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Giulio Regeni

Sul caso Regeni sta calando un pericoloso alone di mistero

Mentre l'inchiesta egiziana sulla morte di Giulio Regeni è sostanzialmente ad un punto morto, la scelta di alcuni docenti di Cambridge di non rispondere agli inquirenti italiani ha scatenato ogni tipo di complotto e "pista".
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Foto via pagina Facebook di Amnesty International Italia

Nelle ultime settimane la famiglia di Giulio Regeni è tornata a farsi sentire pubblicamente in più occasioni, per chiedere che si "rompa il buio" sul brutale assassinio del ricercatore.

Il 25 maggio 2016, la madre di Regeni – Paola Defendi – ha rilasciato una lunga intervista all'Espresso. "Forse ci sono persone che sanno qualcosa e non parlano per paura," ha detto. "Forse abbiamo bisogno di tante tessere, di tante piccole verità, per trovarne una grande: perché? Chi ha preso e torturato Giulio?"

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Il sottointeso di questo appello è che – nonostante tutte le promesse del governo, le campagne di stampa e la mobilitazione dell'opinione pubblica – evidentemente non si sta facendo abbastanza per arrivare alla verità.

Non era difficile prevedere che si sarebbe arrivati a questo punto. Nel saggio di recente pubblicazione Giulio Regeni. Le verità ignorate, l'autore Lorenzo Declich ha scritto che "quello di Giulio Regeni doveva essere trattato, da subito, come un caso politico, non come un caso giudiziario, perché il capo di un regime che tortura i suoi cittadini, e quelli stranieri, porta la responsabilità di quei crimini, non può e non deve sfuggirne."

Mentre la timida pressione diplomatica dell'Italia non ha sortito alcun effetto, l'essersi focalizzati solo ed esclusivamente sul versante giudiziario ha di fatto comportato la situazione in cui troviamo adesso: uno stallo rassegnato, delle indagini che si stanno spegnendo tra un rimpallo e l'altro, e una serie infinita di reticenze e depistaggi da parte delle autorità egiziane.

Poco prima dell'appello della madre di Regeni, lo stesso procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone aveva espresso tutto il suo scetticismo sullo stato dell'inchiesta. "Si arriverà alla verità sulla morte di Giulio Regeni? Non lo so. Deve essere chiaro che le indagini le conducono l'autorità giudiziaria e la polizia di stato egiziani. Noi collaboriamo nei limiti del possibile," aveva spiegato il magistrato all'Huffington Post.

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"È una libera scelta dell'Egitto costruire tra le due parti una collaborazione costruttiva," aveva poi aggiunto. "Lo sapremo alla fine della storia."

Il problema è che, per ora, questa fine non la vede nessuno; e in assenza di novità concrete, in questi ultimi giorni l'attenzione si è spostata dal Cairo – con l'eccezione di un'inchiesta pubblicata oggi su Repubblica – a Cambridge, l'università inglese presso la quale Regeni stava svolgendo il suo dottorato di ricerca, che aveva come oggetto anche i sindacati indipendenti egiziani.

Il motivo è la "mancata collaborazione" dell'istituzione accademica alle indagini da parte dell'Italia. La procura di Roma ha infatti presentato una rogatoria internazionale per "ascoltare colleghi e docenti universitari che coordinavano la ricerca" di Regeni in Egitto. Stando a un articolo dell'Espresso, "i magistrati sono convinti che sia necessario partire da dove tutto è iniziato per trovare le risposte che si fanno attendere da ormai più di quattro mesi."

I punti centrali delle richieste sarebbero il lavoro del ricercatore sul campo, in particolare "la scelta di applicare il metodo PAR (Participatory action research)," e "il significato di alcune mail scambiate da Giulio con i suoi professori in merito al lavoro che stava svolgendo al Cairo."

Interpellata sul punto dal pubblico ministero Sergio Colaiocco, la supervisor di Regeni Maha Abdelrahman avrebbe risposto: "Non rilascio dichiarazioni alle autorità italiane." Lo stesso avrebbero fatto altri tre docenti, che in seguito "si sono riservati di inviare relazioni finalizzate a descrivere la tipologia delle comunicazioni intercorse con il ricercatore di origine friulana."

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Un atteggiamento di questo tipo ha provocato sia "dispiacere e delusione" alla famiglia Regeni, che ha provocato una serie di editoriali piuttosto duri. Sul Sole 24 Ore, ad esempio, Ugo Tramballi se l'è presa con "l'ottusità" ed il "tono burocratico" di Cambridge, arrivando persino a parlare di un "silenzio da regime egiziano" che alimenta due sospetti: il primo è che i professori "sapessero perfettamente la pericolosità della ricerca affidata a Giulio"; la seconda è che "a sua insaputa" Regeni lavorasse "anche per un'intelligence."

