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A9N3: Il sottobosco ucraino è roba dura

Vivere il sogno americano in Cisgiordania

Chi sono i coloni illegali d’Israele?

Nella testa di molte persone, i coloni ebrei in Cisgiordania sono dei fondamentalisti barbuti che girano con gli M16 e vivono in cima alle colline dentro a vecchie roulotte, con donne e bambini scalzi. E a volte questa è la verità—ma non sempre. Nel 2010, 269 ebrei si sono trasferiti dagli Stati Uniti agli insediamenti in Cisgiordania, molti dei quali vengono pubblicizzati come “zone residenziali” tra le famiglie e i colletti bianchi americani. La migrazione viene definita “fare aliyah,” che si traduce dall’ebraico più o meno come “risalita.” E poco importa se si tratta di una violazione delle Convenzioni di Ginevra, quando Israele mette in pratica la migrazione dei suoi cittadini in un territorio, quello della Cisgiordania, che gli Accordi di Oslo affidano per un quinto alla giurisdizione all’autorità palestinese. Per incoraggiare gli ebrei a stabilirsi lì illegalmente, il governo israeliano fornisce sussidi per l’acquisto di case e offre tassi ridotti per i terreni in leasing, in aggiunta ai benefici che ricevono tutti i nuovi cittadini israeliani, come l’assistenza sanitaria gratuita, una riduzione che arriva fino al 90 percento sulle tasse di proprietà, l’esenzione dalle rette scolastiche per il conseguimento di lauree specialistiche, e il pagamento di circa 14.000 dollari in denaro per una famiglia di almeno cinque elementi. La prima rata viene pagata all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv—in contanti. I potenziali migranti cercano casa ai regolari eventi sponsorizzati dal governo, come la fiera del settore immobiliare israeliano che si è recentemente tenuta a New York o la “aliyah expo” a cui sono andata un paio di anni fa al Times Square Marriott. Con la barba curata e una kippah fatta all’uncinetto, Shmuel Aron della Brooklyn Realty sedeva di fronte a un pannello di compensato a cui erano appese fotografie di slanciati palazzoni di Har Homa, una città pubblicizzata come israeliana, ma in effetti un insediamento nato proprio in Palestina, vicino a Betlemme. Per farla breve, il governo israeliano divide la Cisgiordania, costruisce abitazioni abusive in territorio palestinese, lo definisce territorio israeliano, e poi invita gli ebrei a trasferirsi. Stand ricoperti di drappi offrivano dépliant informativi sui prestiti, in aggiunta ai molti sussidi governativi che si accompagnano all’aliyah. Dopo aver dato un’occhiata alle offerte, ho notato una ciotola piena di biscotti della fortuna, ne ho preso uno e ho scoperto che “Israele è per tipi tosti”. Mentre Israele incoraggia gli ebrei di tutto il mondo a trasferirsi da qualche parte in Terra Santa, i palestinesi non sono così fortunati. Durante la guerra del 1948, quando Israele si è proclamato Stato sovrano, le