FYI.

This story is over 5 years old.

COLOMBIA

Trans, gay e bisessuali: come proteggere le diversità in un carcere sudamericano

Malgrado vessazioni e bullismo, le comunità LGBT delle carceri colombiane hanno qualcosa per cui continuare a sperare, nella lotta per l'uguaglianza.
Foto di Guillermo Camacho/¡Pacifista!

In Colombia non è stato rispettato il limite di quattro mesi stabilito dalla Corte Costituzionale per adattare il regolamento delle carceri alle esigenze delle persone LGBT.Tuttavia, per quanto la situazione sia in fase di stallo, la speranze di migliorare le condizioni di vita dei detenuti con identità sessuale e di genere diversi non mancano.

Nel nuovo regolamento, rilasciato lo scorso 23 agosto, l'Instituto Nacional Penitenciario y Carcelario (INPEC) ha deciso che le detenute trans debbano esser chiamate col loro nome identitario, che possano indossare i vestiti che preferiscono, così come parrucche, extension, smalti, trucchi, gel e "altri oggetti personali che garantiscano la libera espressione della loro identità."

Pubblicità

Il regolamento prevede anche la tutela di due diritti di valore sostanziale per la vita delle persone trans: la garanzia di poter continuare il trattamento ormonale per chi detiene o richiede prescrizione medica, e quella di potersi far somministrare i medicinali del caso in casi di urgenza, quando intercorrono complicazioni di salute derivanti dalle trasformazioni corporali.

Il documento stabilisce, inoltre, che non possono essere negate le visite coniugali alle persone della comunità LGBT e che non potranno essere considerate come condotta sanzionabile le dimostrazioni di affetto e altre manifestazioni relative all'orientamento sessuale o all'identita di genere dei prigionieri.

Nell'agosto scorso - prima che entrasse in vigore il nuovo regolamento, e sotto la guida del progetto "Cuerpos en Prisión, Mentes en Acción" - siamo entrati nell'area di massima sicurezza del carcere "La Picota" di Bogotá, per parlare con donne trans e uomini gay della loro vita dietro le sbarre e le loro conquista negli anni di lotta per il riconoscimento dell'uguaglianza.

La Picota è un carcere formalmente "maschile", nel quale le discriminazioni degli altri prigionieri nei confronti degli appartenenti alla comunità LGBT non lascia vivere tranquilli - e scontare la loro pena - nessuno, specialmente le donne trans. Per questa ragione, molte di loro sono collocate nell'ala 4, dove si sono organizzate per richiedere i loro diritti e prestano servizio per lavori generalmente realizzati da donne, negli istituti penitenziari —come la manicure, la lavanderia e i massaggi. Nella Picota, come in tutte le strutture per uomini, non ci sono bagni femminili.

Pubblicità

Il problema, comunque, non è rappresentato solo dai detenuti. Mariangel, una delle ospiti della Picota, racconta che ad agosto una guardia le ordinò di togliere la gonna e mettere un paio di pantaloni. Ana María, che ha cambiato nome e sesso sulla sua carta di identità, dice che "le guardie non conoscono la differenza tra transgender e travestito. Ci dicono 'signori', come fossimo uomini, ma non riconoscono il nostro nome identitario."

Lo scorso 22 luglio, la Rete ComunitariaTrans ha denunciato che nella zona di sicurezza è stata aggredita Yurani Munoz, una reclusa che militava nelle FARC e che si batte per i diritti della popolaziome trans, gay e bisessuale della prigione. Stando alla denuncia, Yurani stava tenendo una conferenza per degli studenti nell'ambito di un programma sociale dell'INPEC, quando un custode le ha urlato "Di dov'è questo signore? Via!"

(Foto di Guillermo Camacho/¡Pacifista!)

Yurani rispose che non c'era nessun signore. Tuttavia la guardia continuò: "Per me sei un uomo, vai via da qui!", prendendola - secondo la sua testimonianza - di peso e sbattendola in una stanza dove, insieme ad altri due giovani custodi, "venni presa a calci nei genitali."

