The menu recensione film
Foto per gentile concessione di Searchlight Pictures.
Cibo

Il film 'The Menu' segna l'inevitabile declino dei programmi gastronomici

'The Menu', il film con Anya Taylor-Joy e Ralph Fiennes, porta all'estremo tutto quello che abbiamo amato grazie ai programmi di cucina.
Andrea Strafile
Rome, IT
dietro le quinte serie tv
Cosa succede davanti e dietro la tv, spiegato da chi la fa.

In The Menu sono stati bravi a traslitterare le nostre convinzioni—gli chef nel credere di essere intoccabili artisti, i clienti nel credere che lo siano davvero—in eccesso cinematografico.

Con il film The Menu (e, prima di lui, con il buon The Bear), il mondo dell’intrattenimento televisivo, seriale e cinematografico che racconta il mondo della ristorazione in un certo modo—capitolo apertosi nel 2005 con il primo Hell’s Kitchen—potrebbe essere destinato a morire. Perché ha aperto a chiunque gli occhi su come funziona davvero.

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Potevamo già capirlo un pochino con l’ultimo Chef’s Table che ci stavamo stufando. Ma se ancora rimanevamo aggrappati alla speranza del futuro prossimo, The Menu ha scoperchiato definitivamente il vaso di Pandora.

Tra poco mi spiegherò meglio. Intanto diciamo cos’è, questo The Menu.
Si tratta di un film del 2022—ancora nelle sale—con protagonisti Ralph Fiennes (strepitoso) e Anya Taylor Joy (scazzata e incredibile), e l’incursione di un paio di altri attori noti come Nicholas Hoult (l’insopportabile Tony Stonem di Skins, che è effettivamente insopportabile anche qui). È stato definito una black comedy, ma di commedia non ha molto. Ci ha preso di più il New York Times, parlando di black satire.

La storia è questa: un gruppo eterogeneo composto da ricchi antichi, ricchi tech, un attore, un fissato con la cucina e Anya Taylor-Joy, a cui non frega niente della cucina fighetta, sbarca su un isolotto del Pacifico che ospita uno dei ristoranti più esclusivi al mondo, l’Hawthorne.

Lo chef Julian Slowik, aka Ralph Fiennes, è un purista visionario alla costante ricerca della perfezione e alle sue dipendenze c’è una squadra di cuochi, camerieri e una restaurant manager di origine asiatica a lui completamente asserviti. “Non siamo una squadra, siamo una famiglia,” dice Elsa, la manager, cominciando già a tirare stoccate satiriche alle scemenze che sentiamo da anni nei ristoranti più blasonati. Non siete una famiglia, cari ristoranti, soprattutto quando non fate le cose precise con i diritti dei lavoratori. “Siamo una famiglia che liquefa, fermenta, macella e coltiva.” E via un’altra stoccata a quanti fanno tutto di tutto (il pane lasciatelo fare ai panettieri, ok?).

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Comunque: in quest’isola sperduta, dove non prende il telefono e non si possono fare le foto ai piatti, lo chef Slowik racconta e serve il suo menu, portata dopo portata. E fino a qui… Solo che il menu—inevitabilmente inconsistente, come il piatto Santo Pane, un piatto di pane che non ha il pane e che ricorda come le stoccate si sprecano—diventa piatto dopo piatto sempre più cringe, fino a sfociare nel puro terrore. Il resto della storia è che, chiaramente, i commensali si devono salvare. Più o meno è Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie.

The menu recensione chef's table

La prima portata nel film. Assomiglia parecchio a Chef's Table. Foto per concessione di Searchlight Picture.

Cinematograficamente parlando, hanno detto di The Menu che sia un film horror, ma questo non lo credo. È più un film scuro, con un disagio nella narrazione più simile a Midsommar che a Saw. Sì, Midsommar ci sta bene come paragone: solo che The Menu vive nelle tenebre e quindi spaventa meno, mentre Midsommar è in piena luce e ti fa rimanere come uno stronzo. Registicamente parlando, invece, The Menu ha ritmi che non ti fanno certo stare col fiato sospeso. Però il regista semi sconosciuto Mark Mylod (ha fatto Ali G e poco altro) una cosa la fa: ti mette a disagio. Ti fa arrabiare. E ti toglie il classico schema del personaggio a cui ti affezioni per disegnare un quadro crudemente satirico della classe agiata che ormai ha come status anche il ristorante stellato da mostrare. Ma anche di tutto il mondo enogastronomico, dei suoi problemi e, in maniera immediata e diretta, dei programmi televisivi. Ed è di questo che ci interessa parlare.

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All’inizio ho detto che The Menu segna l’ufficiale declino di programmi televisivi e glorie degli chef—per il grandissimo pubblico, si intende. Ora capiamo perché.
Nel film, Ralph Fiennes, chef Julian Slowik, spiega ogni piatto prima di servirlo—che non avviene in genere, ci pensa il cameriere, ma vabè, ci sta. Una musichetta assai simile a quella iconica di Chef’s Table, ma dal tono oscuro e sbagliato, accompagna la realizzazione e la presentazione dei piatti, ripresi dall’alto e con tanto di titolo e spiegazione, anche qui con molte somiglianze con Chef’s Table.

