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Droga? Sì, grazie!

Come anni e anni di pubblicità progresso sulla droga hanno alimentato la nostra voglia di drogarci.

Qualche anno fa io e un mio amico abbiamo scoperto di avere subito (tra i tanti) un comune trauma infantile: c’era uno spot televisivo di pubblica utilità che ci terrorizzava, e ci aveva fatto fare molti incubi, oltre che molte domande su cosa ci avrebbe riservato l’età adulta. Si presentava in maniera anonima e austera, senza fornire troppe spiegazioni su quale fosse la sua funzione: una grafica spartana e un pigro riff di chitarra (che poi scoprii appartenere a “Numb” degli U2), la scritta “drogatel” che si sfuocava lentamente stile tunnel vision/morte certa. Da quello che ricordo, lo spot andò in onda in questa forma ininterrottamente tra il ’91 e il ’94, per poi venire sostituito da una variante meno aggressiva. Si trattava di un numero verde di cui ancora oggi non ho ben chiara la funzione—se servisse a denunciare eventuale consumo e spaccio da parte di terzi, o come richiesta di assistenza per tossicodipendenti. Di certo c’è solo che fu una delle mie primissime esperienze con le pubblicità antidroga. L’altra era ancora più infame e, se possibile, inquietante: si tratta della famosa serie di spot degli occhi bianchi, del voiceover rassegnato + musichina deprimente.

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L’immaginario generato da questi spot nella mia mente infantile era confuso, in parte sicuramente per il fatto che ero davvero solo un bambino, e in parte perché di quel mondo si forniva un ritratto assolutamente vago, tutto improntato su una forma pura di terrorismo psicologico. Era innanzitutto vietato differenziare la “droga”, idealmente catalogata come un unico enorme mostro, un parassita alieno in grado di impadronirsi della coscienza di chi vi si avvicinava. L’altra componente fondamentale era appunto la sostanziale deresponsabilizzazione del potenziale giovane consumatore, sia nei confronti degli altri consumatori che degli spacciatori che dell’entità-droga stessa. Lo slogan dello spot-occhi-bianchi era “chi ti droga ti spegne,” un paradossale invito non tanto a conoscere i dettagli della situazione, quanto ad evitare di cadere nella “trappola” di chi vuole renderti un tossico. Un terrorismo del genere doveva servire non solo a evitare di avere a che fare con i “drogati”, ma anche con tutti quanti vagamente lo sembrassero. Ciò su cui si faceva leva era, ovviamente, l’ingenuità degli spettatori più giovani o semplicemente più isolati in qualche provincia morbosa.

D’altra parte, lo spauracchio tossicodipendenza in quegli anni andava a braccetto con la paranoia dell’AIDS, un tema del tutto impossibile da trattare in maniera seria e razionale in questo Paese, su cui era fin troppo facile generare una confusione tale da istillare un autentico spirito democristiano anche nei più infanti, per cui tanto valeva la castità totale piuttosto che provare a raccapezzarcisi davvero. Allo stesso tempo si faceva leva sui problemi personali e sociali come causa principale dell’uso: avevo problemi, volevo fare il bro con quelli più grandi, etc.: da qui in poi questa sarà la cifra comune a tutte le campagne che seguiranno, ancora una volta facendo un rapido misto di tutto ciò che si crede di sapere sui “giovani”. Io vivevo in una di quelle province morbose di cui sopra, in cui però, inutile a dirsi, la patina di ingenua ignoranza ricopriva una realtà fatta di tossicità diffusa praticamente ovunque. Non mi ci volle veramente nulla per imparare che i “drogati” potevano tranquillamente essere compagni di scuola di mio fratello se non direttamente miei, se non direttamente io, di lì a poco. Nel frattempo, anche le campagne di informazione si erano evolute: da “chi ti droga si spegne” si era passati a “io non calo la mia vita,” il primo di una lunga serie di giochi di parole poco felici sullo slang del “farsi” basati perlopiù sulle contrapposizioni (l’ultimo in ordine di tempo è “non ti fare, fatti la tua vita"). La principale innovazione di questi nuovi spot fu di spostare completamente l’asse dalla paura all’empatia: niente più occhi vitrei né melodie horror prog, ma uno spot a episodi in cui si raccontava la storia di un mucchio di pischelli in discoteca: uno non tromba perché è troppo fatto, una si piglia una pasta tagliata male e quasi ci rimane.