forze sioniste hanno espulso 700.000 palestinesi da quello che oggi è il territorio nazionale. Per gli israeliani, questa è stata la Guerra d’Indipendenza, per i palestinesi, la Nakba—la catastrofe. Ancora oggi, il governo israeliano impedisce a questi rifugiati palestinesi in esilio e ai loro discendenti di tornare nelle loro case. I confini dell’armistizio tracciati nel 1949 costituiscono la frontiera israeliana riconosciuta a livello internazionale, la famigerata Linea Verde, che separa la Cisgiordania da Israele. La costruzione degli insediamenti israeliani in Palestina è cominciata nel 1967, quando Israele ha occupato la Cisgiordania nella Guerra dei Sei Giorni. Fin dall’inizio, lo scopo del progetto è stato stabilire “fatti compiuti”—in pratica cancellare la Linea Verde. Attualmente ci sono più di 500.000 coloni ebrei in Cisgiordania che vivono lì violando i principi stabiliti dal diritto internazionale. A volte, raramente, i coloni subiscono delle perdite, come nel maggio 2011, quando un uomo si è intrufolato nell’insediamento di Itamar e ha accoltellato un’intera famiglia uccidendo tre bambini. Se il 1967 ha segnato l’inizio dell’insediamento israeliano in Cisgiordania, negli anni Ottanta il governo centrale ha sviluppato un piano specifico per velocizzarne l’attuazione vendendo agli israeliani alcune aree urbane dei sobborghi metropolitani delle città più importanti, come Gerusalemme e Tel Aviv. I generosi sussidi governativi hanno attratto orde di abitanti dalle periferie delle città israeliane e migranti ebrei provenienti da tutto il mondo—gente che ha attraversato la Linea Verde per passare in Cisgiordania più per le potenzialità di un buon affare che per ragioni ideologiche. Intanto il governo ha confiscato sempre più terre ai palestinesi, costruendo autostrade percorribili solo dai coloni per raggiungere le città israeliane lungo la Linea Verde. “L’idea della periferia sussidiata è stato il fattore che ha realmente cambiato la situazione demografica in Cisgiordania,” mi ha detto Neve Gordon, autore di Israel’s Occupation. Negli ultimi 30 anni, c’è stato un aumento del 1.600 percento della popolazione di coloni israeliani in Cisgiordania. Più israeliani oltrepassano la Linea Verde, si pensa, più radicata diventerà l’occupazione. I coloni vengono sfruttati come pedine in un gioco di acquisizione e controllo territoriale. Esempio emblematico il 30 novembre 2012, quando il giorno dopo che le Nazioni Unite hanno votato per migliorare lo status della Palestina da “entità osservatrice” a “Stato non membro”, il governo israeliano ha annunciato la costruzione di 3.000 nuovi alloggi per i coloni in Cisgiordania. Se non l’avessero messo abbastanza in chiaro con quattro decenni di distruzione e occupazione, ora è una certezza che il governo israeliano non ha alcuna intenzione di lasciare spazio in Cisgiordania per la creazione di uno Stato Palestinese.

