La “Sindrome di Münchhausen per procura” è una forma di abuso per cui un genitore o tutore arreca segretamente danni ai figli per poi fingere cura e preoccupazioni e attirare l’attenzione e gli elogi altrui.
Julie Gregory è nata nel 1969 ed è cresciuta in Ohio. Non è sicura di quando sua madre abbia cominciato ad abusare di lei e non si è resa veramente conto della natura di questo abuso fino all’età adulta. Ne abbiamo parlato e qui puoi leggere un estratto dall’intervista, che trovi in versione completa su Extremes: il podcast di VICE.
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È strano, ma uno dei miei primi ricordi dell’infanzia è piuttosto bello. Mio padre stava guidando, e io ero seduta in braccio a mia madre mentre mi pettinava amorevolmente i capelli. Nel frattempo stavo rovistando nella sua borsa. “Stai cercando qualcosa da succhiare? Ecco, prendi,” mi aveva detto mia madre, tirando fuori un pacchetto. Contenta, avevo messo in bocca il contenuto.
Solo molti anni dopo mi sono resa conto fossero fiammiferi e non caramelle. Mia madre voleva ne avessi sempre uno in bocca e si congratulava con me quando ne finivo un’intera scatola.
Io non la disprezzavo e, anzi, l’amavo moltissimo. È normale cercare l’approvazione dei genitori, e da piccoli si è disposti alla qualunque per le sole briciole di quell’amore.
Non avevo amici. Intorno a noi non c’erano né altre famiglie né vicini, solo natura incontaminata e vegetazione lussureggiante. La mia famiglia era composta da mia madre, mio padre e il mio fratellino Danny, di circa sette anni più piccolo di me. Vivevamo in una strada sterrata e senza uscita, in un caravan.
Mia madre e io eravamo decisamente unite: ne ero dipendente. Sin da quando ero piccolissima aveva l’abitudine di portarmi dai dottori e di dire loro che avevo qualcosa che non andava. Si faceva prescrivere dei medicinali da uno, e altri da quelli che vedevamo subito dopo. Quello che allora non sapevo è che stava studiando quali farmaci non dovessero essere mischiati. Per poi farmeli ingurgitare insieme. Nella fase iniziale, questo era il modo in cui mi faceva ammalare.
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A mia madre piaceva presentarsi al meglio. Vivevamo in un posto così isolato che raramente aveva la possibilità di truccarsi o farsi i capelli, ma le visite ai dottori significavano che poteva mettersi il vestito buono e presentarsi come una persona piena di vita. Credo cercasse di scatenare una reazione nei medici, visto che erano loro che riuscivano a farla sentire una brava madre. E in un certo senso aveva bisogno di me per riuscire a infilarsi in quell’ambiente e ricevere la dovuta attenzione.
L’altro modo in cui mi manteneva “malata” era farmi saltare i pasti. Andavo a scuola senza aver fatto colazione, e a scuola non potevo pranzare perché mia madre aveva compilato apposta dei moduli per evitarlo. Una volta tornata a casa, mi diceva: “Questo non puoi mangiarlo, a questo sei allergica.” Ero magrissima e sempre stanca, un fatto che mi metteva in una posizione di ulteriore dipendenza da mia madre.
Crescendo, ho provato a raccontarlo ai consulenti scolastici, che però non mi hanno mai creduto. I ragazzini non venivano presi sul serio per questo tipo di accuse. Quando avevo dieci anni, mia madre aveva cominciato a fare qualcosa di simile al mio fratellino. Diceva che aveva l’asma e che doveva essere curato.
Mio padre era un uomo pigrissimo che voleva soltanto essere lasciato in pace, ma ricordo una volta in cui ha improvvisamente stretto il polso di mia madre e l’ha sbattuto su un ripiano. Si è arrabbiato e le ha detto “No, non lo farai a mio figlio. Mio figlio sta bene.”
Credo che mio padre avesse perso ogni forma di controllo su di me e mi considerasse ormai persa. Probabilmente, il fatto che fossi una ragazza ebbe un ruolo importante nella faccenda.
Sono cresciuta in un periodo storico in cui le donne non erano ritenute importanti quanto gli uomini. Mio padre non ha mai portato avanti la causa così come ha fatto per suo figlio. Di conseguenza, sono diventata la cavia su cui mia madre poteva sfogarsi.