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La rivoluzione è totale quanto ovvia, tanto per il cambiamento di focus quanto nell’innovazione del mezzo: non solo televisione, ma anche opuscoletti in regalo con varie riviste giovanili—persino Topolino—e, se non ricordo male, un primitivo sito internet. È in particolare sugli opuscoletti che vorrei soffermarmi. Invece di limitarsi a fornire dati, questi raccontavano una storia parallela a quella delle pubblicità, fondamentalmente la trascrizione di una chiacchierata tra una serie di personaggi, ognuno con la sua scheda descrittiva personale, che parlano di amici che si sono brasati i neuroni, conoscenti schiattati e/o finiti all’ospedale e simili, finché la protagonista non esclama, “io non voglio calare così la mia vita.” Nelle ultime pagine, la vera e propria informazione: le sostanze più diffuse vengono descritte in maniera “dettagliata”,  effetti principali e collaterali compresi.

Oggi non sembra niente di che, ma per i tempi fu un vero passo avanti: non solo si davano nomi e cognomi in pasto a ragazzini in età scolare, ma si diceva chiaro e tondo che i drogati non erano in nulla diversi da loro, anzi. Chiaramente, principale causa del cambiamento fu lo spostarsi del consumo di larga scala dalle siringhe alle pasticche, consequenzialmente allo spropositato boom delle discoteche di metà anni Novanta. Nonostante tutte le innovazioni di sorta, la sostanza rimane la stessa: demonizzazione totale accompagnata a un tanto di psicanalisi adolescenziale spicciola. I ragazzi dell’opuscolo descrivono un contesto in cui praticamente tutti intorno a loro si sballano come se non ci fosse un domani ed è assai probabile che, chi prima chi dopo, tutti loro si lasceranno tentare da questo mondo di caciara chimica. Ci vuole, infatti, un vero sforzo di volontà, un'autentica affermazione di sé in quanto persona seria, solida, ANTICONFORMISTA. Ed ecco, quindi, l’ipocrisia principale dietro questo nuovo corso, in cui si cerca di contrastare il problema facendo leva sulle stesse problematiche di autostima che, a sentire loro, causerebbero l’abuso. Un ragionamento meccanico alimentato da un’ottica socialmente miope, aspetto questo che approfondiremo più avanti. Bisogna infatti arrivare prima all’apoteosi di questo modo di ragionare, una campagna strafamosa che rappresentò in un certo senso la sintesi tra il terrorismo di un tempo e la coolness successiva. Arrivò in televisione verso il 1998 e il suo involontariamente ridicolo claim era “il vero sballo è dire NO.” Era uno spot molto breve, intenso, con una colonna sonora drammatica e un montaggio serrato fino al climax conclusivo. La principale fonte di drammaticità erano le battute pronunciate dagli adolescenti protagonisti, ognuno con un ruolo sociale preimpostato che gli sta evidentemente stretto, uniti da un rifiuto emotivo e perfino politico. Siamo all’apoteosi della contraddizione; da un lato la campagna riesce quasi ad aiutare i ragazzini a contestualizzare il loro disagio come qualcosa che ha un’origine precisa nell’ordinamento sociale, dall’altro è lo stato in prima persona a ficcarti davanti queste immagini gusto per contraddire ogni messa in discussione vera di certi valori. Tutto si risolve nella menzione finale di alcol, fumo e droga: è a quello che bisogna davvero dire no. Al resto ci si abitua col tempo, e comunque non vi forniamo sicuramente un'alternativa praticabile. Il fatto stesso che si menzionino vizi legali e tassati come alcol e sigarette rende inutile ogni commento.
Non molto tempo fa, poi, ci siamo imbattuti in questo sito, che dovrebbe essere alquanto recente e praticamente una prosecuzione delle ultime campagne citate in chiave ancora più stupidamente teen-friendly. A parte le orripilanti caricature di pasticche e buste di coca antropomorfe, farei notare un linguaggio da maranza finto-cool che fa una tristezza infinita.

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In generale, direi che il principale limite di queste campagne antidroga sta nell’incapacità di chi le commissiona di vedere a un palmo dal proprio naso. Anzitutto, l’accentramento quasi solo sugli adolescenti significa sia voler “vincere facile” che finire ancora una volta per colpevolizzare stupidamente una fascia di età come se rappresentasse l’unica a rischio. In entrambi i casi è l’inesperienza la chiave di tutto, la giustificazione per puntare gli occhi sempre sui ragazzini. I loro fratelli maggiori, ventenni o giù di lì, sono sempre stati oggetto di attenzioni minori, quasi si dessero già per persi se non abbrancati durante età più tenere, per non parlare poi dell’uso in età adulta, che si fa proprio finta non esista se non nel caso di qualche vecchio robboso che sta giustamente morendo nell’angolo di un parco.