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Un po’ di tempo fa, la fotografa Gillian Laub ha visitato l’insediamento di Hashmonaim—circa 40 minuti a nord-ovest di Gerusalemme. I residenti di Hashmonaim hanno a disposizione prati curati, scuole eccellenti, e la vista sulle colline circostanti. C’è anche un campo da baseball all’ingresso, appena oltre la guardiola. Quasi la metà dei 2.600 coloni di Hashmonaim proviene dalla zona di New York. Con l’aeroporto Ben-Gurion a una distanza di soli 22 minuti in macchina, in effetti molti residenti tengono i loro posti da impiegati in America, lavorando a distanza e tornando indietro quando necessario. I potenziali coloni ricevo un pratico foglio di FAQ: “La zona è oltre la ‘Linea Verde’?” dice una delle domande. “Geograficamente e per quanto riguarda le tasse, sì,” spiega il foglio. “A livello di sicurezza e politicamente, no.” In altre parole: Sì, questo insediamento è tecnicamente illegale secondo il diritto internazionale. Ma visto che è protetto da uomini armati ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, e che il governo israeliano ne riconosce l’ufficialità, Hashmonaim non è illegale. I coloni di Hashmonaim sono sionisti, il che significa che considerano la terra sotto le loro case un dono di Dio. È una rivendicazione territoriale molto contestata dal vicino villaggio palestinese di Nil’in, separato dall’altro da una recinzione di filo spinato. Ma le cose non sono sempre state così. Nel 1967, dopo aver sconfitto l’Egitto, la Siria e la Giordania nella Guerra dei Sei Giorni, gli israeliani hanno avviato l’occupazione di Gaza, delle alture del Golan e della Cisgiordania, Nil’in compresa. Nel 1985, ne hanno confiscato circa 95 ettari e lì hanno costruito Hashmonaim. Poi, nel 2002, Israele ha cominciato a costruire una barriera di separazione—un muro lungo 439 chilometri ancora in costruzione. Oggi il tratto che attraversa Nil’in non è altro che una recinzione tra palestinesi e Hashmonaim. (Altre parti della barriera sono in cemento e raggiungono i sette metri di altezza.) Oltre a garantire più sicurezza, la barriera è l’ennesima mossa da manuale per appropriarsi del territorio. Il percorso del muro entra in territorio palestinese e comprende le coltivazioni dei residenti di Nil’in, assieme agli insediamenti di parte israeliana. Ma i residenti di Nil’in, separati dai loro terreni, vivono effettivamente dal lato palestinese. Israele controlla dove vengono messe le recinzioni e sfrutta la costruzione di queste ultime per guadagnare terreno. È una strategia efficace, e oggi, l’ottantanove percento di Hashmonaim si trova su un’area che un tempo apparteneva a Nil’in. Se tutto andrà secondo i piani, quando Israele finirà la costruzione del muro andranno persi altri 253 ettari—circa il 20 percento di quello che rimane—del territorio di Nil’in. La stessa cosa sta succedendo in molti altri villaggi palestinesi toccati dalla barriera, che in pratica si sta mangiando il dieci percento della Cisgiordania. Ogni venerdì, come in molti villaggi dei territori occupati della Palestina, i residenti di Nil’in organizzano una manifestazione contro la barriera e gli insediamenti, e mentre i coloni israeliani sono sottoposti al diritto civile israeliano, i dimostranti palestinesi sono sotto occupazione e devono attenersi alla legge marziale. Secondo quanto riportano molti organismi per i diritti umani come B’Tselem, Amnesty International e Defense for Children International, i palestinesi— compresi i bambini—vengono regolarmente radunati durante la notte, interrogati senza un avvocato, picchiati, e anche torturati. Le testimonianze vengono estorte anche ai bambini, che sono costretti a fornire informazioni sugli organizzatori delle proteste e sui partecipanti. (A Bil’in, un villaggio vicino a Nil’in, Abdallah Abu Rahmah, un insegnante palestinese colpevole di aver organizzato una manifestazione, ha trascorso 16 mesi in carcere con l’accusa di “incitamento” e “organizzazione di manifestazioni illegali.”) Dal 2005, a Nil’in, le Forze di Difesa Israeliane hanno ucciso cinque dimostranti, e almeno 23 palestinesi—compresi 12 bambini—hanno perso la vita durante le manifestazioni locali contro la barriera. Un venerdì di pioggia, sono andata a Nil’in e ho passeggiato per gli uliveti circostanti con Mohamed Ameera, un laureato dell’Università di Birzeit che spesso nel suo villaggio partecipa alle proteste settimanali. Ci siamo fermati all’altezza di un muretto di pietra, a metà strada circa tra il villaggio e Hashmonaim, l’insediamento israeliano. Mohamed mi ha detto di guardare oltre la barriera, verso un ammasso di tetti fatti di tegole rosse ad Hashmonaim. “Quelle case all’angolo sono costruite sulla mia terra,” ha detto con tono piatto. Proprietà come quelle vengono vendute ai coloni come “cottage” o “ville” per somme che arrivano fino a un milione di dollari. Non è difficile capire perché lo sviluppo degli insediamenti sia causa di tensioni da queste parti. “Se qualcuno arriva in casa tua, prende i due piani di sopra e ti mette nel seminterrato, come fai a vivere qui?” si domanda Mazin Qumsiyeh, professore all’Università di Betlemme e illustre attivista che lotta contro gli insediamenti israeliani—pieni di americani—di Gush Etzion, a circa un’ora di macchina da Hashmonaim in direzione sud-est. Un sondaggio di qualche anno fa, condotto nel novembre del 2009 da Arutz Sheva, un giornale pro-coloni, ha provato a rispondere. Il sondaggio chiedeva agli intervistati di immaginare una soluzione ideale per il conflitto israelo-palestinese, e più della metà ha risposto, “Trasferire i palestinesi in un altro Paese arabo.”

