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Secondo questi calcoli potremo vivere dieci volte più a lungo

“L’invecchiamento non è innato, è​ genetico."

In natura sono presenti numerose specie animali i cui individui muoiono subito dopo essersi riprodotti, come la femmina della piovra. Altre, come gli alligatori, sembrano non invecchiare proprio. Cosa hanno in comune? Potrebbe trattarsi dell'evidenza che l'invecchiamento non è un tratto intrinseco, ma un prodotto di come le specie si evolvono in dati ambienti e che l'evoluzione ha programmato tutte le specie, umani inclusi, a morire.

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L'allettante prospettiva è il soggetto di un nuovo studio "Programmed death is favored by natural selection in spatial systems", in cui viene utilizzato un nuovo modello matematico per rivoluzionare la comprensione del processo di invecchiamento. Se questi risultati dovessero rivelarsi accurati potrebbero sorgere nuove speranze per coloro che sperano di riprogrammare gli umani a vivere più a lungo.

La controversa idea è stata sviluppata da Yaneer Bar-Yam, direttore del New England Complex Systems Institute (NECSI), Donald E. Ingber fondatore dell'Harvard Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering, e Justin Werfel ricercatore che collabora con entrambi. Il nuovo lavoro del team è stato pubblicato all'interno delle Physical Review of Letters e sostiene che "i calcoli matemaci alla base della nostra comprensione dell'evoluzione sono fondamentalmente errati".

Al momento crediamo che l'evoluzione selezioni organismi che vivono più a lungo, dandogli più possibilità di sopravvivenza, giusto?

"Secondo la teoria tradizionale, l'evoluzione opterebbe sempre per la durata vitale maggiore e quella che sperimentiamo noi sia la più lunga possibile dal punto di vista biologico", mi ha spiegato Bar-Yam in una recente intervista, "possiamo accorciarla o allungarla".

Ma cosa accadrebbe se l'estensione vitale non fosse necessariamente determinata dalla capacità di adattamento dei corpi ma regolata dall'evoluzione, in base alla quantità di risorse disponibili per una data popolazione e alle pressioni esercitate sui suoi membri per riprodursi? Cosa succederebbe se la morte non fosse una conclusione scontata, ma piuttosto una sorta di misura istituita per assicurarsi che una singola generazione non risucchi tutte le risorse disponibili togliendo ogni possibilità a quella successiva. Queste, in breve, le premesse del team.

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"Se è vero che l'evoluzione determina l'estensione della vita, allora possiamo scegliere di cambiarla, intervenendo nel meccanismo utilizzato per controllarla", Bar-Yam ha suggerito. Gli studi dello scienziato indicano le creature i cui corpi reagiscono decisamente contro il loro stesso interesse come evidenzia del fatto che la morte non è innata ma regolata dall'evoluzione.

"L'invecchiamento non è innato. È genetico. La prospettiva di estendere drasticamente la lunghezza della vita è ragionevole."

"Ad esempio c'è una specie di piovra che muore solo dopo essersi riprodotta", mi spiega, "ma rimuovendo le ghiandole sessuali gli esemplari sopravvivono, la loro morte viene stimolata dal sistema in opposizione più che essere innata".

"I coccodrilli", continua lo studioso, "per quanto ne sappiamo, non invecchiano. Esistono specie con durate di vita variabili. Tra gli scorfani, ad esempio, alcune razze vivono pochi anni, altre centinaia". Bar-Yam mi ha fornito un grafico che riporta le durate vitali radicalmente varie nonostante le notevoli somiglianze genetiche delle diverse specie di scorfani.

Questi dati, sottolinea lo scienziato, costituiscono un'evidenza che l'invecchiamento non è innato, ma un comportamento evolutivo sviluppato ad hoc.

Come sono giunti a questo i ricercatori? Perché i modelli matematici adottati precedentemente per descrivere l'evoluzione fornivano conclusioni tanto differenti?

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"Quella teoria evoluzionistica tradizionale parte dal presupposto secondo cui ogni organismo si trova nello stesso ambiente", ha precisato Bar-Yam, "potresti chiamarla una approssimazione della media. In fisica si chiama 'mean field approximation' ed essenzialmente ignora il contesto locale. Uno degli aspetti più importanti che abbiamo indicato è che quando il contesto locale viene incluso nel modello, si ottengono le risposte varianti dell'organismo all'ambiente che a sua volta viene alterato dall'organismo.

Il Team Harvard e il NECSI hanno adottato un nuovo e, a detta loro, più accurato modello di come gli organismi interagiscono con le risorse locali da cui dipendono per la sopravvivenza.