A 12 anni fui portata da un nuovo medico. Ero seduta su una sedia e il dottore mi chiese di alzarmi. Non mangiavo niente da un bel po’ e, nell’alzarmi, ebbi un mancamento, con il cuore che andava a mille.
Il medico in seguito disse che forse avevo un problema al cuore e che avrei dovuto svolgere altri esami. Mia madre puntò tutto su questa diagnosi e da quel giorno in avanti cominciò a raccontare a tutti che avevo un problema cardiaco.
Dopo qualche altro anno e innumerevoli elettrocardiogrammi, ha cominciato a fissarsi sull’idea di un intervento chirurgico a cuore aperto. Credo avessi 14 anni quando mi ha portata in ospedale per farmi sottoporre a esami e procedure. Un momento che paradossalmente ricordo tra i più belli della mia vita. Mangiavo tre pasti al giorno, avevo una macedonia extra e gelatine a volontà. Le infermiere erano molto gentili e mia mamma non era presente per picchiarmi o tirarmi i capelli. Ma poi è cambiato tutto.
Alla fine della settimana un’infermiera è entrata nella stanza e mi ha detto che doveva rasarmi, specificando che si trattava delle parti intime. Ancora oggi non so dire bene cosa sia successo, ma mi sono lanciata verso il muro in posizione di difesa, con le lenzuola a coprirmi e ho sbottato: “No! Mia madre si sta inventando tutto, non sono malata!” Io e l’infermiera ci siamo guardate in un attimo di gelo e immobilità. Alla fine ha mugugnato che sarebbe tornata ed è uscita dalla stanza.
Ero molto scossa, non sapevo se quello che avevo detto era o meno veritiero. Non capivo nemmeno se lo credevo davvero. Sapevo soltanto che in ospedale stavo meglio e che non avevo mai provato nulla di simile. Alla fine l’infermiera è tornata, sembrava decisamente arrabbiata. Non si sarebbe fatta fregare da una ragazzina. All’improvviso si sono materializzati un sacco di adulti tutti intorno a me, mi hanno anestetizzata e via.
Al ritorno a casa, ero inconsolabile. Non riuscivo a parlare. Non mangiavo e non facevo niente di niente. Mi ricordo di essere tornata in ospedale con mia madre tempo dopo, per incontrare il cardiologo ed esaminare i risultati degli esami. Le disse: “Indovini! Ho buone notizie, sua figlia sta bene. Non ha bisogno di interventi esplorativi.” Mia madre era furiosa e ribatté, “John, pensavo fossimo d’accordo. Pensavo avrebbe eseguito questo intervento a cuore aperto.”
Mi ricordo che sulla faccia del medico si dipinse una strana espressione, come se pensava ci fosse qualcosa di sbagliato in quelle parole. Diventò subito rigido e severo e, prima di andarsene, ribadì, “Non ha bisogno di altro. Non ha necessità di un simile intervento.”
In quel momento ho perso un po’ della mia innocenza. Avevo scoperto la verità ma ero costretta a seppellirla, perché dovevo comunque sopravvivere in una famiglia molto pericolosa e violenta. Alla fine venni trasferita in una casa famiglia e trascorsi la prima estate lontana da mia madre.
Solo molti anni più tardi ho scoperto che esistevano dei termini per indicare il comportamento di mia madre. Stavo seguendo un corso di psicologia e il professore ha cominciato a parlare della Sindrome di Münchhausen per procura. Mi ricordo di averlo sentito parlare di appuntamenti dal dottore, di procedure invasive e della possibilità che ogni tanto questi bambini finissero per morire. In quel momento ho compreso ogni cosa.
Ho cominciato a respirare velocemente, le mie mani hanno iniziato a sudare e mi sono sentita scottare ovunque. Sono corsa fuori, verso le scale, e ho cominciato a sbattere letteralmente la testa contro il muro. Tutto il dolore, le flebo e gli esami: tutto senza motivo. E tutti questi medici, queste persone che si ritenevano in gamba, erano degli sprovveduti che si erano fatti fregare da una persona malata e non erano stati in grado di aiutarmi.