Fa un po’ strano chiamare “sculture” i lavori di Jonathan Schipper. La scultura è quella cosa a cui si appassionano i divorziati quarantacinquenni, e che spesso va a finire in una serie di strani oggetti che ricordano facce di pietra, disseminate per il cortile di casa. È molto raro che riguardi sfere gigantesche fatte di videocamere e schermi, o abbia a che fare con scontri frontali tra due auto che durano circa un mese, o una statua incastrata dentro un esoscheletro meccanico che balla Raining blood degli Slayer.
Allo stesso tempo, provare a descrivere il lavoro di Jonathan con definizioni del tipo “techno-sculture” o “scultronic” dà l’impressione di avere a che fare con un nerd di Robot Wars che si è letto un paio di saggi di Walter Benjamin. Comunque sia, siamo andati a trovarlo nel suo studio incasinato e un po’ futur-retro alla Blade Runner per fare due chiacchiere con lui.
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Vice: Ho scoperto i tuoi lavori dopo aver cercato su Google “gente pazza a Brooklyn”. Nella seconda pagina dei risultati c’era un articolo su di te uscito sul Brooklyn Rail. Confermi di essere matto?
Veramente? fantastico! Beh immagino di esserlo, sì.
Qual’è il background del tuo lavoro? Un sacco della roba che fai sembra realizzabile solo da qualcuno con un mega dottorato che lavora per la NASA.
In verità sono solo andato alla scuola d’arte, laurea breve prima e poi specialistica, entrambe in scultura. All’inizio ero veramente anti-tecnologico. Per tutto il corso del triennio non ho avuto neanche un computer—pensavo che l’arte fosse un modo per scappare dalla tecnologia. Creavo solo opere specificatamente non-tecnologiche.
Poi mi sono reso conto che avevo dedicato tutto il mio percorso di studi a sfuggire qualcosa che in realtà mi affascinava molto, e ho capito che stavo mentendo a me stesso. Ora faccio un sacco di lavori per altra gente, tipo costruire cose. Ho lavorato molto con l’animatronica, ho fatto cose per i Muppet e roba del genere.
Wow, cosa hai fatto per i Muppet?
Hai presente quelle vetrine natalizie giganti che fanno da Macy’s? Ho fatto quelle per un paio d’anni, e una volta abbiamo usato i Muppet. Avevo circa settanta Muppet nel mio studio. Era come vivere in un sogno d’infanzia.
Cosa dovevi fargli fare?
Gli abbiamo messo delle strutture interne che permettevano a quelli di Macy’s di comandarli e fargli fare ciò che volevano. Il più delle volte era roba semplice: tipo salutare o muoversi avanti e indietro. Altre volte dicevano delle frasi, cose così.
Quindi per quanto riguarda il lato tecnologico del tuo lavoro, hai praticamente imparato tutto da solo?
Si, assolutamente. All’inizio facevo sculture normali, statiche, ma in realtà avrei voluto che facessero qualcosa. Buona parte del mio lavoro si basa sul movimento, quindi era diventato indispensabile capire come riuscire a far muovere i miei oggetti nel modo che volevo.
C’è qualcosa che vorresti veramente realizzare, ma per cui non hai le conoscenze necessarie, o per cui non esistono tecnologie abbastanza avanzate?
O per cui non ho abbastanza soldi da spendere. Certo, un milione di cose. A dire il vero è il progetto che porterò avanti nei prossimi mesi. Voglio fare una serie di modelli e proposte di quello che vorrei realizzare se avessi le risorse necessarie per farlo. Alcune di queste idee sono cose semi realizzabili che potrei fare nei prossimi mesi se avessi i soldi—altri progetti saranno invece irrealizzabili per i prossimi venti anni, ma voglio comunque documentarli e metterli sul mio sito.
Parlami un po’ della Sfera invisibile? Mi sembra un po’ orwelliana come cosa.
L’idea alla base riguardava la nozione di trasparenza dei media. Per esempio, se sei un fotoreporter proverai in tutti i modi a essere oggettivo, a dare una versione non filtrata delle cose, e pensavo come tutto ciò sia assurdo e impossibile da realizzare. Quindi volevo proprio trattare questo concetto, e dire che se il media fosse veramente invisibile, avremmo da un lato la videocamera e dall’altro il monitor. Ho moltiplicato questo concetto, realizzando una sfera fatta di monitor e telecamere, quasi per sottolineare l’onnipresenza della soggettività nei media. È venuta fuori una cosa niente male, visto che tutte le immagini riprodotte sono diverse tra loro, ma allo stesso tempo tutte le telecamere inquadrano lo stesso spazio. Tanti modi diversi di vedere la stessa cosa.
A quali velocità hai realizzato lo Slow motion car crash?
Quello più veloce è durato tre giorni e mezzo, e quello più lento mi pare sei settimane. Tutti gli altri erano inclusi tra queste due velocità.
Puoi spiegarmi brevemente come ti è venuta l’idea?
Allora, prima ho provato con dei modellini, ed è stato piuttosto facile da realizzare, ma ancora non sapevo se avrebbe funzionato con macchine vere. Non ho mai fatto prove in studio, avevo deciso di farlo e basta, sperando che sarebbe venuto fuori come volevo. Abbiamo fatto parecchia ricerca per capire quanta energia serviva a far scontrare le macchine. L’obbiettivo era simulare uno scontro frontale a 50 chilometri orari, e ci sono un sacco di dati che ti dicono che se due macchine si scontrano a 50 all’ora e si fermano a una tale distanza, questa è la pressione che i due corpi subiranno, questo è l’attrito che verrà causato, e così via. Quindi abbiamo fatto i calcoli all’indietro partendo da quel presupposto, e questo è stato uno dei modi per capire come costruire il tutto, se fare le cose più o meno resistenti.
