Lo chiamavano “Bac Guai”—o Diavolo Bianco, secondo la traduzione dell’FBI. Era cresciuto a Dorchester, un quartiere desolato alla periferia di Boston, e giocava a hockey come qualunque altro abitante di origini irlandesi e come i colletti blu che riempivano i locali dei paraggi. Boston è una città dalle tradizioni radicate, fiera della sua storia coloniale, delle sue tradizioni sportive e anche della sua nomea criminale. Ma John Willis ha finito per avvicinarsi a persone molto diverse da quelle con cui era cresciuto.
Il padre di Willis era morto quando lui aveva due anni e sua madre quando ne aveva 15. Aveva dei parenti, ma nessuno voleva farsi carico di un adolescente orfano. Come ogni ragazzino solo e ferito, Willis cercava qualcuno che lo accettasse. Non trovandolo tra i suoi, ha cominciato a gravitare intorno a un’altra comunità: la gang cinese Ping On.
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Da metà anni Ottanta ai tardi anni Zero, Willis ha fatto carriera nei gruppi mafiosi più grandi di Boston, cominciando dal recupero debiti e guardia del corpo e arrivando a gestire un traffico di ossicodone da quattro milioni di dollari (anche se secondo lui valeva “dieci volte tanto”). Nel 2011 è stato condannato a vent’anni per traffico di droga e riciclaggio. Scott O’Donnell, l’agente dell’FBI al comando della task force che ha catturato il Diavolo Bianco, ha detto di non aver mai visto uno come Willis.
A gennaio uscirà per BenBella Books un libro sulla sua storia intitolato, appunto, White Devil. Scritto dal conduttore televisivo Bob Halloran, il libro segue la carriera di Willis nella mafia e riporta aneddoti narratigli dal gangster in persona. Ho chiamato Halloran per farmi raccontare delle sue visite in carcere a John Willis e di come un ragazzino di Dorchester sia riuscito a entrare in una gang cinese e a scalarne la gerarchia fino a diventare il Diavolo Bianco.
VICE: Innanzitutto, come ha fatto uno di Dorchester a finire a fare il gangster a Boston e New York?
Bob Halloran: Per una serie di circostanze fortuite, direi. Per certi versi Willis è stato fortunato. A 16 anni, fingendo di averne 18, ha iniziato a lavorare come buttafuori in un locale vicino a Fenway Park. All’epoca era già nel giro del body building e degli steroidi, quindi era ben piazzato. E il locale era frequentato da molti asiatici. Una sera ci fu una rissa e lui aiutò uno di loro, che poi gli diede un biglietto da visita col suo numero. Lo chiamavano Woping Joe; disse a Willis che in caso di bisogno avrebbe potuto rivolgersi a lui.
Cosa che ovviamente ha fatto.
Esatto. Era un periodo in cui non aveva soldi e dormiva per terra, a casa di un parente morto, così decise di chiamarlo senza sapere bene cosa aspettarsi. Dopo un po’ accanto alla cabina telefonica accostò una macchina da cui uscirono sei o sette cinesi. Gli fecero posto e lo portarono in una casa piena di cinesi, comprese donne, bambini e altri membri della gang, che al tempo era nota come Ping On. Il gruppo controllava fin dagli anni Settanta una buona parte delle scommesse illegali e del gioco illecito di Boston e i centri massaggi.
Ha cenato con loro, e il giorno dopo gli hanno dato dei vestiti, hanno iniziato a fargli vedere gli strumenti del mestiere e l’hanno accolto tra loro. Sembra tutto molto semplice, ma lui ad oggi non sa perché l’avessero accolto—se non perché lui ha mostrato rispetto a loro e loro a lui, con la loro gentilezza. Nel tempo si è formato un legame. L’hanno “addestrato”, hanno iniziato a portarlo a New York a raccogliere gli incassi del gioco illegale e fare un po’ da guardia del corpo per una personalità del crimine newyorkese.
Ha dovuto affrontare barriere linguistiche o culturali?
A New York la gang con cui era andava nei locali cinesi per rimorchiare le ragazze, lì c’erano praticamente solo asiatici e uno di loro gli ha detto che se voleva rimorchiare doveva imparare il cinese. E lui ha imparato stando attento durante le conversazioni, ma anche guardando film cinesi e ascoltando musica cinese. Alla fine lo parlava fluentemente, conosceva la grammatica e i toni. È stato molto importante, man mano che faceva carriera, perché salendo di grado doveva parlare con molti cinesi di prima generazione che non sapevano bene l’inglese.
Si era unito alla gang da ragazzino, ma perché hanno continuato a considerarlo uno di loro anche quando è cresciuto?
Si vantava di essere stato l’unico bianco in una gang cinese. All’inizio ero scettico, ma poi l’ho chiesto a quelli dell’FBI che mi hanno detto che la sua posizione era rarissima. I cinesi tendono a isolarsi. Non si fidano degli stranieri e John era straniero tra gli stranieri. Penso che dipenda proprio dal fatto che è entrato nella gang da piccolo. E si è fatto notare, il suo boss trovava molto interessante che un ragazzino bianco parlasse cinese.