Ora, considerando anche le ovvietà paradossali rappresentate dall’inclusione dell’alcolismo tra i mali della società (questo in uno dei Paesi più liberali del mondo in merito, guarda caso anche uno di quelli con meno dipendenti), c’è da farsi una serie di domande serie su quale sia l’utilità effettiva non solo di queste campagne, ma di tutto quello che concerne le sostanze sballanti quando vengono intese come problemi. Intendiamoci: non ho nessuna intenzione di fare dell’antiproibizionismo alla cazzo di cane, ma la questione è talmente ridicola che non si può evitare di riconoscere che certe banalità cascano da sempre nel vuoto. La droga esiste da sempre, e il desiderio di inebriarsi è qualcosa che ci portiamo umanamente dietro da una vita. L’assurdità logica sta semplicemente nel fatto che sia da sempre percepito come un problema, senza che si sia mai tentato di trovare un ruolo sociale allo sballo, che mettesse fine alla morbosità di fondo con cui ci approcciamo di solito. Le uniche forme di “regolamentazione” che esistono oggi, proprio perché casi isolati, non fanno che alimentare quella stessa morbosità, rappresentando per il resto del mondo più sacche di trasgressione che modelli di società diversa—per di più c’è anche qualcuno dietro che ci sta facendo dei gran soldoni.

La caratteristica sostanziale di antisocialità è il fatto che la droga è fondamentalmente improduttiva, anzi drogarsi è esattamente il contrario di lavorare. Lo stesso discorso vale per l’arte, ad esempio, e il rapporto imbarazzato e ambiguo che le istituzioni hanno sempre avuto con la cultura dovrebbe parlare da solo: l’unica risposta offerta in epoca moderna è stata quella di trasformarla in un business, e ancora, di certo non ha fatto il bene dell’arte. Lo stesso discorso si potrebbe fare per il sesso, calza perfettamente… l’imbarazzo che proviamo è imbarazzo nei confronti dell’inutile e del godimento quando non li trasformiamo in qualcosa che accumuliamo per qualificarci. Una cosa molto ridicola, poi, è quando queste campagne sembrano tacitamente ammettere la possibilità di un consumo responsabile; questo fa ridere, appunto, come gli appelli contro le stragi del sabato sera quando non ti viene fornita la possibilità di evitare di pigliare la macchina , e il divertimento notturno lo si vuole sempre lontano dal centro e possibilmente dalla città. Fa meno ridere quando penso a gente che conoscevo che magari ci è rimasta perché quello che si erano presi era stato tagliato con della merda, perché puoi adottare tutte le precauzioni che ti pare, ma le garanzie sono quelle che sono. Ad ogni modo, le campagne informative mirano agli adolescenti proprio perché non hanno ancora i mezzi per chiedersi francamente il perché—perché ho voglia di provare questa sensazione in più e perché lo vogliono gli altri. Perché hai i problemi e non vuoi pensare, si dice, talvolta più per crearti effettivamente quei problemi che per risolverli. L’abuso è dietro l’angolo e ti rovina la vita, chiaro, ma in un regime di continue sollecitazioni, mi pare anche questa una banalità applicabile al cibo come ai video di gattini su youtube.
Anzi, proprio come per il cibo, negli ultimi anni si è affermato l’atteggiamento ambivalente, che per quanto riguarda il mangiare si traduce in un alternarsi ossessivo, in tv, di programmi coi babbei che cucinano e altri coi babbei che vogliono perdere peso. Uguale, siamo pieni di personaggi che sembrano un inno contemporaneo al salutismo da workout estremo e alle botte di cocaina sul retro dell’iPhone, una forma di edonismo impegnativa e per niente rilassante, per cui bisogna lavorare sodo e rinunciare a se stessi. Non sembrerebbe ridicolo, quindi, cercare di vendere ai teenager l’idea che si stanno liberando dalle pressioni della società? Infatti non succede più, e gli ultimi spot antidroga sono patetici idilli cattolici che fanno venire una gran voglia di darti al crack.

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