The Menu mostra la fragilità di un mondo in cui ci siamo abituati a pensare ai cuochi come seri pensatori del nuovo millennio. Ma spesso non è così.

I piatti ovviamente prendono tutti i trend degli ultimi anni delle cucine migliori del mondo: dalla cucina ultra-local all’ingrediente che c’è anche se non c’è; dal Pacojet per fare i gelati salati al piatto dedicato al ricordo (cambia solo che il ricordo è di quando ha ficcato delle forbici nel cuore di suo padre.)

E mano a mano che si va avanti alcuni di questi trend vengono scardinati attraverso appunto l’assurdità che lo chef mostra bene, portandoli al punto più estremo. Un estremismo che fa gioco alla narrazione senza renderlo una noia per quelli del settore, ma che fa anche riflettere profondamente su quanto in questi anni abbiamo dato credito a programmi e chef fino a convincerci che prendere un aereo per cenare al NOMA di Copenaghen spendendo metà del nostro stipendio fosse un sogno da realizzare.

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E così nel ristorante ci devi andare soffrendo, devi pagare una fortuna e devi lasciare che la filosofia dello chef sia la tua nuova legge. Che per inciso è assai simile a quello che dovevi fare per andare da Fäviken dello chef Magnus Nilsson (oggi definitivamente chiuso): ore di macchina in mezzo al nulla per una costosissima cena che prometteva di cambiarti la percezione palatale e mentale.

A fare da contraltare, a rappresentare l’essere comune, ci pensa Anya Taylor Joy, aka Margot: la classica persona che si lamenta di come non ci sia cibo vero, che sono tutte cagate e che in realtà ha fame. Con l’ego dello chef che le risponde: “È impossibile, ogni piatto è tarato su ognuno di voi, tutto è perfetto!”

The menu recensione film

Il dessert nel film. Grab dal trailer di The Menu.

La ricerca della perfezione a tutti i costi, la paura di accettare critiche, la visione a senso unico sono il problema più evidente che il film mostra, facendoti immedesimare un po’ con Anya Taylor-Joy. Mostra la fragilità di un mondo—un mondo che noi abbiamo costruito—in cui ci siamo abituati a pensare ai cuochi come seri pensatori del nuovo millennio. “Non mangiate, assaporate, capite,” dice Ralph Fiennes. Ma a volte non c’è da capire, si è persa la bussola del mangiare.

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Il dessert in una puntata di Chef's Table. Grab dal trailer della 2^ stagione di Chef's Table.

Questo velo levato, portato all’estremo tipico della satira ma in chiave spettacolare holliwoodiana, è proprio quello che, insieme alle citazioni di Chef’s Table e Hell’s Kitchen, segneranno la fine dei programmi di cucina.

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In The Menu sono stati bravi a traslitterare le nostre convinzioni—gli chef nel credere di essere intoccabili artisti, i clienti nel credere che lo siano davvero—in eccesso cinematografico. Per questo motivo forse non serviranno più i racconti strappalacrime sulla poesia della farina che ha cambiato la vita di uno chef. Per questo non rideremo più di un Gordon Ramsay che sbraita contro un povero malcapitato.

Come i commensali non sono in grado di impaurirsi fin dal primo segnale sinistro, così anche noi, da spettatori, fatichiamo a scandalizzarci, ad avere paura. Perché in questi anni abbiamo esagerato e osannato.

E però c’è anche altro, più sottile, ma evidente se si sa come guardare: il film è intelligente e intelligentemente parla anche dei diritti mancanti di chi lavora in questo genere di ristoranti. Attraverso allegorie (come quando, in maniera spettacolare e macabra, nel piatto “The Mess” si mette in scena lo stress arrivato al limite); attraverso scene di una brigata meccanica senza giudizio che lavora religiosamente, nel senso della fiducia allo chef; attraverso l’autogiudizio in genere sempre mancante nel caso di molestie sessuali sul lavoro; e, infine, sulle pure immagini e il loro setting. Come è stato detto molto bene in questo articolo di Eater: “Qui c’è una critica al sistema della ristorazione, che spesso usa spazi evocativi e piatti bellissimi come modo per nascondere i propri abusi.”

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Che è vero: rimaniamo impalati davanti alla magnificenza di qualche puntino sul piatto e su una rara specie di alga, ma non ci preoccupiamo minimamente se tutto quello che vediamo e mangiamo sia o meno umanamente sbagliato.

E come nemmeno i commensali sono in grado di arrabbiarsi o impaurirsi fin dal primo segnale sinistro e la loro realtà si fonde con la narrazione che abbiamo fatto in questi anni di questi ristoranti e chef, così anche noi, da spettatori, fatichiamo a scandalizzarci, ad avere paura. Fino ad accettare, però, che abbiamo esagerato. E The Menu ce lo fa vedere.

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