Un altro modo è stato studiare le macchine che usano nelle discariche per distruggere le auto, per vedere quanta energia utilizzavano. Ho anche lavorato con un mio amico, Carl, che ha fatto un sacco di analisi FEM, un modello computerizzato che serve a calcolare la pressione esercitata sui vari elementi che si scontrano. Quindi abbiamo combinato tutte e tre le cose, e abbiamo ottenuto un risultato tutto sommato decente. Non avevamo né il tempo né i soldi per un vero test, quindi abbiamo montato il tutto e l’abbiamo fatto partire così com’era.
Perché usi sempre delle belle muscle car d’epoca, invece di usare, che ne so, delle Daewoo o roba del genere?
Beh, ad essere sincero le muscle car le abbiamo usate quasi per caso. L’idea era di usare qualsiasi macchina vecchia, così da farlo sembrare un normale incidente di tutti i giorni. Poi, quando ho cominciato a comprare i modellini, ho realizzato che era veramente difficile trovare un modellino della Ford Taurus, o di macchine del genere. Ci sono un sacco di modellini di Ferrari o di Porsche, ma pochissime Ford Festivas. Le vecchie muscle car mi piacevano perché anche se sono speciali in un certo senso, sono comunque più simili alle macchine normali di una Ferrari. Quindi alla fine ho scelto quelle, e ho anche pensato che in fondo era divertente, era quasi una metafora della morte lenta e inevitabile dell’industria automobilistica americana.
Comunque non devono essere per forza muscle car—in Europa ad esempio abbiamo usato delle BMW e delle Mercedes. Il fatto che siano auto belle e con un valore, auto che la gente non vuole vedere distrutte, aggiunge non poco all’emozione dell’impatto. Quindi quel poco di “dolore” che si prova va bene, ma è anche una pura messa in scena, visto che tutte le auto che abbiamo comprato non valevano più di 1.000 euro. Fanno la loro figura, la maggior parta sembra quasi nuova dall’esterno, ma all’interno sono tutte mezze andate.
Quest’opera la intendi come un modo per portare il pubblico a riflettere sulla morte e sulla distruzione?
Direi di sì. In un certo senso è come guardare il legno che brucia, potresti stare a guardare il fuoco per ore e ore. È bello e riscalda, ma è anche affascinante guardare la lenta decomposizione del legno. E secondo me è un qualcosa di molto profondo, il passaggio da uno stato della materia all’altro. È lo stesso percorso che tutti dobbiamo affrontare, nasciamo in un modo e ce ne andiamo in un altro. È uno spettacolo così calmo, ti siedi, te lo guardi e ti bevi una birra. Certo, non è come vedere un incidente tra auto a velocità reale, ma è comunque drammatico, avvincente ed intrigante.
Hai mai pensato che il tuo lavoro possa essere considerato da alcuni come una semplice opera di distruzione delle cose? Un po’ come quei tipi di Miti da sfatare o del Survival Research Labs?
Mi hanno accusato di saper solo distruggere cose, e mi hanno detto che distruggere cose non è un lavoro creativo. Ma una volta mi è capitato di leggere “Beh, è quello che i bambini fanno prima di imparare a fare qualsiasi altra cosa—distruggono i loro giocattoli”. In fondo per poter realizzare qualsiasi cosa devi prima distruggere qualcos’altro. Il primo passo per costruire un armadio è tagliare la legna. E penso che questo sia un piano sottinteso in tutto ciò che facciamo—quel momento in cui le cose si spezzando e diventano qualcosa di completamente diverso.
La statua robotica che balla “Raining blood” suonata con la pianola automatica è probabilmente una delle opere d’arte più cazzute di cui ho mai sentito parlare. Puoi spiegarci gli aspetti tecnici del suo funzionamento?
Quell’opera è stata molto facile sia da ideare che da realizzare, ed è stato molto più divertente di molte altre cose, visto che era un’idea così idiota. All’inizio volevo solo prendere la canzone e metterla sulla carta perforata della pianola–mi sembrava la cosa più facile del mondo da fare. Ma non è stato affatto così. I rulli cartacei per le note sono praticamente i precursori della tecnologia MIDI, e ci sono addirittura dei modi per mettere dei file MIDI in questi rulli. Quindi quello che ho dovuto fare è stato trovare qualcuno che aveva già fatto una versione MIDI di “Raining blood” per tastiera, e poi trovare qualcuno che potesse bucare il rullo, e poi fare un po’ di lavoro al computer per rendere i file compatibili.
A cosa stai lavorando adesso?
Sto facendo un’opera per l’Armory, e poi ho una mostra quest’estate. Lo scontro tra auto mi ha preso un sacco di tempo ultimamente. È stato anche bello, ma i problemi logistici hanno preso il sopravvento. Per fare uno show del genere mi ci vogliono due mesi di preparazione, tre settimane o un mese per l’allestimento, e poi ancora altro lavoro quando l’opera torna indietro. Non voglio che questo mi risucchi la vita–non voglio andare in giro a metter su incidenti per il resto della mia vita. Sto cercando nuove vie per esapndermi, continuerò a fare quell’opera, ma voglio anche fare altro.
JONATHAN SMITH