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Parli male dell'Italia, e poi esce Gomorra

In un paese in cui buona parte delle serie tv non raggiunge nemmeno il livello decoro, ogni tanto avviene un miracolo ed esce qualcosa che si rivolge a un pubblico ancora in grado di lavarsi e urinare da solo.

Via.

Una cosa che pochi sanno è che ogni volta che qualcuno parla diffusamente di una serie televisiva italiana come se fosse un prodotto degno di nota, da qualche parte in paradiso c’è un cucciolo di unicorno che diventa tetraplegico.

Finora infatti sono state pochissime le serie rivolte a un pubblico ancora in grado di lavarsi e urinare da solo e sono state ancora meno quelle appena sopra il livello del decoro giudicabili senza la commozione che riserveresti al lavoretto di Natale di un bambino speciale—non sarà come gli altri bambini, ma si vede che si è impegnato tanto!

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Tutto questo è sempre accaduto mentre il resto del mondo—non solo gli americani ka$ta con i loro Big Mac ripieni di superficialità e capitalismo—cominciava a usare lo strumento della narrazione seriale come un’arma di riflessione al pari di quella cinematografica, magari anche prendendo del materiale della nostra storia culturale e costruendoci le hit mondiali che a noi non interessavano. Insomma HBO produceva I Soprano, noi L’onore e il rispetto con Gabriel Garko.

Non so bene cos’è successo poi. Qual è la congiunzione astrale millenaria che permette che una volta ogni sette anni in una notte senza luna nasca in Italia una serie con la cura e la forza espressiva che meriterebbe un prodotto televisivo nazionale, fatto sta che è arrivata Gomorra.

Come il film, la serie è tratta dal libro di Roberto Saviano, un’inchiesta importante ma dalla scrittura non esaltante, che ha sicuramente avuto le sue incarnazioni più interessanti sullo schermo. Per ogni lirismo poco riuscito di Saviano c’è una scena perfettamente efficace della serie in un rapporto direttamente proporzionale pesantezze : fomento.

Ma non è solo il materiale di base su cui è girata, è l’approccio con cui è stato affrontato il lavoro: la sceneggiatura brillante e curata che non cerca in nessun modo di imboccarti redenzioni e pentimenti (e che viene da parte dello stesso team di un’altra serie che tutti speriamo ci farà buttare tutto il metadone e sparare ad altezza uomo dalla gioia, cioè 1992), la regia che non tremola da un’inquadratura sponsorizzata all’altra, il suono in presa diretta e non registrato direttamente da dentro il sarcofago di Lino Banfi.

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Anche il casting ha avuto un ruolo importante, perché si è trattata di una delle poche volte in cui si è cercato di privilegiare l’autenticità della storia, per cui via Sabrina Ferilli, dentro i ragazzi delle piccole compagnie teatrali locali. I produttori raccontano di come girare in territori difficili abbia dato loro la possibilità di interagire realmente con la storia che volevano raccontare e con le sue implicazioni. Di come sia stato forte e importante portare lavoro in una zona economicamente depressa, e trasmettere—nei limiti—la possibilità di un mestiere e di una vita diversa a molte persone che hanno partecipato al film.

Alcuni dei ragazzi non professionisti che hanno lavorato con la serie, spesso con un vissuto parecchio turbolento alle spalle, hanno poi cominciato percorsi di formazione teatrale. Questa forse è la soddisfazione più forte e strappalacrime di tutte.

Ecco perché i manifesti che sono comparsi in questi giorni a Napoli, in “protesta” contro l’immagine della città che trasmette la serie, sono l’espressione più alta (bassa?) del fascismo dell’ignoranza e ci ricordano una cosa molto importante: la tv può essere cultura, uno strumento di riflessione collettiva, e quindi può fare paura.

Può essere un mezzo di critica affilato e pericoloso quanto una bottiglia rotta in mano a uno spaccino a cui devi dei soldi, e quando lo diventa vuol dire che ha raggiunto il suo fine ultimo e che i soldi investiti in un prodotto di finzione hanno prodotto dei risultati concreti a beneficio di tutti.

Se poi vende all’estero ancora prima che sia stato finito di girare e diventa un caso nazionale ancora prima di andare in onda, come è successo a Gomorra, si trasforma anche in uno dei successi economici più importanti degli ultimi anni per il broadcaster e dimostra una cosa ancora più pericolosa—e cioè che al pubblico piacciono i prodotti di qualità. Che è possibile incassare del denaro senza girare spot mascherati da sit com a camera fissa con le battute catatoniche da animatori del centro commerciale.

Io, se lavorassi in Rai, da oggi comincerei ad aggiungere una goccina in più al bicchiere d’acqua serale con dentro il sonnifero, che ce ne sarà bisogno.

Segui Laura su Twitter: @lautonini