Dopo l’ultima oscenità della bomba carta da Gino Sorbillo, l’unico rimedio, almeno per me, è raccontare altre Napoli. E in questo caso, raccontare la storia di una famiglia, una storia di impegno e fatica, di cicoli e ricotta, e di una serranda che nessun sigillo sarà mai in grado di abbassare.I pentoloni pieni d’olio fuori ai vasci sono quasi del tutto scomparsi. Ma attenzione, ho detto quasi.
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Durante la Seconda Guerra Mondiale, a Napoli, la pizza tonda tradizionale era diventata quasi un lusso: mancavano gli ingredienti per condirla e i forni a legna erano andati distrutti. Ma i napoletani, si sa, non si perdono mai d’animo, e così pensarono di friggere l’impasto per farlo gonfiare e dare un maggiore senso di sazietà a chi la mangiava.I pizzaioli, per arrotondare, preparavano l’impasto nel loro giorno libero e le mogli friggevano fuori l’uscio di casa, fuori al vascio. Segnavano su un quadernetto chi aveva preso la pizza quel giorno ed ecco risolto il problema della fame, al conto poi ci si pensava dopo una settimana.
Il fatto che la pizza fritta abbia un’anima così profondamente legata alla natura della Napoli popolare, secondo me, l’ha messa un po’ ai margini. Mentre la classica pizza tonda napoletana cotta al forno ha raggiunto ormai una dimensione di livello internazionale, i pentoloni pieni d’olio fuori ai vasci sono quasi del tutto scomparsi. Ma attenzione, ho detto quasi.Nel giorno del Pizza Day ho deciso quindi di andare ai Quartieri Spagnoli, con la migliore spalla di sempre, Alessandra, a trovare l’ultimo baluardo della pizza fritta fatta in casa, la dea su tutti gli dei dell’Olimpo napoletano dello street food.
Esco dal portone di casa, scendo su Piazza Plebiscito e sento odore di sfogliatella e caffè, mi faccio strada tra i turisti e i corrieri di Just Eat e supero a passo veloce gli studenti affrettati su via Toledo.
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Nel punto dove Piazza Carità incrocia Via Simonelli salgo nel ventre di Napoli e, facendo slalom tra i motorini, arrivo da lei: Fernanda.
Seconda di 6 figli, vive a Via Speranzella, praticamente da sempre. La casa è quella in cui è cresciuta, insieme alla madre, al padre, alle sorelle e al suo fratellino più piccolo. Esattamente di fronte al suo vascio, in uno spazio che sarà di qualche metro quadro, sua madre Filomena, poco meno di 100 anni fa, ha cominciato a friggere la pizza.
Fernanda è un po’ contrariata, ci dice che non siamo le prime ad averle fatto visita questa settimana, che non vuole pubblicità e che se ha clienti che aspettano non può mettersi a perdere tempo con noi. Cerco di farle capire che non vogliamo darle alcun fastidio, ma solo mangiare una pizza e fare due chiacchiere.
Sono cresciuta con i film di Vittorio De Sica e quando penso alla pizza fritta la prima cosa che mi viene in mente è la scena de L’Oro di Napoli, in cui Sophia Loren stende l’impasto della pizza sulla tavolozza, lo imbottisce di ricotta e lo butta nel pentolone pieno d’olio bollente.“Mia mamma friggeva le pizze come Sophia Loren” mi dice Fernanda con la faccia fiera . “’A oggi a otto, la chiamavano all’epoca, perché la mangi oggi e la paghi fra 8 giorni”.
E intanto ci prepara una grande completa. La guardo incantata, accarezza quell’impasto come se fosse un neonato in fasce, il cucchiaio affonda nella ricotta, qualche pezzettino di provola di Agerola, un po’ di sugo di pomodoro e una manciata di pepe nero. Ma i veri protagonisti sono quelli che per il resto d’Italia si chiamano ciccioli, ma che per noi sono i lardinzi, i siccioli, le frittole, gli sprittoli, le scittole, i cicoli; e che non sono altro che il risultato della bollitura delle parti grasse del maiale, laddove la parte liquida formerà, dopo la solidificazione, la sugna, mentre i panetti residuali, sono i cicoli.
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Hanno un sapore sicuramente molto forte e caratteristico, e sono ricchi di grassi, ma come tutte le cose che aumentano il colesterolo, sono da orgasmo. Dopo la frittura poi la pizza viene storicamente messa in un colino di alluminio forato sul fondo per far scolare l’olio in eccesso.
“Tiè nennè, mangia!”. La pizza fritta è buona, si, ma questa, avvolta nella carta del pane e mangiata così, all’impiedi, è stratosferica.
D’improvviso, tutta la diffidenza e tutto l’astio scemano e comincio a capire che Fernanda ha un sacco di cose da dire e di cui parlare, ma che le piace farlo con pochi. Comincia a raccontarci la storia della sua famiglia, a farci vedere le foto dei genitori che conserva gelosamente e ci invita a fumare una sigaretta insieme mentre parliamo.
“Anche mia sorella maggiore, Lucia, faceva le pizze fritte, sempre ai Quartieri Spagnoli, ma più su. Ora ci sono le mie nipotI” dice “ma loro friggono soltanto il sabato. Un sabato fanno le pizze e l’altro i panzerotti”.
Lucia per tutti è Pipella. Lucia è bella, Lucia è gentile e il “comm’è bellella, comm’è bellella” di tutti i quartierani, per suo fratello minore diventa presto “comm’è pipella, comm’è pipella”. Pipella a 13 anni riceve una dispensa papale e si sposa con suo marito con cui fa ben 12 figli.
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Teresa, Patrizia e Gaetana (detta ‘A Cinese) sono però le uniche che oggi portano avanti la tradizione della pizza fritta della madre.
Così saluto Fernanda e salgo da Portacarrese a Montecalvario, supero la Fondazione Quartieri Spagnoli, salgo le scale e arrivo a Largo degli artisti. Mi lascio Maradona alle spalle e Iside a sinistra e giro a destra su Vico Santa Maria Ogni Bene. Ed eccole là, tutte e tre, a formare una catena di montaggio.
Una stende, un’altra imbottisce e la terza frigge. Teresa subito mi accoglie calorosamente, le spiego che sto scrivendo un articolo e mi mostra un libro in cui è stata pubblicata una sua foto e la sua storia.Ci troviamo in una vecchia latteria e sulla parete di fondo sotto la foto di Pipella in bianco e nero, compare un piccolo tagliere che recita: “Finchè la mamma ti sorride, ama la vita e le sue sfide”.
“’A Cinese, me le fai due pizze vengo tra un’ora?” Chiede un ragazzo sul motorino rallentando senza neanche fermarsi. “Vabbuon” e segna sul suo taccuino. Il sabato sera la pizza fritta della Cinese è un imperativo morale.
Mentre parliamo, le guardo affascinata e comincio a chiedermi perché lo fanno. Per guadagno? No, secondo me lo fanno per affermare ogni giorno la loro identità, quella del quartiere popolare, portando avanti una tradizione secolare.
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Da qui scaturisce tutto l'amore che usano per impastare, imbottire e friggere. Per chi accoglie questo amore, il premio è di gustare una delizia che sta scomparendo. E il conforto che deriva dalle cose semplici, pulite, belle e piene d'olio.
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