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Cosa mi è successo dopo che la polizia mi ha beccato con dell'MDMA

Siamo all'ospedale Marmottan, il principale centro di cura per tossicodipendenti di Parigi. Era da tanto che ci volevo fare lo stage previsto dal mio corso di psicologia, ma purtroppo è saltato: ora ci vado per la terapia.

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Flickr.

Siamo all'ospedale Marmottan, il principale centro di cura per tossicodipendenti di Parigi, nel 17esimo arrondissement. Era da tanto che ci volevo fare lo stage previsto dal mio corso di psicologia, ma purtroppo è saltato. Ci vado per la terapia. Stando alla psichiatra che lavora a stretto contatto con la polizia giudiziaria, sono vittima di un disturbo derivato dall'assunzione ricorrente di droghe, e nello specifico di cannabis. È più o meno la decima volta che vengo. Di tanto in tanto, nei sonnacchiosi meandri della mia coscienza fanno capolino frasi tipo, "A pensarci bene, è per questo che sono così, che non riesco a fare questo…" La verità, però, è che se sono qui è perché sei mesi fa sono stato arrestato. Addosso avevo una piccola quantità di MDMA. È una domenica del marzo 2014, e piove. Insieme a un amico aspetto il resto del gruppo per fare serata. Approfittando dell'anticipo sugli altri ci concediamo una canna in tutta tranquillità. Si parla, si scherza. Poi passano due persone. Il tempo di dire, "Andiamo," e quelli ribattono: "Signori, i documenti." Il problema è che in tasca ho 11 ovuli di MDMA. Due per ognuno degli amici che avremmo dovuto incontrare, più uno per sicurezza. So che se dovessero trovarmeli rischierei fino a un anno di reclusione e 3.750 euro di multa. O peggio: non essendo quella che ho addosso una quantità attribuibile all'uso personale, i poliziotti potrebbero legittimamente pensare di avere davanti uno spacciatore. E in questo caso, le pene sono molto più serie. Ovviamente non sono uno spacciatore; probabilmente sono gentile, essendomi premurato di comprare la scorta per tutti, e di sicuro anche coglione, perché non mi sono preoccupato di nasconderli a dovere. Infatti, dopo qualche ricerca superficiale trovano gli ovuli.

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Ci caricano in macchina e finiamo, ammanettati, al commissariato del 13esimo arrondissement. Anche il mio amico ha addosso due ovuli, proprio come i miei. Una volta entrati ci separano e ci spediscono in cella. Sono ufficialmente in custodia. Non so ancora che ci resterò, in tutto, 40 ore.

Foto via Flickr

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Dentro ho la prima sorpresa: quel posto puzza. E fa freddo. La polizia mi ha tolto gli occhiali per evitare che "mi ci uccida"—chi cazzo si ucciderebbe con i propri occhiali? Non ci vedo, ma vedo comunque abbastanza per notare che la coperta è sporca e che le pareti sono piene di scritte contro la polizia. Durante l'interrogatorio, ripeto tranquillo la mia versione dei fatti: la roba l'ho presa a un tizio nei bagni di un locale, il Social Club. Ovviamente è una bugia, perché in quel posto non ci ho mai messo piede. Mi riportano immediatamente in quella che dovrebbe essere la mia camera. Esausto, mi addormento e mi sveglio la mattina dopo.

È a quel punto che realizzo l'ovvio: la cosa non si risolverà tanto in fretta. Non ho idea di che ora sia. Mi dicono di vestirmi, dobbiamo muoverci. Arriva una squadra scelta e anche se non capisco subito perché mi abbiano prelevato, non mi ci vuole molto per scoprirlo: devono prendere un campione delle mie urine per farmi i test. Più tardi veniamo portati all'antidroga. Quella vera.

Non ho nemmeno il tempo di sedermi che iniziano a mettermi sotto. Mi fanno pressione: "Non raccontarci storie, bla bla bla, tira fuori le mani dalle tasche, bla bla bla, stai dritto, bla bla bla, guardami quando ti parlo bla bla bla." Scritto così sembra che stia facendo il furbo, ma immaginatevi un ragazzo sui vent'anni mentre si piscia sotto davanti a una squadra di uomini che hanno dai 35 ai 55 anni e che appena sentono la minima parola rispondono che tutto quello che dici è falso. Faccio il finto tonto: mi faccio più piccolo possibile, rispondo nel modo più educato possibile. Grave errore. Al gioco del più furbo sono sempre gli sbirri a vincere. Mi dicono che un ovulo "equivale all'incirca a mezzo grammo" e che di conseguenza "ci avrei potuto uccidere qualcuno."

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È domenica, ma qui non ha molta importanza. Vengono a riprendermi per le impronte digitali, le foto dei miei tatuaggi, il DNA. Sono ufficialmente schedato. Come se non bastasse, mi annunciano che una squadra andrà comunque a casa mia. Merda. Merda, merda, merda. Non l'avevo previsto. Mi rimettono le manette e ci muoviamo in direzione del sesto arrondissement, dove abito. Mentre esco dalla macchina mi dicono, "Attento alla testa". Con le ultime forze ribatto, "Non vi preoccupate per me, non dirò che mi avete picchiato."

Un tatuaggio dell'autore, in ricordo dell'esperienza: ogni petalo è una capsula di MDMA. Foto per gentile concessione dell'autore.

