Prima di scrivere questo articolo stavo leggendo un pezzo su come il diventare “virali” sui social stia influenzando il mercato musicale e i dj producer, e come abbia portato gli ultimi ad adattare la propria musica alla piattaforma e al pubblico. Per esempio, c’era questo tipo che si è rifatto al successo-meme di “Old Town Road” di Lil Nas X e si è praticamente inventato prima un meme che fosse perfetto per TikTok, e poi il pezzo vero e proprio. Risultato: famoso.
Adesso, non voglio dire che la musica debba essere schiava dei numeri o pensata perché si diventi delle persone molto importanti—per quello ci sono i follower taiwanesi. Però questo è il mondo in cui viviamo, e non può non influenzare una generazione che adesso gode di opportunità praticamente infinite per comporre, e migliaia di vie per cominciare da zero partendo da meno uno.
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Sono appena tornato dal Kappa FuturFestival, al quale sono stato invitato da Pioneer DJ (partner tecnico ufficiale dell’evento per il terzo anno consecutivo, e i cui prodotti vengono utilizzati su tutti i palchi del festival) e penso a tutte queste cose. In due giorni ho incrociato migliaia di persone da qualsiasi angolo del mondo—hanno staccato oltre 60mila biglietti—e ho visto da vicino dj davvero importanti al lavoro coi loro tic e la loro perizia. Il festival è alla settima edizione e si tiene in un parco di Torino molto famoso e molto instagrammabile: si chiama Parco Dora ed è un’ex area industriale molto estesa che ancora adesso porta i segni di questo passaggio. Associato alla techno e all’elettronica della line up l’effetto è ovvio ma notevole.
Scelgo di seguire più set possibili spostandomi tra i quattro palchi ma tenendo bene in mente che l’obiettivo primigenio della trasferta, alla fine della giornata 1, è vedere Carl Cox dal vivo, almeno per una volta, e rendere omaggio al me adolescente che voleva fare qualcosa di simile nella vita ma non c’ha mai voluto credere troppo.
In giro la gente è presa bene, i pompieri quasi contenti rinfrescano la folla con gli idranti e i vialoni post-industriali del parco si riempiono dei vari tipi di utenza da festival del genere. Ci sono tanti, tanti ragazzi inglesi con le magliette della Premier League e ragazze inglesi vestite fluo; ci sono i “pro” italiani a Torino come ennesima tappa di un più lungo pellegrinaggio del clubbing tra la Riviera e la provincia di Brescia; ci sono quelli che sono lì e sticazzi e quindi ballano; ci sono i superstiti degli anni Novanta evidentemente arrivati per strappare ancora un po’ di divertimento a questa vita, perché tanto perché non dovrebbero? Ci sta.
Uno di questi mi ferma per raccontarmi spontaneamente la sua esperienza e darmi tanti cinque. Ha verosimilmente una cinquantina d’anni ed è vistosamente attratto dalla mia maglia dello Space di Ibiza (mai stato, me l’hanno regalata): “27 anni… Ogni cazzo d’estate allo Space per 27 cazzo di anni! Cazzo, dammi qui!” e mi batte di nuovo la mano. “27 anni! Abbiamo fatto la storia cazzo.” Manuel è decisamente più in linea con l’anagrafica (Under 28? Under 25?). È portoghese, con la barba rossa, e mi dice che non c’era mai stato, che manco sapeva che esistesse, ma che l’anno prossimo sarà di nuovo lì. “I didn’t expect all this”.
Li lascio, guardo questa folla interminabile e basculante che balla e ragiono: ma dove sono di solito questi? Quali sono le loro pagine Facebook di riferimento? Quali sono gli account Instagram a base di meme che di solito seguono? Come fanno a sapere chi c’è in consolle? Tutte domande con risposte potenziali che sicuramente non conosco o che forse non ho mai cercato.
Da adolescente ero mega contento quando, tipo, Albertino difendeva la categoria di noi che ascoltavamo la musica house, la musica techno, la musica dance, dicendo che non eravamo tutti delle “lattine vuote”. Che avevamo persino cervello e sentimenti, anche se eravamo appena pubescenti e alle cinque del pomeriggio registravamo “Vitamina H” in cassetta dalla radio (che ora che lo rileggo sembra il nome di un gruppo Facebook nostalgico). Quando tutto questo sembrava un mondo intollerabile e tamarro sia per chi non accettava culture e controculture diverse, che per chi non accettava culture, punto.
