortocircuito tra tradizione e novità, sul vecchio e verace avanspettacolo che è stato inglobato in qualcosa di più grosso che non ha amore, come il piccolo schermo. Chiaramente il brano è criptico, come da tradizione di Jannacci quindi ognuno gli dà il senso che vuole. Potrebbe anche essere una semplice storia d’amore nata sui palcoscenici delle navi dei marines stile Polvere di stelle, non ce ne stupiremmo.

“Pensione Italia” è una chiara metafora, stoccata politica che mette in campo anche la strage di Bologna e le insabbiature, mischiando quest’amarezza con ricordi dell’Italia degli anni Sessanta, della ricostruzione: “Li han convinti che la stazione è caduta giù nel burrone e che è meglio fare finta di non capire”, “e i ricordi son come i rutti, vengono su”. Alla fine il mazzolin di fiori del potere conservatore uccide e trascina tutto indietro, tanto indietro che l’evoluzione è ibernata a quando l’Italia ancora era quasi innocente nel viversi un futuro inimmaginabile dopo le ferite della guerra. Anche qui elettronica marziale e fiati colorati e grotteschi, mischiati al cabarettismo pirotecnico tipico di Jannacci, in un gran finale esausto.

Uno degli highlights del disco è “L’animale”, dove l’elettronica di Colombo si esprime al massimo, tra synth liquidi ritmiche pre IDM e scivolate hi-tech pop, portandosi, nel ritornello, verso il power pop elettronico senza se e senza ma. Jannacci ci ricorda che è impossibile bloccare l’animale che è dentro di noi e, a differenza di un Battiato che oppone un minimo di resistenza, Jannacci dice chiaramente che “non c’è niente da fare”, le passioni traboccano dal vaso che uno lo voglia o no.

“Obbligatorio” è un altro pezzone, forse il più elettronico del lotto, tutto in levare, uno stompone technopop con sferragliate mezze HD, già sigla del programma Rai Il Gransimpatico, condotto proprio da Jannacci. “Un violoncello cadeva in giardino, corre il pallone se cade il bambino, tu non mi ascolti e ti leggi la mano”, “una canzone né brutta né breve non ascoltarla che non c’è più neve”. Canzone surreale, un flusso di coscienza apparentemente insensato che è in realtà una riflessione sulla canzone moderna, che evidentemente tende a valorizzare il dozzinale anziché la qualità, magari aiutata da quella neve ambigua… per il naso. Ecco infatti alla fine la voce distorta di Jannacci nei panni di una sorta di “Central Scrutinizer” di Zappiana memoria, il potere che impone “il ritmo base” e che decide cosa va bene e cosa no. Innamorarsi di una canzone e della vita, però, non dovrebbe essere obbligatorio, ma una scelta libera. Sicuramente uno dei brani più interessanti e filosoficamente massicci del disco.

Tornano i problemi dei giovani in “Giovane pazza”, un pezzo che inizia in maniera simil-prog, poi si snoda come una classica ballata stile Jannacci, ballata d’amore quasi da balera, a base di piani elettrici e stranissime batterie tirate fuori dalla Casio che sembrano quasi human beat box. Ballata d’amore sì, ma un amore che sembra una tresca fra due uomini e una ragazza, in cui eterosessualità e omosessualità si mischiano in una confusione di sentimenti che non si provano, vaffanculi, cuori affranti. Insomma un bel casino che però rappresenta la verità dei fatti: è sempre più difficile per i teenager avere pace in materia affettiva nonostante i generi siano stati abbattuti.

Conclude il disco un grande classico di Jannacci, scritto con Massimo Boldi e inizialmente licenziato come “Sei repellente Elisa” nel 1977, “Zan zan le belle rane” è una canzone postfuturista, un amore visto dal punto di vista di un weirdo, che vince in quanto con lui è possibile fare cose assolutamente senza senso (soprattutto, ecco, atti sessuali pirotecnici), in un’art brut finalmente vissuta in pieno. “Sei puzzolente Elisa, però mi piaci così, nullatenente Elisa, però mi piaci così”. Finale degno di nota, forse unico brano realmente spensierato e punk del disco, che infatti si mantiene su un minutaggio scheggia di due minuti e mezzo per un album in realtà piuttosto denso e “meditabondo”, per forza di cose anche freddo visto la tecnologia messa in gioco.

Però di gioco si tratta, come da spirito di Jannacci. Al pubblico quest’aspetto sfuggirà e Discogreve, grazie o per colpa del suo alto tasso di sperimentazione, sarà uno dei più grossi fallimenti commerciali della storia del nostro Enzino. Eppure nel disco c’è un messaggio importante per i posteri: che quando si mette sul piatto la dicotomia giovane/vecchio nella musica di oggi e ci si scandalizza o, al contrario, si invoca l’innovazione davanti a situazioni tipo Young Signorino e affini vuol dire che non si è capito un cazzo. In realtà stiamo parlando sempre di tradizione, di una cosa che era ad esempio nel DNA di Jannacci e che si tramanda dalla notte dei tempi. Dovremmo invece dimenticarci che sia “obbligatorio” dare un parere, intellettualizzare il vuoto o seguire il gregge: è il caso di smettere di ascoltare le canzoni “brutte e brevi” e metterci semplicemente a ballare “Zan zan le belle rane”. In fondo l’importante è esagerare.

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