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ALLISON LEVINE SPEISER E BARUCH SPEISER (foto di apertura)

Allison Levine Speiser e Baruch Speiser hanno votato per Barack Obama nel novembre 2008. L’agosto successivo hanno preso i loro tre bambini e si sono trasferiti da Highland Park, New Jersey, all’insediamento di Mitzpe Yericho in Cisgiordania. “Non siamo tutti uguali,” spiega Allison, ex-impiegata e insegnante. La popolazione di Mitzpe Yericho è composta da ebrei di tutto il mondo, “Volevamo vivere in un posto in cui ci fossero bambini simili ai nostri, famiglie simili alla nostra,” dice Allison. Baruch, ingegnere informatico, ha scelto di unirsi a un insediamento per questioni pratiche: era più economico e sarebbe stato più facile trovare il quartiere ideale—“ruraleggiante ma non rurale”. Allison era irremovibile sul fatto che la famiglia si dovesse trasferire in Cisgiordania, e non da qualche parte in Israele. Entrambi sono sionisti, ma Allison era quella che più di tutti voleva “fare resistenza,” come dice lei. “Mia moglie è davvero uno spirito libero,” dice Baruch. Ride delle fantasie di Allison, tipo vivere in roulotte in un avamposto. “Nella mente ha quest’immagine romantica di conquistare il territorio.” Lo scorso giugno c’è stato il 45esimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni. “Hanno perso,” dice Allison, con il suo accento nasale del New Jersey centrale. “Noi abbiamo vinto. Fatevene una ragione.”

JOE E AVIVA OFFENBACHER

Uno a uno, i parenti di Joe e Aviva Offenbacher si sono trasferiti in Israele, e loro sono rimasti gli unici a risiedere ancora in New Jersey, nella cittadina di Teaneck a maggioranza ebrea ortodossa. Le loro opzioni erano trasferirsi nell’appartamento vuoto dei genitori di Joe nell’Upper West Side a Manhattan o “spostarsi più a est,” come dice Joe. Nel 2004, hanno venduto la loro società di pony express sulla 16esima strada e hanno raggiunto la famiglia della sorella di Joe a Hashmonaim. Con un po’ degli aiuti destinati dal governo israeliano alle start-up, Joe ha cominciato a importare e distribuire macchine per gli Slurpee nella Terra Promessa, dove per ragioni di protezione del marchio le bevande vengono vendute come Freezee. Adesso Joe lavora con la polizia locale per pattugliare l’insediamento. “È spaventoso,” dice Aviva delle manifestazioni settimanali dall’altra parte della barriera a Nil’in. “Vedo le bandiere palestinesi sventolare nel mio cortile.”

AVIVA E ISAAC NAGEL

Quando Aviva e Isaac Nagel hanno messo al mondo la loro prima figlia, otto anni fa, l’hanno chiamata Aliyah. Era un loro piccolo scherzo: hanno sempre sperato di “fare l’aliyah”—emigrare in Israele—e l’aver “fatto” un’Aliyah gliel’avrebbe ricordato per sempre. In quanto sionisti di fede ebrea ortodossa, la vita in Israele prometteva loro l’opportunità, come dice Isaac, di svolgere “una specifica missione come persona, portare Dio sulla terra.” Nell’agosto 2010 hanno lasciato la loro casa di West Orange, in New Jersey, per trasferirsi nell’insediamento di Ariel, una cittàdina della Cisgiordania costruita per il trentun percento sui territori palestinesi, almeno secondo Peace Now, un’ONG di Tel Aviv. Grazie al suo flusso continuo di sussidi governativi per favorire l’insediamento, Ariel era un luogo in cui potevano permettersi una casa con un grande giardino. Isaac è uno psichiatra e visita i suoi pazienti su Skype, connettendosi dalle sei di sera alle due del mattino con un ufficio a Milwaukee,dove non ha mai messo piede. Con i bambini a scuola, Isaac e Aviva trascorrono le loro giornate nelle caffetterie o al country club di Ariel, costruito grazie alle donazioni degli ebrei americani. Aviva si è trasferita in Cisgiordania per ragioni economiche, ma in generale appoggia i coloni per motivazioni ideologiche. “Se le colline si ripopoleranno di arabi, non ci sarà più nessun ebreo,” dice Aviva.