Jonathan Martínez assicura che nelle aree mediche "ci sono generalmente guardie che non vedono di buon occhio la comunità LGBT (…), e questo fa sì che i detenuti eterosessuali si prendano gioco di noi." Episodi di bullismo, racconta, sono all'ordine del giorno: "Ci chiamano puttane, fro**…" Spesso, a causa del loro orientamento sessuale, gli altri detenuti li reputano pubblicamente come portatori di HIV.

Pubblicità

Trans e gay della Picota sono tristemente abituati, poi, ad affrontare problemi legati ai servizi sanitari: secondo quanto da loro riportato, le terapie ormonali vengono spesso sospese o non sostenute in modo adeguato, senza includere il consulto di un endocrinologo o di un medico generale.

Leggi anche: Essere gay e musulmani: a colloquio con l'attivista italiano per i diritti LBGT nell'Islam

Stando alle cifre fornite dal ministro della Giustizia, le carceri colombiane ospitano 232 donne che si riconoscono come lesbiche, 209 uomini che si dicono gay, 154 che si dichiarano bisessuali, 89 che si riconoscono transgender e 3 intersessuali. Il totale è di 687 persone, che fanno parte delle altre 120mila che sono ridotti in custodia — organizzazioni come la Rete Comunitaria Trans, tuttavia, sostengono siano molte di più.

Almeno alla Picota, qualcuno sta cercando di far cambiare le cose: è così che sono nate iniziative come quella del 2013, "Cuerpos en Prisón, Mentes en Acción", condotto dalla Rete Comunitaria Trans e spinto da Katalina Angel.

Daniela Maldonado è la direttrice della Rete. Secondo lei, l'idea dietro al progetto "non è di creare un gruppo assistenziale, ma dare potere alle persone. Ci affidiamo al diritto di esistere e non essere violati solo perché si ha un diverso orientamento." Guillermo Camacho, responsabile della comunicazione del gruppo, dice che alla Picota hanno usato anche "la danza come uno strumento di incontro e di lotta politica per appropriarsi dei diritti e per conoscere il proprio corpo."

Pubblicità

Il progetto ha anche prodotto un documento per promuovere la difesa dei gay e dei trans, con una tiratura di 500 copie, che sono state distribuite in varie carceri del paese. Stephanie Mendez, coordinatrice e psicologa dell'associazione, dice che "il carcere è un contesto molto interessante per capire diverse cose del conflitto sociale e armato, abbiamo anche organizzato un workshop per discutere di come ognuno di noi è stato colpito dal conflitto, ma anche di come vi ha partecipato esso e di come può costruire la pace."

Foto vía ¡Pacifista!

C'è bisogno di rompere le tensioni che derivano dalla convivenza e le discriminazioni subite dai detenuti — nella struttura di massima sicurezza vivono in quattro in ogni cella e in 250 per ogni cortile, in cui sono rinchiusi dalle sei alle 18 ore.

L'obiettivo è anche quello di interrompere il circolo vizioso che, a volte, rende gli uomini trans e omosessuali vittime e carnefici. Daniela ritiene che "sistematicamente, queste persone arrivano a delle situazioni in cui si deve commettere un crimine o fare cose che non erano nella loro aspettativa di vita per garantire la propria sopravvivenza. Noi trans, per esempio, dobbiamo superare una lunga serie di barriere che ci spingono in contesti di estrema povertà, alta vulnerabilità e crimine."

È stato in carcere che Ana Maria e Laura hanno deciso di studiare per una laurea in filosofia e che hanno guadagnato il rispetto degli altri a forza di documenti e richieste. Wilson, uno dei detenuti gay, ha anche ottenuto grazie a degli accordi informali che due delle celle del cortile sei siano destinate esclusivamente alle coppie omosessuali.

I detenuti con cui abbiamo parlato dicono che gli spazi per un dialogo tra di loro e con l'INPEC esistono, e che i legami che si sono rafforzati nel tempo, permettendo di ridurre il consumo problematico di droga, lo stress, gli alti livelli di conflittualità e suggerire miglioramenti su leggi e ordinamenti. È il loro modo di costruire la pace in un "ambiente ostile", e di pensare ad altri modi di esistere in una società che quasi sempre gli chiude tutte le porte.

Leggi anche: Le "sezioni gay" nelle carceri italiane esistono davvero — e per una ragione precisa


Segui VICE News Italia su Twitter, su Telegram e su Facebook