Una volta nel mio appartamento, devono fare i conti con due verità scomode: 1. i miei genitori hanno i soldi 2. è troppo grande per perquisirlo. Decidono quindi di concentrarsi sulla mia camera. Aperta la porta, restano di stucco: è un casino inenarrabile. Decido di continuare a metterla sul ridere: "Bene, almeno mi state dando un buon motivo per riordinare." Loro non abboccano e mi chiedono dove nascondo il bilancino—quello con cui, come un trafficante, peso e rivendo la roba. Questa volta rispondo sinceramente, "Non ce l'ho." Lo cercano ovunque senza successo. Trovano l'MD che mi ero lasciato per l'after—più o meno due grammi—due bustine d'erba e quello che avevo usato per confezionare l'MD.

Quando gli agenti si rendono conto che non troveranno altro che queste misere prove, torniamo in commissariato. Ed è qua che inizia il bello: l'interrogatorio. Fortunatamente, il poliziotto che mi trovo di fronte fa la parte del buono. Si siede e accende una sigaretta. Gliene chiedo una e me la dà. Mi chiede la mia versione dei fatti. Hanno il mio telefono, perciò non mi faccio illusioni: sanno tutto. Così finiamo a guardare dei video su YouTube. Chiedo all'agente di poter parlare col mio amico, e lui mi dà l'ok. Ci abbracciamo e tutto il resto. Anche il poliziotto se la ride guardandoci. Poi rilasciano il mio amico.

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Io invece sono costretto a rimanere fino alla mattina dopo perché è domenica notte e nessun giudice si presenterà subito. Ovviamente ho paura. Ho fretta, anche. Continuo a ripetermi, "Domani viene un giudice e avrò la mia sentenza." Gli sbirri mi portano nel sotterraneo, in quella che chiamano "la trappola per topi." Non sono più in cella da solo, e mi tolgono di nuovo gli occhiali. Mi ritrovo in una cella enorme. Mi lasciano del cibo terribile, ma non ci vedo niente e c'è un gran casino.

Chiacchiero con un tipo seduto accanto a me. Deve avere circa la mia età ed è stato fermato perché mentre era ubriaco marcio—e strafatto di cocaina, per inciso—si è schiantato con il motorino contro un'auto della polizia. Un agente mi tira fuori da questo inferno e mi sospinge in una cella singola. Per lo spostamento mi ridanno gli occhiali—ma me li toglieranno di nuovo una volta in cella.

La notte è lunga, troppo lunga. Alterno brevi momenti di sonno a momenti di veglia in cui cammino avanti e indietro per la cella. Sono inquieto, ho un sacco di immagini che mi scorrono in testa. Mi dico che la mia famiglia avrà già visto la mia stanza devastata. Avranno il sangue gelato. Sono due giorni che non hanno mie notizie—e il tempo non passa mai. E io non li ho nemmeno avvertiti. In lontananza sento grida e porte che si aprono e si chiudono.

_ Foto via Flickr. Al mattino recupero definitivamente i miei occhiali. Mi portano dritto nella stanza dell'udienza. Attraverso il corridoio reso immortale da Raymond Depardon in Délits Flagrants—in quello che considero almeno un modesto momento di gloria. Passa molto tempo prima che l'udienza cominci e mi ritrovi il procuratore davanti. E qui succede una cosa strana: ho l'impressione che mi stiano facendo la paternale senza che nemmeno chi la fa ci creda. Quelli come lui passano la vita a tirare le orecchie a ragazzi come me, ragazzi peggio di me, ragazzi che diventeranno dei veri delinquenti. In sostanza mi dice, "Questa volta il giudice è stato clemente: la mette alla prova. Verrà tenuto sotto controllo. Se per caso la riprendiamo, la portiamo dritto in carcere con accuse di 1. trasporto di droga 2. acquisto 3. vendita 4. detenzione 5. uso. Rischia sei mesi. Minimo." Su di me pendono cinque capi d'accusa differenti—e non è poco. Capisco che ho rischiato di brutto. Quello che mi ha quasi salvato è che mi sono leccato le dita mentre preparavo le bustine e quindi nelle mie urine c'erano tracce di MDMA (e di cannabis, coca, e oppiacei—ma non consumo eroina, sia chiaro.) Mi portano da una psicologa, al fine di valutare la necessità di entrare in terapia. "Di che droghe ha fatto uso, nella sua vita?" mi chiede. Giudicando dalle mie risposte, la specialista decide che il mio problema è la cannabis—otto canne al giorno—e mi orienta verso un centro di cura specializzato. Dopo 40 ore in custodia sono finalmente libero. Fuori, mi sento come se respirassi l'aria fresca per la prima volta. _

A questo punto mi sono preso le palle in mano e ho deciso di assumermi le mie responsabilità. Ho chiamato i miei genitori per spiegare loro le stronzate che avevo fatto e come ero arrivato a quel punto.

Ora, dopo un certo numero di sedute psichiatriche al Marmottan, finalmente sono libero dalle grinfie della giustizia. Ho pagato il mio conto con la società. A dicembre dell'anno scorso ho ricevuto un ultimo avviso da parte del tribunale. Diceva, ovviamente in lessico burocratico, ma nero su bianco, "Le accuse contro di lei sono cadute." Ho chiuso gli occhi e ho respirato forte.

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