A Istanbul, il tempo dei negoziati è finito

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A Istanbul, il tempo dei negoziati è finito

Un resoconto da Piazza Taksim dopo il weekend di violenza appena trascorso.

È domenica sera. Mentre scrivo questo articolo a casa dei miei amici qui a Istanbul, una ragazza seduta accanto a me piange, in silenzio. Come da molti giorni a questa parte, anche stasera le persone si affacciano alle finestre per fare rumore con le pentole. Sembra tutto normale.

Stavolta, però, con il canto del primo muezzin—che negli ultimi giorni solitamente segnava la fine dell'attesa della polizia—i rumori di gas lacrimogeni esplosi sono solo aumentati, e non abbiamo smesso di sentirli per un minuto durante il dì.

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Questa domenica è stata una giornata di inaudite violenze, iniziate sabato con lo sgombero di Gezi. C'erano persone annaffiate dai TOMA con miscele urticanti che si dimenavano di fronte alle infermerie da campo allestite per strada; bambini dispersi e separati dalla propria famiglia perché all'ora dell'attacco il parco ne era gremito, e dottori arrestati perché colpevoli di aver aiutato i manifestanti. Ci trovavamo di fronte all'Istituto di cultura francese quando al suo interno è stato lanciato un lacrimogeno, così come è successo al consolato olandese.

Le strade intorno a Taksim, deserte se non per qualche gruppo di ultimi resistenti, erano una cortina di fumo.

Tutto ciò è in netto contrasto con sabato mattina: sembrava che il movimento dovesse finalmente trovate la propria voce. Tutti avevano speranza nel futuro, dopo due ultimatum di Erdogan tradottisi in niente. Per quanto macchinoso, sembrava che il processo di confronto democratico interno alla piattaforma potesse funzionare.

Come molti altri presenti in piazza, però, Imre Azem, acclamato regista di Ecumenopolis—documentario sull'urbanizzazione selvaggia degli ultimi anni—denuncia la scarsa organizzazione del negoziato: "la rappresentanza non era omogenea, non conteneva tutte e 116 le componenti del movimento."

Lo stesso disappunto si ritrova nei commenti alla proposta di referendum, che lui definisce un "piano politico medioevale." Imre fa parte del People's Urban Movement, è stato uno dei primi a montare la tenda nel parco, il 29 maggio ed è tra i sostenitori di un'occupazione a oltranza. Poche ore prima, del resto, i manifestati si erano accordati per rimanere fino al 30 giugno, giorno della parata del gay pride.

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"Vogliamo le dimissioni di Erdogan, anche se un gruppo così piccolo in proporzione non può far sì che accada," continua Imre. "Solitamente, quando Erdogan indice manifestazioni, paga ognuno circa 30LT (15 euro), li trasporta al luogo in cui si manifesterà. Noi siamo qui su base volontaria, nonostante i gas, nonostante le manganellate. […] Probabilmente Erdogan polarizzerà le parti del conflitto: ha già pronunciato una serie di discorsi in cui sembra dividerci [noi turchi] in 'giusti' e 'cattivi'."

Quando gli chiedo come vede il futuro della protesta, Imre puntualizza: secondo lui, la possibilità che il movimento di Taksim entri in politica è da escludere. Ma a determinare le dinamiche sarà indubbiamente anche l'economia: "In Turchia i capitali stranieri entrano ogni mattino, ma escono ogni sera. Abbiamo un'economia molto fragile, e se l'investimento estero scema, scema anche il nostro output economico. Molti di quelli che sostengono l'economia turca sono dei Paesi arabi. Inoltre, Erdogan sostiene i ribelli in Siria, e gli Stati Uniti non possono che volerlo, per quanto superficialmente condannino la sua 'unhelpful rhetoric'. Gezi è nell'occhio del ciclone, siamo in mezzo a tutto."

Due ore dopo quest'intervista una nostra amica ci ha chiamato per dirci che la polizia aveva dato un ultimatum di neanche trenta minuti ai manifestanti per lasciare la piazza. Siamo corsi sull'Istiklal, una delle strade che porta a Taksim, ed era talmente piena di gente che era impossibile muoversi. È lì che i primi manifestanti annaffiati dai TOMA carichi di materiale urticante sono stati soccorsi. Ci siamo spostati su Siraserviler, strada più piccola e da dove è solitamente più facile passare, e anche lì il cordone di polizia era impenetrabile.

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Siamo tornati a casa, che è a circa 600 metri da Taksim, e durante la notte sono stati lanciati lacrimogeni anche nella nostra via. Abbiamo saputo di arresti arbitrari di persone solo perché munite di una maschera antigas, e della notizia del Ministro per gli Affari Europei che dichiarava chiunque entrasse a Taksim un terrorista internazionale. Su internet iniziavano a circolare le immagini dei manifestanti intrappolati dentro al Divan. Anche la parte asiatica di Istanbul voleva partecipare, ma i manifestanti sono stati bloccati sul Bosforo. Metro e traghetti erano fermi. Tutti spingevano per entrare a Gezi ma nessuno è riuscito: la decisione di bloccare la piazza a chiunque volesse entrare era già stata presa, anche in vista del comizio organizzato da Erdogan per il giorno dopo.

Dopo una mattina densa di gas lacrimogeno a Istanbul, Ankara e altre grandi città, domenica Erdogan ha tenuto il suo discorso davanti a una folla di 300.000 persone, mentre il conto di manifestanti feriti e arrestati saliva rispettivamente a 5.000 e 400. Organizzato con lo scopo di mostrare unità nazionale nel partito per la Giustizia e Sviluppo (AKP), il comizio ha visto un Erdogan sprezzante e paranoico; ha deriso i protestanti considerandoli “marginali” e rimproverato la stampa internazionale—in particolare la CNN e la BBC—di essersi abbandonata a mere provocazioni.

Siamo tornati in strada nel pomeriggio e ormai la polizia aveva vinto la battaglia. Nugoli di manifestanti erano troppo sparsi per riunirsi in un unico fronte, a differenza dei giorni passati: con chiunque stessimo a 'resistere' ai gas, il senso di impotenza e di resa si era ormai impossessato di tutti. La strada si è chetata quando si è cominciata a diffondere la notizia che la polizia arrestava chiunque circolasse. L'ospedale tedesco accanto a casa era presidiato dalla polizia, e alcuni feriti erano stati malmenati dentro al pronto soccorso. Ad Ankara la situazione rimane particolarmente tesa, e diversi sindacati hanno indetto scioperi per i prossimi giorni, ma nessuno sembra avere un'idea chiara di quanto succederà.

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Alla fine di tutto, piove, è domenica sera. Per strada prima sono passati dei sostenitori dell'AKP, e urlavano "venite! venite." Volevamo ordinare un kebab a domicilio, ma abbiamo desistito: non vogliamo aprire la porta a nessuno che sia sconosciuto. Sappiamo che la polizia entra in casa e compie arresti indiscriminati.

Con la collaborazione di Virginia Pietromarchi.

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