NORVEGIA. Vesterålen. Capanno in fiamme.
Diversamente da molti dei fotografi che abbiamo intervistato nell’ultimo periodo, Jonas Bendiksen non ha costruito il suo portfolio su reportage da zone di guerra o conflitti. Essendosi fatto strada all’interno dell’agenzia di cui fa parte, la Magnum, partendo come stagista e diventandone poi un membro effettivo, la sua concezione di come la fotografia può entrare in contatto con la realtà è quantomeno ben informata. Dal ritrarre la vita in sperduti stati post-sovietici all’esplorare la rapida trasformazione dell’uomo nel passaggio dalla vita di campagna a quella di città, abbiamo parlato con Jonas dei modi in cui la fotografia può interagire con il mondo e del perché le persone dovrebbero smettere di guardare a baraccopoli e slums come fossero luoghi aberranti.
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VICE: Sono sicuro che te l’hanno già chiesto molte volte: dal momento che ti sei fatto strada all’interno della Magnum, devi avere una prospettiva interessante rispetto alla natura dell’agenzia stessa. Come riassumeresti i motivi per cui la Magnum è così importante nel mondo della fotografia?
Jonas Bendiksen: Be’, penso che quello che rende la Magnum così importante è la varietà dei fotografi che ne fanno parte, i quali, tramite le loro fotografie, forniscono la loro specifica chiave di lettura del mondo che li circonda. Negli ultimi anni, penso che la Magnum sia diventata più interessante, proprio perché molto più varia.
NORVEGIA. Vesterålen. Cortile di una scuola con lastre di ghiaccio.
Come hai detto, si tratta di un gruppo composito di fotografi. Ma trovi che ci sia una sorta di “missione”?
I fotografi Magnum hanno uno scopo comune: usare la fotografia per partecipare al discorso sulla realtà attorno a noi. All’interno di questo principio di massima, ogni fotografo può interessarsi a differenti realtà, ma questo obiettivo è il denominatore comune.
Come definiresti l’idea dietro al tuo libro, Satellites? Riguarda l’esplorazione di un posto dimenticato, vero?
Si, il libro racconta di un viaggio ai limiti dell’ex Unione Sovietica. Mi sono fermato in tutti quei luoghi di cui potresti mettere in dubbio l’esistenza, almeno sulla carta. Mi riferisco a repubbliche indipendenti come la Transnistria e l’Abcasia, che effettivamente esistono—dal momento che hanno confini e governi—ma che non godono di riconoscimento ufficiale. Si potrebbe dire che siano i classici conti in sospeso di un divorzio: il divorzio dall’Unione Sovietica. È diventato un viaggio, per me.
NORVEGIA. Vesterålen. Porto di Myre.
Puoi parlarci delle tue esperienze con i posti che hai visitato e con le persone che hai incontrato? Hai identificato delle caratteristiche comuni?
Si potrebbe dire che queste persone vivano un po’ sotto pressione: la vita in questi posti è dura, economicamente parlando. Ad oggi, sono isolati dal resto del mondo. È difficile emigrare. Allo stesso modo è molto difficile guadagnare abbastanza, se rimani in patria. Ma nonostante gli elementi in comune, sono tutti posti abbastanza differenti l’uno dall’altro e hanno le loro caratteristiche peculiari.
The Places We Live è stato il libro dopo Satellites. Era incentrato sull’idea che per la prima volta, nel mondo, ci sono più persone che vivono in città che nelle campagne. Hai trattato questo argomento come una questione ambientale o come un problema sociale?
La mia idea è che le due nozioni, quella sociale e quella ambientale, sono totalmente inscindibili. È una delle cose a cui lavorare a questo progetto mi ha fatto pensare. Non voglio dire che vivere in una città sia un bene o un male. Quello che voglio è far capire che si tratta di un fenomeno, e che dobbiamo affrontarlo. Più di un miliardo di persone vivono in slums e baraccopoli, e questo numero è destinato a crescere. Dobbiamo accettare che questo è il modo in cui le moderne aree urbane funzionano e capire come gestire il problema.
RUSSIA. Nei pressi di Sergeyev Posad. 2011. Palina (6), gioca tra le piante vicino alla dacia dove è solita trascorrere l’estate.
Sei rimasto sorpreso dalla capacità degli slums di “andare avanti”?
Penso che sia la cosa che mi ha sorpreso di più. Avevo letto molte statistiche sulle frange sociali che abitano slums e favelas e ho pensato che fosse una problematica che meritava di essere affrontata. Ma quello che davvero mi ha spinto ad ampliare il progetto è stato che sono rimasto sopraffatto dalla normalità di questi posti. Tra i cumuli di spazzatura vedi persone ordinarie che vivono vite normali, alle prese con i problemi delle persone qualunque in qualsiasi altro posto. Aiutano i figli a fare i compiti, tentano di sbarcare il lunario, di tenere unita la loro famiglia. Il progetto esplorava soprattutto il modo in cui le persone si creino un minimo di normalità in questo tipo di condizioni estreme.
