Cultura

‘Jeen-Yuhs’ è il documentario definitivo su Kanye West

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Se sei fan di Kanye West, sai già quanto curi fino ai minimi dettagli la sua immagine. Ye è l’ultra-perfezionista che sposta la data di pubblicazione dei propri dischi per apportare un’infinità di modifiche dell’ultimo minuto. Tuttavia, non ha potuto nemmeno sfiorare jeen-yuhs: a Kanye Trilogy, il documentario di Netflix a lui dedicato—e si vede.

Nel periodo precedente al lancio del documentario, Ye ha postato su Instagram (e poi cancellato) diversi screenshot dei messaggi scambiati con gli autori, con tanto di didascalia in maiuscolo per chiedere di partecipare alla sessione di montaggio—e per cercare di convincerli a prendere Drake (che un tempo era un nemico e forse ora un amico) come narratore dei film.

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Invece, grazie al lavoro di Coodie Simmons e Chike Ozah, che lo conoscono da anni, possiamo goderci un ritratto di Ye onesto e pieno di empatia. Il documentario è diviso in tre diversi episodi—intitolati “Vision”, “Purpose” e “Awakening” (ovvero, rispettivamente “Visione”, “Obiettivo” e “Risveglio”)—e ci mostra i momenti cruciali e più difficili della sua carriera. Una vulnerabilità dimostrata in vari segmenti: mentre ascolta gli aggiornamenti relativi alla guarigione della sua mandibola dopo l’incidente automobilistico quasi fatale del 2002, quando deve riuscire a convincere la Roc-A-Fella del proprio valore, oppure ancora al cospetto delle pillole di saggezza della madre defunta, Donda West.

Ho quindi voluto discuterne con Simmons e Ozah, per parlare di controllo creativo e dell’eredità che sperano di lasciare.

VICE: Avete filmato questo documentario per quasi 20 anni e avete trasformato oltre 300 ore di girato in tre episodi. Come avete fatto?
Chike Ozah:
Negli ultimi cinque anni abbiamo lavorato a diverse sceneggiature e di fatto ci siamo riscoperti studenti, in particolar modo per quanto riguarda l’aspetto dello storytelling. Se avessimo concretizzato tutto questo sei anni fa sarebbe venuto fuori un prodotto molto diverso, magari un documentario tradizionale. Invece, abbiamo voluto approssimare una sorta di struttura narrativa, e quindi abbiamo optato per il viaggio dell’eroe. Nonostante i richiami a certi archetipi narrativi, però, abbiamo scelto una prospettiva non convenzionale. Questo approccio ci ha reso più facile gestire il materiale e una volta piantato il seme nelle menti dei nostri montatori, Max Allman e Jason Harper, è diventato facile cucire insieme il tutto.

Coodie riprende Kanye West.
Coodie e Ye.

Perché credete che questo sia il momento migliore per un documentario su Kanye?
Coodie Simmons:
Be’, mi viene da dire che tutto accade secondo i tempi stabiliti da Dio. Se fosse dovuto succedere prima, lo avrebbe fatto. Nel 2006 siamo stati contattati con una proposta di contratto, ma Kanye non era pronto per il mondo. Era agli inizi della sua carriera e aveva ancora molta strada da fare. Io e Kanye poi ci siamo separati: lui ha cominciato a diventare sempre più famoso, e io ho voluto lavorare con altre persone. Common ci ha riuniti nel 2014, Kanye ha chiamato prima me e poi Chike e ci ha detto, “Voglio che siate la mia voce.” Ma noi non siamo oratori, siamo filmmaker e ci affidiamo al linguaggio visivo. Allora abbiamo capito che dovevamo mettere insieme questo film in maniera da mostrare al mondo il vero Kanye, quello che conosco e che ho imparato ad amare.

Ma non ci siamo riusciti subito, perché alcune persone volevano che lui si dedicasse ad altro. Per me è stato quasi come se ci inviasse una richiesta d’aiuto, visto che subito dopo ha avuto un esaurimento durante il Saint Pablo Tour. Dio però ha continuato a riavvicinarci e certe cose è semplicemente difficile metterle per iscritto. La prima volta che qualcuno l’ha visto dopo quel periodo era insieme a me e ci hanno detto cose del tipo, “Oh, è felice di aver visto i suoi amici.” Ma sono più di un amico, sono un fratello. Tanto più che io e Chike abbiamo girato il suo primo video musicale. Ci sono cose che non sono scritte nella pietra. Il cambio del suo nome in Ye, be’, ne parlava già nel 2000. Ci sono tante piccole cose che dimostrano che si sta muovendo nella giusta direzione.

Ci sono momenti molto intensi e personali nel documentario, da Kanye che piange dal dentista a momenti di tenerezza con la madre. Ye è stato incluso nel processo di montaggio e c’è stata qualche obiezione o resistenza da parte sua all’idea di includere quei segmenti?
Simmons:
Non ci sono state obiezioni e Kanye non ha messo mano al montaggio. La nostra azienda d’altronde si chiama Creative Control e abbiamo capito da altri progetti che se perdiamo il controllo creativo, ci perdiamo per strada anche la storia che deve essere raccontata. Alcune persone vorrebbero questo fosse un documentario scandalistico incentrato su Kanye. Oppure una versione imbellita, qualcosa che Ye avrebbe potuto desiderare. Ma non è niente di tutto ciò. Abbiamo voluto raccontare la storia che noi preferivamo.

Non si tratta di pregiudizi o nulla di simile, è quello che Dio ha progettato per noi. Ho cercato per mesi di condividere il progetto con Kanye ma non è mai andato in porto. Gli ho mostrato il promo e gli ho detto “Fidati come io mi fido di te.” Poi gli ho fatto sapere che doveva guardare questo lavoro con tutte le persone che erano con lui sin dall’inizio, chi lo ama genuinamente e non ha secondi fini. So che quando saremo tutti insieme e avrà modo di vedere il tutto sarà un momento veramente emozionante per Ye, perché è emozionante persino per tutti noi che ci siamo sin dal primo giorno del suo viaggio. Piangeremo insieme, rideremo, ci abbracceremo tutti.

Kanye West ride insieme a sua madre Donda West.
Donda West e Ye.

Gli altri vostri lavori vedono come protagonisti altre importanti figure afroamericane riprese in momenti diversi delle loro vite. Pensate sia importante documentare la storia della comunità?
Ozah:
Per quanto mi riguarda, è importante controllare la narrazione che viene fatta della nostra cultura. Una parte del nostro percorso nell’arte del racconto risiede proprio nella prospettiva di usarla come strumento per creare empatia. Molte delle storie che raccontiamo sono certamente dedicate a noi, ma anche destinate alle altre culture, in maniera che comprendano meglio la nostra tradizione.

Quale eredità sperate di lasciare con jeen-yuhs?
Ozah:
Sarebbe eccezionale se diventasse qualcosa che continui semplicemente a guardare a più riprese, come quei libri che rileggi o spulci perché rimangono un modello per tutta la vita. Un elemento a cui attingi o che mostri a una persona bloccata in qualche sorta di routine quotidiana, che non riesce più a perseguire le proprie passioni. “Guarda questo documentario, forse riuscirà a farti sentire meglio, ti conforterà e ti darà la fiducia necessaria per dedicarti alla tua passione e riuscire a farcela,” qualcosa del genere. Può diventare la risorsa a cui continuare a guardare negli anni a venire.

Questa intervista è stata editata per ragioni di chiarezza e brevità.

@nanasbaah