Kai Wiedenhöfer odia i muri


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Nel corso degli ultimi vent’anni, il fotografo tedesco Kai Wiedenhofe ha visto una grande quantità di muri. Iniziando con il muro di Berlino, di cui ha documentato la caduta nel 1989, Kai ha fotografato molte delle più famose barriere del mondo: le Linee di Pace a Belfast, la barriera di separazione israeliana, la zona demilitarizzata tra Corea del Nord e Corea del Sud e la frontiera tra Messico e Stati Uniti. Tra la seconda guerra mondiale e il 1989 erano stati tracciati solo 11 nuovi confini, ma da quando 22 nuove frontiere sono state alzate negli scorsi 24 anni, ovvero dopo la caduta del muro di Berlino, Kai non si è mai trovato a corto di soggetti. Oggi Kai vorrebbe esporre la sua enorme collezione di foto sulle rovine del Muro di Berlino, con la speranza di aprire un dialogo sull’uso di barriere come strumento politico e il loro ruolo nella vita di tutti i giorni. Ha cominciato con un progetto di crowdfunding su Kickstarter, a cui vi incoraggiamo a partecipare. Intanto, leggete la sua intervista.

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VICE: Come è cominciato questo progetto?
Kai Wiedenhofer: Ero al primo semestre di università, a metà dell’ottobre 1989, quando il muro di Berlino venne abbattuto. Ero a Colonia e uno dei miei professori mi disse, “Se hai tempo dovresti andare immediatamente a Berlino.” Decisi di partire insieme a un gruppetto di amici, e restammo a Berlino per quattro giorni. Lo descriverei come l’evento politico più interessante della mia vita. Pensavamo di avere un mondo libero, senza più barriere, ma da quanto abbiamo visto negli Stati Uniti, negli ultimi vent’anni, c’è una rinascita dell’uso politico delle barriere.

Cosa ti ha spinto a tornare ad interessarti ai muri, dopo Berlino?
Sostanzialmente sono stato spinto da un amico che ho incontrato collaborando con un giornale svizzero. Voleva scrivere una storia sul muro eretto tra Israele e i territori palestinesi occupati. Dopo sei o sette telefonate, mi ha praticamente trascinato lì. Questo nel 2003; da quel lavoro ho tratto un libro pubblicato con Steidl nel 2007. Da lì in poi ho ampliato il progetto e sono andato in altri posti.  


Il confine tra Ceuta e Melilla, Spagna, e Marocco.

Come mai proprio i muri, le barriere?
Penso sia per un motivo sciocco. Il muro di Berlino era effettivamente la prova più evidente che non si può risolvere un problema costruendo un muro. È controproducente. Per qualsiasi cosa—un problema di natura economica, religiosa o etnica—un muro non farà altro che peggiorare le cose. Pensa a Belfast, per esempio, dove più le persone non si conoscono e non comunicano, più hanno un’idea distorta di chi sta dall’altra parte del muro, un’idea che ha nulla a che fare con la realtà..

Hai viaggiato molto, anche in zone molto pericolose. Hai mai temuto per la tua sicurezza personale?
Non puoi trattenerti a lungo in un posto. Guidi, vedi qualcosa e ti metti a fotografare per dieci, quindici o venti minuti al massimo, e poi tagli la corda. 


Il confine tra Corea del Sud e Corea del Nord.

Qual è stato il viaggio che ti ha riservato più sorprese?
Ho lavorato a Belfast, negli anni Novanta, e non sono tornato per un po’, quindi ho pensato che forse il muro fosse stato ridotto o addirittura smantellato. Nel 2008 ho comprato una nuova macchina fotografica a visione panoramica e ho pensato di tornare a Belfast. Ho scoperto che hanno ricominciato a costruire molti dei muri. Era l’opposto di quanto mi aspettavo.


Linee della pace, Belfast.

Perché vuoi esporre le tue foto sul muro di Berlino? Sembra quasi tu voglia tornare alle radici.
La caduta del Muro di Berlino è stata una cosa positiva. L’esempio siriano ti mostra come le rivoluzioni possano andare a finire molto male. Ma durante la caduta del muro di Berlino, nessuno ha perso la vita. È stato un evento decisamente positivo che avrebbe potuto ispirare il resto del mondo. Nel 1989 la gente pensava non ci sarebbero state più barriere. Si sbagliavano. Quindi abbiamo avuto l’idea di tornare a Berlino e mettere le foto sulle macerie del muro. Se riusciamo ad organizzare questa cosa, 250.000 persone avranno la possibilità di vederle senza dover stipare nessuno dentro ad un museo. 


Baghdad.

Le tue foto mi ricordano quelle di Edward Burtysnky o Andreas Gursky, soprattutto per come usi la grandezza dell’immagine, così da trasmettere l’idea di immensità fisica. Era quello il tuo intento, mentre usavi una macchina panoramica?
Sì, certo. Come dico, se vuoi piantare un chiodo nel legno usi un martello, non un cacciavite. Vengo da una famiglia di artigiani e, alla fine, cosa è un muro? Una cosa enorme, e apparentemente infinita. Quando sei a Gerusalemme e sei vicino a questo muro altro nove metri, ti accorgi della sua enormità. Per la mostra voglio trasmettere l’infinità e la grandezza di queste strutture.

Quale speri sia la reazione delle persone di fronte a queste fotografie?
Ognuno ha la propria opinione. Abbiamo fatto un a prova con una stampa a grandezza naturale della mia foto del confine tra Messico e Stati Uniti. Un gruppo di americani si è avvicinato e ci ha detto che non è possibile mettere a confronto quel muro con il muro di Berlino. In ogni posto in cui vado, qualcuno tenterà di spiegarmi come un muro sia necessario e diverso da altri. Il dibattito sulla globalizzazione è ancora all’ordine del giorno, ma se ci pensi, sono i soldi a muoversi globalmente. Le persone rimangono bloccate dietro a dei muri. 


La frontiera tra Stati Uniti e Messico.

Quale pensi sia il motivo per cui queste barriere continuano a esistere?
È una soluzione semplice, e visivamente efficace. Negli Stati Uniti, per esempio, gli elettori possono dire “Okay, lo stato sta facendo qualcosa. Un muro è qualcosa di fisico.”  Allo stesso tempo diventa anche un qualcosa di mentale. Non devi per forza essere lì. Non devi andare fino al confine dell’Arizona e guardare verso il Messico. Si può avere un immagine di un muro anche quando si è a New York o a Denver o da qualsiasi altra parte. È un simbolo vividissimo che le persone hanno in testa. 


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