Argomentazioni simili sono state portate avanti anche da Carlo Panella in un articolo sull'Huffington Post, intitolato "Cambridge, come al Sisi, ostacola le indagini." Nel pezzo non solo si censura il comportamento dei professori di Regeni, ma si addossano loro "responsabilità morali sempre più evidenti, [e che] addirittura potrebbero essere ben di più: delle colpe." Insomma, la supervisor del ricercatore avrebbe mandato Regeni allo sbaraglio.

È da sottolineare che tutte queste accuse ai docenti sono già state mosse nei mesi scorsi. Lo scorso 19 febbraio, David Runciman – capo del dipartimento di Politica e Studi internazionali dell'università di Cambridge – aveva detto in un'intervista al Corriere della Sera che Regeni "lavorava su un tema mainstream, cioè non un tema politico, si trattava di analisi su economia e sviluppo. Quello che gli è successo è completamente inspiegabile. Tutto quello che faceva rientrava nelle nostre buone pratiche."

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Runciman si era anche soffermato sul metodo di ricerca, che per me come è presentato dalla stampa italiana sembra una via di mezzo tra attivismo e avventurismo incosciente. In realtà – come hanno confermato a più riprese anche da altri docenti e ricercatori – si trattava di un lavoro del tutto convenzionale: "Il punto del lavoro sul campo è di fare ricerca, lavoro d'archivio, interviste; e ci si aspetta che si finisca a Cambridge, non c'erano report che stava scrivendo per noi mentre era là."

Per approfondire: Il nostro speciale su Giulio Regeni

Nella stessa intervista, inoltre, c'è un episodio che può aiutare a comprendere – senza per forza di cose giustificarla – la presunta reticenza di Maha Abdelrahman davanti agli inquirenti italiani.

Al funerale di Regeni tenutosi a Fiumicello, racconta Runciman, la supervisor "è stata portata via dalla polizia e interrogata dal procuratore in circostanze che noi consideriamo estremamente insensibili, non le sono state date sufficienti spiegazioni e non parla italiano. […] Quello che è stato detto ai media italiani dopo quel colloqui non ha basi, sono state rivelate cose che si dichiara che avrebbe detto, ma lei non ha detto."

Nel pomeriggio di oggi, infine, un portavoce dell'università di Cambridge ha puntualizzato che "le storie apparse di recente sulla stampa italiana semplicemente non sono vere, l'università appoggia le autorità italiane nelle indagini su questo fatto orrendo. Rimaniamo aperti e impegnati a lavorare con le autorità italiane al fine di far emergere la verità per Giulio Regeni e per la sua famiglia."

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Ma se le illazioni – totalmente infondate – sull'appartenza di Regeni ai servizi britannici e gli improbabili parallelismi tra Cambridge e un dittatore come Al Sisi non fossero abbastanza, nelle ultime ore si è riusciti anche ad aggiungere un altro tassello: quello della fantomatica "pista inglese"; o meglio ancora, secondo Libero, di un "complotto" dei servizi inglesi che avrebbero "infiltrato il Mukhabarat, il servizio segreto egiziano, ordinando a una sua cellula di sequestrare il giovane, torturarlo e ucciderlo, per poi farlo ritrovare orribilmente martoriato e far così traballare i rapporti tra Roma e Il Cairo."

A renderne conto della "pista inglese" è un servizio "esclusivo" del tg di La7, che rivela come il 25 gennaio 2016 – dai tabulati in possesso della procura generale del Cairo – siano partiti tre sms da un numero inglese ad "altrettanti telefoni agganciati alle stesse celle attraversate da Giulio Regeni nei minuti prima di sparire." Altri sms sarebbero stati inviati nella notte tra il 2 e il 3 febbraio "ad un utenza egiziana collocata nel quartiere 6 ottobre, dove è stato ritrovato il corpo di Regeni."

Non è dato sapere in cosa concretamente dovrebbe consistere questa "pista"; né tantomeno quale sia il collegamento con il sequestro del ricercatore friulano. Lo stesso servizio, infatti, informa che gli inquirenti italiani ed egiziani "sono cauti" sul punto.

Tanto basta, però, per creare un altro pericoloso alone di mistero sul caso – l'ennesima teoria che mescola insieme tutto in un calderone paranoico, e che contribuisce a creare un insopportabile rumore di fondo da cui è fin troppo facile essere distolti.

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Per usare le parole di Runciman, dunque, non abbiamo davvero più bisogno di "speculazioni senza base, che distraggono dalla questione centrale. Vogliamo sapere la verità su chi l'ha ucciso. Era un ricercatore accademico innocente ed è stato brutalmente assassinato."

Leggi anche: Sono stato incarcerato ingiustamente in Egitto: cosa ho visto nei miei 27 giorni di prigionia


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Foto via Pagina Facebook di Amnesty International Italia