I risultati sono affascinanti: "abbiamo scoperto che l'eterogeneità spaziale delle risorse limitate e delle strutture di auto-organizzazione delle popolazioni risultano in una robusta selezione per limitazione della durata della vita", come riportano nello studio. In altre parole: mettete assieme risorse limitate e competizione in una data regione con una popolazione che lotta per la sopravvivenza e il risultato sarà una durata vitale più breve. "Nel nostro modello, la mortalità intrinseca libera le risorse di un dato ambiente per i discendenti, migliorando gli sforzi a lungo termine".

In altre parole, quando le risorse sono scarse, una specie nel suo complesso ha più possibilità se la sua popolazione si organizza per promuovere la sopravvivenza a lungo termine attraverso durate di vita individuali più brevi. Le specie essenzialmente si evolvono per combattere la sovrappopolazione e il sovraconsumo.

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"Se un organismo danneggia il suo ambiente non ne soffre direttamente lui, ma i suoi discendenti", mi ha detto Bar-Yam, "questo ha una rilevanza incredibile sullo sviluppo delle organizzazioni sociali."

"Gli organismi approfittano di ogni occasione possibile di sviluppo e questo si applica anche alla durata della vita evolutiva. Se ogni specie vivesse nello stesso tipo di ambiente e disponesse di una estensione vitale maggiore per riprodursi, avrebbe più probabilità di successo. Ma se l'ambiente viene a sua volta influenzato dalle specie che lo occupano, all'aumentare della durata della loro vita media, gli individui di una specie e la loro discendenza esaurirebbero le risorse di quel luogo. Questo è deleterio".

Questo vale anche per gli umani, ed è qui che le cose si fanno interessanti. Perché Bar-Yam crede che il modello mostri che gli umani potrebbero vivere molto più a lungo, abbiamo dopotutto ereditato la durata della vita dai nostri antenati che vivevano come cacciatori raccoglitori. "Esiste un limite intrinseco alla nostra abilità di auto-rigenerarci a lungo termine? E la risposta è potrebbe esserci un limite, ma non significa che corrisponda a quello che sperimentando attualmente".

"L'invecchiamento non è innato", mi ha detto Bar-Yam. "È genetico. La prospettiva di estendere drasticamente la lunghezza della vita è ragionevole. Uno potrebbe prenderla dall'altro lato: perché non vogliamo che accada? Perché la scienza dice che la durata della vita non può essere estesa? La risposta è che si basa su una approssimazione non valida".

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"Se la scienza ha negato le possibilità dell'estensione della vita", aggiunge, "la cosa più naturale da fare sarebbe tornare indietro e guardare alle conclusioni alternative".

Bar-Yam ha riflettuto sull'argomento, e mi ha detto che sarebbe "ragionevole aspettarsi durate vitali anche 5 o 10 volte maggiori".

Immagine: NECSI

"Non c'è ragione per affermare che l'estensione della vita abbia un qualche limite intrinseco", dice Bar Yam, "abbiamo già incontrato esempi di mutazioni negli invertebrati che ne estendono le vite dalle 5 alle 10 volte ed esistono animali che apparentemente non invecchiano". Nello studio, anche se non è il soggetto principale, si riflette su quale potrebbe essere il meccanismo che favorisce l'invecchiamento.

"Ammesso che la regolazione sia intrinsecamente genetica, non significa che l'unico modo di modificarla sia per quella via", ha spiegato Bar Yam, "è possibile che vitamine, medicine e interventi farmacologici possano essere altrettanto efficaci".

L'anno scorso, uno studio pubblicato su Science rilevò che la proteina GDF11 cosiddetta del "fattore di crescita" somministrata a topi sembrava bloccarne il processo di invecchiamento, portando il nostro Michael Byrne a etichettare la vecchiaia come una nuova malattia. E`stato condotta anche molta ricerca sui telomeri, le regioni terminali dei cromosomi coinvolte nel loro declino, un recente studio di Stanford ha dimostrato che l'estensione dei telomeri "invertiva l'andamento dell'orologio dell'invecchiamento nelle cellule umane sotto coltura".

Un'altra questione incombente è questa: e se l'evoluzione servisse proprio a mantenere la nostra estensione vitale la più corta possibile? Se nessuno morisse, non rischieremmo la sovrappopolazione e il sovraconsumo su questo pianeta sempre più affollato? Bar-Yam non è convinto. Riconosce che attualmente il modo in cui distribuiamo risorse sul pianeta è profondamente iniquo, ma sottolinea anche che saremmo in grado di produrre abbastanza cibo sufficiente a nutrire tutta la popolazione mondiale ammesso che non indugiamo in pratiche scellerate come utilizzare colture commestibili per ricavarne combustibile.

"Se altereremo intenzionalmente la durata delle nostre vite, abbiamo la responsabilità di mettere al sicuro le nostre risorse", dice Bar Yam, "se la gente scoprisse un meccanismo che le permettesse di vivere centinaia di anni, dovrebbe diventare chiaro che le risorse del pianeta non sono solo nostre, ma purtroppo non ancora tutti hanno ben chiaro ci sono dei limiti da non superare".