Insomma comunque adesso ho superato i 30 anni, faccio musica “elettronica” da quando ne avevo 12 (ho cominciato con un videogioco per la Play che si chiamava “Music”), ho letteralmente comprato dei software con risparmi e paghette, imparato offline, persino vinto un autografo di Molella e un passaggio in radio. Poi forse me ne sono dimenticato e ricordato a intervalli irregolari. Ecco, tutto questo per dire che adesso quando vedo un giovanissimo spaccare con la sua musica su Soundcloud—o TikTok, o che so io—rosico un po’ perché forse ora è più “facile”, ma passa subito. Basta davvero poco per provarci, considerato quanto costa. Ed è giusto così, così com’è adesso, non com’era prima.
Nella lounge di Pioneer DJ del Festival provo prima un caschetto VR col quale, una volta indossato, sono esattamente dietro una consolle e con due stick posso letteralmente scegliere delle canzoni e mixare e tutto. Poi IRL provo lo Squid, uno dei nuovi prodotti per comporre, campionare e sequenziare live. Perché da un po’ il dj è anche il performer, e il producer spesso viene prima di chi presta la voce. Abbiamo migliorato una specie.
Penso a tutto questo mentre ascolto di seguito i set di Dj Nobu, Boyz Noise, Solomun. Amelie Lens è una delle principali esponenti della nuova scuola techno europea e salta da un deck all’altro con un set forse ancora più moderno degli altri, con più ironia su tasti e manopole, drop meno impazienti e una selezione bella cattiva—non senza saluti e baci per le vecchie divinità acid. Suona prima di Carl Cox, che la congeda endorsandola pesantemente e abbracciandola un paio di volte.
Carl Cox invece è quello degli essential mix di fine anni Novanta che giravano nelle cassette che ci prestavamo alle Medie, e che poi passavamo all’unico amico col masterizzatore che le ripassava in digitale e le rendeva cd — ciao Postale, reato prescritto. È pur sempre quello della trimurti con Sven Väth e Paul Van Dyk, e rappresenta ancora oggi il filo con la Storia del genere, dando una memoria più lunga a una cultura che sì, alla fine è relativamente nuova, e che sì, viene ancora pensata come uno scaffale di lattine vuote.
Osservo come prepara tutto, quando cadenza il sorso di cuba e l’arringa alla folla col segnale del crimine (“Oh yes… Oh yes…”), per non-so-quante-mila persone prese bene. Ci sono striscioni e cartelloni, qualcuno dalla prima fila lo chiama continuamente, disperato. “Caarl, Caarl, Caarl, Caaarl”. Carl Cox ha 56 anni, ed è in circolazione da più tempo lui come dj che io come me stesso. Punta l’indice a destra e sinistra senza pensare se a Berlino i dj vestiti di nero fanno così, se può apparire cringe. Usa pochissimo le cuffie—dei cuffioni old school—e per lo più per scrupolo.
Suona su quattro piatti di cui uno è anche un sampler. Lavora a memoria e lo show è uno show, anche in tre metri quadri. A mezzanotte lo costringono a staccare e stacca sudato e contento come se avesse scolpito una Venere in pubblico in un tempo ristrettissimo. Chiude, com’è consuetudine, con qualcosa di melodico per lasciare un po’ di persistenza in bocca. Tipo gomme alla clorofilla.
Negli ultimi decenni la dance, e con lei tutto quello che ci sta dentro, è cambiata radicalmente ed è rimasta contemporaneamente sempre la stessa. A volte è finita nel pop, a volte ne è uscita. Una parte è salita sul palco del FestivalBar negli anni Novanta, un’altra è rimasta chiusa nel Cocoricò, un’altra ancora s’è addirittura ritrovata nei servizi di Pomeriggio Cinque sotto forma di EDM. A un certo punto nei club dei primi duemila è stata persino sostituita dalle chitarre. Poi sono morte le chitarre, dicono: la dance era ancora lì, a preparare la resistenza contro l’espansione di trap, grime, reggaeton. Adesso la trovi anche nei centri sociali. Devi cercare, è sempre stato così.
Me ne vado pensando che non bisogna lasciarsi dire che quello che si ascolta è stupido, né che la si sta ballando in modo stupido, o che quella che vi piacerebbe comporre è musica tamarra e stupida. Pensatela già buona per i meme, o mega complessa, o inascoltabile, o siate Carl Cox a 12 anni. Abusate di Chicago house, o techno di Detroit, o pop coreano. Fate il cazzo che volete.
Foto per gentile concessione di Pioneer DJ tranne ove diversamente indicato.
Vincenzo è su Instagram ed è DJ Jack Russell.
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