Più importante ancora era il fatto che fosse disposto a fare tutto ciò che gli veniva chiesto. E lo faceva bene. Era affidabile e leale. Penso che entrare così da giovane l’abbia aiutato molto, e che sia un caso unico perché anche dopo di lui nessun bianco è più entrato nella mafia cinese.
Come ha fatto carriera nella gang?
Dopo la formazione a New York negli anni Novanta, è stato rispedito a Boston per lavorare per Bai Ming, che non era tra i veri pezzi grossi, ma probabilmente il sesto o il settimo per importanza. Ben presto però i numeri uno hanno iniziato a scomparire. Uno è scappato in Cina, altri si sono uccisi tra loro e improvvisamente Bai Ming era il pesce più grosso e John il suo braccio destro. Era la sua guardia del corpo, quello che la mattina controllava che non ci fossero bombe sotto la macchina, quello che lo scortava nei ristoranti ma anche quello che andava a raccogliere gli incassi delle bische.
Era il secondo di Chinatown perché era il braccio destro del numero uno. Quando è tornato a New York e ha imparato il cinese è salito ancora di grado, perché riusciva a comunicare ma anche perché era disposto a fare tutto il lavoro sporco che serviva.
Com’è che alla fine l’hanno beccato e condannato a vent’anni?
Agli inizi degli anni Novanta, quando era molto giovane, il suo boss Bai Ming gestiva alcuni giri di prostituzione e bische clandestine, ma non si occupava di droga. A un certo punto John è finito in galera e quando ne è uscito aveva connessioni con alcuni giri di spaccio di marijuana. Poi la marijuana è diventata cocaina. Il boss di John gli aveva detto di starne fuori. Ma lui l’ha fatto lo stesso, al di fuori della sua gang—faceva anche un sacco di soldi. Pur non lavorando più solo all’interno della gang, aveva ancora un legame forte con la mafia cinese.
È finito altre volte in prigione ed è uscito dall’ultima detenzione con una connessione in Florida che gli ha permesso di mettere le mani su grandi quantità di ossicodone. Ha iniziato a portarlo dalla Florida al Massachusetts, per venderlo a Cape Cod e Boston. Nel frattempo c’erano altre indagini in corso su altri obiettivi a Chinatown. L’errore di John è stato quello di entrare in combutta con questi ultimi, e ha finito per rimanerci incastrato anche lui.
Com’è stato entrare nel carcere federale di Cumberland, in Maryland, per intervistare John Willis per il tuo libro?
L’ho intervistato in una piccola stanza fuori dalla sua cella. Abbiamo passato sette ore insieme, in due giorni. Anche se potrebbe sembrare una cosa tremenda da dire, alla fine mi piaceva—o almeno lo capivo. Non devo essere io a perdonarlo, ma mentre mi raccontava la storia dal suo punto di vista io capivo che c’erano motivi di empatizzare con lui, così come ce n’erano per disprezzarlo. Se lo incontrassi senza sapere chi è, penseresti che è un ragazzo sveglio e intelligente che pensa molto e legge un sacco.
Non sapevo cosa aspettarmi perché c’erano in ballo dei crimini violenti, ed era anche stato un grosso spacciatore per anni. Non ho conosciuto molti criminali, perciò non sapevo come sarebbe andata. Ma con me era estremamente gentile, quasi docile. Non ha mai alzato la voce, anzi quasi bisbigliava a volte. L’ho trovato una persona interessante e accattivante, e non mi ha intimidito in nessun modo: anche quando lo stuzzicavo, non si è mai arrabbiato.
Ti ricordi di cosa avete parlato all’inizio del vostro incontro?
Una delle prime cose che ha tenuto a precisare è stata che i gangster uccidono i gangster e i criminali uccidono i criminali. Sono gli idioti che uccidono i civili. Pensavo che avrebbe usato termini peggiori. Voleva dire che quando era nella gang, combattevano con altre gang per il pizzo o per le bische e la prostituzione. Era fondamentale per lui che si sapesse che non ha mai fatto del male agli innocenti.
Conosci anche un lato umano di lui, e come lo ricordi?
Non abbiamo mai parlato di sua moglie e sua figlia. Quando l’ho intervistato, piangeva per quanto gli mancavano. Per me è stata una sorpresa perché pensavo che fosse una persona dura, insensibile. Non voglio usare a caso la parola psicopatico, ma lui non aveva alcun rimorso per i crimini che aveva commesso. Ma quando ci siamo avvicinati al tema dell’amore e delle relazioni, per un istante è rimasto perso di fronte a me. Mi ha colpito, perché era l’opposto di qualunque altro lato della sua personalità, oltre che con i suoi crimini.
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