a woman looking at refracted versions of herself through the mirror
Salute

C'è una tecnica che ti aiuta a prendere decisioni migliori—o a placare l'ansia

Parlare a te stesso in terza persona crea una distanza psicologica che aiuta con le decisioni o l'ansia. Perché siamo più bravi a consigliare gli altri che noi stessi, no?

Nella Bibbia, Re Salomone era un uomo incredibilmente saggio e le persone arrivavano da tutto il mondo per chiedere il suo consiglio. La sua saggezza, però, si applicava solo a questioni che non lo riguardavano direttamente. La sua vita “era un susseguirsi di pessime decisioni e passioni smodate,” ha scritto Wray Herbert su The Association for Psychological Science. “Aveva centinaia di mogli e concubine pagane, amava il denaro e ha trascurato l’educazione di suo figlio, che è poi diventato un tiranno incompetente.”

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Questo è noto come il paradosso di Salomone. A prescindere dalla sua veridicità storica, la storia di Salomone mostra come, spesso, siamo più bravi a dare consigli agli altri che a noi stessi, perché la distanza che interponi tra te stesso e gli altri ti permette di valutare una situazione in modo più obiettivo e di controllare le tue emozioni.

Ma potrebbe esistere un modo incredibilmente semplice per applicare questa stessa distanza “salomonica” alle proprie emozioni e problemi: parlare con se stessi in terza persona.

Ora, questa proposta può sembrare strana nel migliore dei casi e fastidiosa, narcisistica e da idioti nel peggiore. Eppure, decenni di ricerca mostrano che parlare a te stesso in questo modo, nella tua testa—nel cosiddetto “distanced self-talk”—può aiutare a costruire una distanza psicologica, un fenomeno che porta a controllare meglio le emozioni.

Distanza psicologica: come funziona?

Lo studio pubblicato su Clinical Psychological Science è parte di un lungo elenco prodotto dal professore di psicologia dell’Università del Michigan Ethan Kross, dalla professoressa di psicologia del Bryn Mawr College Ariana Orvell e altri. Conferma che quando le persone parlano con se stesse usando parole che in genere riserverebbero ad altri—il loro nome e pronomi di terza e seconda persona—riescono a gestire meglio le emozioni negative, persino in situazioni intense e anche se hanno precedenti di difficile rapporto con le proprie emozioni.

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Un dialogo interiore distanziato sottolinea l’importanza della distanza psicologica in generale.

Gli esseri umani hanno la dote dell’introspezione, che aiuta a risolvere problemi e fare piani per il futuro. Ma quando succede qualcosa di brutto o si creano emozioni negative intense, l’introspezione può trasformarsi in un rimuginio ossessivo.

Quando siamo di fronte a questo tipo di disagio, tendiamo a chiuderci, “come a escludere tutto il resto. Perdiamo la capacità di guardare le cose nel loro insieme,” spiega Kross. E fatichiamo a regolare le nostre emozioni.

La distanza psicologica è una pratica nota da tempo, spiega Kevin Ochsner, professore e direttore del dipartimento di Psicologia della Columbia, ed esistono diverse strategie per creare distanza: puoi immaginare, per esempio, una persona o una scena che si allontana da te, come i titoli di testa di Star Wars. Ed è stato dimostrato che persino il gesto di sdraiarsi all’indietro fisicamente può aiutare a compiere poi un’azione ritenuta difficile.

Kross è venuto a conoscenza della pratica circa dieci anni fa, mentre esplorava altri metodi di distanziamento dal sé. Ha scoperto in fretta che parlando con se stessi in terza persona, o persino in seconda persona (usando il “tu”), le persone superavano il muro che impediva loro di cambiare prospettiva.

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“L’idea è che gli strumenti necessari per mutare prospettiva sono già parte della struttura della lingua che parliamo,” aggiunge Kross.

Parlare in terza persona ha dei vantaggi

Il termine tecnico del parlare in terza persona è illeismo. Molti di noi hanno un monologo interiore che interviene quando ragioniamo su decisioni da prendere o riflettiamo sul passato, ma usiamo più frequentemente i pronomi come io, me, mio.