RUSSIA. Vyalki, vicino a Bykovo. 2011. Ragazze conducono i loro cavalli in un laghetto, nei pressi di un gruppo di dacie.
Penso che tu sia il primo fotografo della Magnum con cui parlo a non aver passato parte della propria carriera in una zona di guerra. Non ti ha mai interessato?
Potrei dire che è una cosa che proprio non avrebbe funzionato, nella mia vita. Sono diventato padre all’età di 24 anni. Durante gran parte della mia carriera sono stato un padre. Non mi è mai sembrato sensato essere il tipo che vola verso i posti in cui cadono le bombe. Inoltre, penso ci siano tantissime problematiche da raccontare, in tutto il mondo. Tantissime altre forze che agiscono sugli esseri umani, in grado di creare situazioni affascinanti e complesse.
C’è certamente spazio anche per i progetti interessanti di chi non documenta zone di guerra. La fotografia di guerra non è mai stata sulla mia lista delle cose da fare. Non so bene perché, ma credo di aver tratto sempre più soddisfazione dal lavorare a storie in cui mi sento in qualche modo lasciato sulle mie, storie a cui non tutti danno la caccia. Questo mi ha dato la spinta a lavorare su progetti che sono leggermente estranei ai titoli da prima pagina; storie più piccole. Non saranno così drammatiche e affascinanti, ma per me è sempre stato il modo più soddisfacente di lavorare. Mi sento quasi come se stessi mettendo in luce una storia che altrimenti non avrebbe avuto la stessa visibilità e risonanza.
BANGLADESH. Asulia. 2010. Questo tipo di forno per mattoni è diffusissimo in Bangladesh, ma è fonte di intenso inquinamento (dal momento che è alimentato a carbone ed è poco efficace), in termini di anidride carbonica emessa e qualità dell’aria. Mentre Jonas stava scattando, una tempesta ha colpito l’area con forti venti e rovesci. I lavoratori stanno recuperando i mattoni sommersi, che verranno poi caricati su un’imbarcazione in attesa.
In effetti, hai ragione. Non importa quanto sia importante il lavoro che stai facendo, sei in competizione con altri fotografi nello stesso posto. Per esempio, credo Satellites fosse un progetto isolato. La consapevolezza che nessuno stesse facendo qualcosa di simile deve averti dato una sensazione di grande libertà.
Certo, ma non fraintendermi. Sono fermamente convinto che le zone di conflitto debbano essere raccontate. Penso sia un lavoro molto importante. L’unica cosa è che un’occupazione del genere non si è mai rivelata adatta alla mia vita. Ed è qualcosa di positivo e negativo allo stesso tempo. In qualche modo, è un lavoro solitario, visto che si finisce per lavorare su “piccole” storie. Sento che è il senso di cameratismo a mancarmi, la componente sociale del lavoro nelle zone di guerra; una sensazione che molti fotografi e giornalisti sperimentano. Ma è tutto legato al modo i cui le cose si sono evolute nella mia vita.
BANGLADESH. Padmapukur. 2009. Sulla char (isola di fango) di Padmapukur, nel delta del Gange. L’uragano Aila ha distrutto le dighe e causato alluvioni che hanno colpito le comunità locali.
ISLANDA. Reydarfjordur. 2007. La trentenne Aalheiur Vilbergsdottir gioca con i suoi due figli sulla spiaggia di Reydarfjordur, vicino a casa. Ha sempre risieduto a Reydarfjordur con tutta la sua famiglia.
RUSSIA. Territorio dell’Altaj. 2000. Gli abitanti di un villaggio raccolgono I rottami di un veicolo aerospaziale schiantatosi al suolo, circondati da migliaia di farfalle bianche. Gli ambientalisti temono per il futuro della regione, la cui integrità è minacciata dai livelli di propellente tossico per i razzi.
MOLDAVIA. Transdniester. 2004. La popolazione di Transdniester è principalmente di etnia russa,e la religione principale è il cristianesimo ortodosso. Nella foto, un sacerdote dà la propria benedizione prima di una battesimo in acqua ghiacciata.
GEORGIA. Abcasia. Sukhum. 2005. Nonostante l’Abcasia sia isolata, in parte abbandonata e ancora sconvolta dalla ferite della guerra, a causa del suo non essere riconosciuta in quanto stato, sia i residenti che i turisti russi si immergono nelle calde acque del Mar Nero. Questo stato non riconosciuto, posto su una lingua di terra sul Mar Nero, ha conquistato la propria indipendenza dalla Repubblica Socialista Sovietica Georgiana dopo una sanguinosa guerra, nel 1993.
INDIA. Mumbai. 2006. Una bambina gioca a Laxmi Chawl, un quartiere di Dharavi. Le luminarie sono state allestite per un matrimonio.
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