Nel loro lavoro, Kross e colleghi hanno cercato di capire cosa succede se cambiamo pronomi. In uno studio, hanno scoperto che parlare in terza persona aiuta a gestire lo stress del parlare in pubblico e l’ansia sociale.

Nel 2017, su The Cut, Breena Kerr ha scritto di come, all’inizio del suo divorzio, avesse iniziato a parlare di se stessa in terza persona. “Ho fatto un piano d’azione come se stessi consigliando un amico—qualcuno che conoscevo e amavo, che per coincidenza aveva il mio stesso nome. Ha funzionato.”

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Uno degli aspetti più intriganti del dialogo interiore distanziato è che chiede uno sforzo minimo. Negli studi di brain imaging in collaborazione con l’università del Michigan, Kross e colleghi hanno scoperto che non solo riduceva il sovraccarico emotivo, ma anche che le aree del cervello associate con il controllo cognitivo non venivano sovrasfruttate.

Quando parli di te stesso in terza persona, spiega Orvell, non è che dimentichi di star riflettendo su te stesso. Tutti i dettagli delle tue emozioni e situazioni restano accessibili, semplicemente riesci a vederli in modo più oggettivo.

Ochsner sostiene che serve fare ulteriore ricerca sulle diverse strategie di distanziamento psicologico e capire se gli effetti di ognuna siano a breve o lungo termine.

“Siamo così abituati a cambiare costantemente prospettiva quando si tratta di interpretare certi pronomi [pensa all’inglese “you”, che può essere singolare, plurale e generico a seconda del contesto, ndt], che può darsi che quando li usiamo per noi stessi, si istighi lo stesso scivolamento da un punto di vista egocentrico a uno più distanziato,” spiega Orvell. Che aggiunge di non adottare una prospettiva distanziata 24 ore su 24, neanche interiormente: è una strategia da applicare in momenti di intenso disagio emotivo, non sempre.

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Parlare di sé stessi in terza persona solleva inoltre domande interessanti sui modi in cui la lingua che parliamo influenza le nostre emozioni: altre ricerche hanno dimostrato che anche parlare in una lingua straniera delle proprie esperienze emotive può fornire una distanza psicologica, così come dire profanità in una lingua straniera ha un impatto emotivo minore.

Il dialogo interiore e la salute mentale

È importante sottolineare che le ricerche fatte finora riguardano tutte il dialogo interiore, non il modo in cui parliamo di noi stessi a voce alta. Ma Kross teorizza che l’illeismo, per quanto culturalmente associato al narcisismo, sia in realtà ben più complesso. Per esempio, scrivere un curriculum o una biografia in terza persona è meno angosciante che farlo in prima persona. “È più facile parlare dei risultati di qualcun altro,” dice Kross. “Se fosse davvero così, e per ora stiamo speculando, questo è l’opposto del narcisismo. E dimostra che l’illeismo è un fenomeno dotato di complessità.”

Orvell pensa che per quanto le persone possano usare la terza persona in modi diversi, potrebbero esserci delle costanti. C’è un sforzo di distanziamento dal sé quando Trump twitta il proprio nome e quando Jennifer Lawrence, in un’intervista con il New York Times, diventa ansiosa e dice “Datti una calmata, Jennifer.”

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Come molti strumenti di salute mentale, spiega Orvell, il dialogo interiore distanziato non è la bacchetta magica per disturbi complessi come l’ansia sociale, ma solo una strategia d’aiuto. E non è per forza la più giusta per tutti.

Ma è soprattutto ciò che scegli di fare dopo la strategia di distanziamento che ha davvero importanza e che distingue un controllo emotivo adattivo da una negazione. Quando raggiungi la distanza psicologica, puoi fuggire dalle tue emozioni. Oppure, puoi approfondirle ed elaborarle, ma da una prospettiva distaccata, chiarisce Kross.

Molti approcci di terapia del comportamento cognitivo includono metodi di distanziamento, così come le pratiche di mindfulness sono, a livello base, incentrate sul creare una distanza tra se stessi e i propri pensieri. Ochsner aggiunge che una componente del Buddismo è proprio coltivare lo spazio tra un impulso e un’azione. “Molte pratiche meditative si basano sull’osservare se stessi dall’esterno.”

“Quando prendi le distanze, non è che non senti niente,” specifica. “Non è che spegni le tue emozioni.”