Kendrick Lamar è tornato con un nuovo album, DAMN., e ovviamente—come ormai è tradizione per K-Dot dai tempi di good kid, m.A.A.d. city—è pieno di testi complessi, interconnessi e zeppi di metafore. Questo può essere considerato un pregio o un difetto, che vi manchi la semplicità delle acrobazie al microfono dei tempi di “HiiiPower” o che i flow sconnessi e le basi jazzate di pezzi come “u” e “These Walls” vi facciano brillare gli occhi di gioia. Resta la consapevolezza che Kendrick Lamar continua a dimostrare di essere capace a tessere narrazioni complicate mantenendo una coerenza stilistica e tematica impressionante.
Dopo essersi interrogato sulla sua adolescenza a Compton in good kid e aver analizzato le complessità della fama, della depressione e dell’identità razziale afroamericana in To Pimp a Butterfly, ora Kendrick si ferma e si guarda dentro ancora più attentamente, sviscerando la sua terribile paura della morte in modo da renderla punto di partenza per un ragionamento sulla religione e sul destino delle minoranze nell’Occidente. Spezza il continuum spaziotemporale con un proiettile e crea due possibilità alternative, due esistenze in contrapposizione. Qua sotto trovate le traduzioni delle parti dei testi più importanti del disco, una parziale interpretazione del loro significato e, semplicemente, un’opportunità per entrare nel profondo di una delle menti più brillanti dell’hip-hop contemporaneo.
“DAMN.”: KENDRICK COMINCIA L’ALBUM MORENDO AMMAZZATO
L’altro giorno ero in giro e ho visto una donna—una donna cieca—che faceva avanti e indietro sul marciapiede. Sembrava un po’ frustrata, come se avesse perso qualcosa e stesse facendo fatica a trovarlo. Sono rimasto un po’ lì a guardarla, e poi ho deciso di andare da lei a darle una mano, no? “Salve signora, posso aiutarla? Mi sembra che lei abbia perso qualcosa. Vorrei aiutarla a trovarla.” E lei mi fa: “Oh sì, hai perso qualcosa. Hai perso… la vita.”
E poi si sente un colpo di pistola, e Kendrick muore. Come è ormai diventata tradizione data la tendenza di K-Dot a costruire all’interno dei suoi pezzi strutture complesse e metaforiche, i suoi fan—noi compresi—hanno cominciato a farsi dei viaggioni per capire quale sia la “trama” di DAMN, e che senso abbia per il personaggio-Kendrick morire nel primo pezzo del disco. Bè ragazzi, vi anticipo che la teoria dominante è piuttosto un casino. Andiamo a capirla canzone dopo canzone, per ora non vi spoilero niente.
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“DNA.”: IN CUI KENDRICK SI PARAGONA A CRISTO
Ho, ho, ho, ho
Lealtà, ho il potere di un re nel mio DNA.
Un pezzo di coca, ho guerra e pace nel mio DNA.
Ho potere, veleno, dolore e gioia nel mio DNA.
Comunque so cavarmela, ho ambizione e flow nel mio DNA.
Sono nato così, fin dal primo giorno così,
Immacolata concezione.
Mi trasformo così, mi esibisco così,
Ero la nuova arma di Yeshua.
Non contemplo: medito, e poi ti faccio saltare la cazzo di testa.
In “DNA” Kendrick adotta diversi punti di vista sulla sua identità (afro-americana, artistica, religiosa). Nella strofa qua sopra, passa dai trascorsi di spaccio della sua famiglia—suo padre faceva soldi con la coca, come rivela il suo verso su “Nosetalgia” di Pusha T—a un’enumerazione di qualità universali in modo da presentarsi come identificazione dell’esperienza umana tutta. Perché l’esperienza che K-Dot sta per fare è in realtà un enorme viaggione sul dualismo della morte, sulla dannazione e la salvezza: un gioco di estremi di cui vedremo due possibili esiti.
“Immacolata concezione” non fa che spostare ancora di più l’attenzione sul concetto di universalità: come Gesù cristo è morto per salvare l’umanità dai suoi peccati, così Kendrick è pronto a intraprendere un percorso di auto-analisi ed espiazione. Lui, “nuova arma di Yeshua“—”Gesù”—salvatore del rap, salvatore dell’uomo. Mi raccomando ricordatevi dell’ebraismo perché tornerà più avanti.
“YAH.”: GLI AFRICANI, I LATINI E I NATIVI AMERICANI SONO I VERI FIGLI DI DIO
Qualcuno dica a Geraldo che ‘sto negro ha un bel po’ di ambizioni,
Non sono un politico, non puoi identificarmi in una religione:
Sono un israelita, non chiamarmi più “nero”,
Quella parola è solo un colore, non è più un fatto.
Mio cugino mi ha chiamato, mio cugino Carl Duckworth,
E mi ha detto di rendermi conto del mio valore,
E che il Deuteronomio dice che siamo stati tutti maledetti.
So che LUI cammina sulla Terra
Ma ci sono soldi da fare, troie da farsi,
Zeri da aggiungere—si chiama tentazione.
Il dissing a Geraldo Rivera—giornalista di Fox News che non ha avuto belle parole nei suoi confronti, voce di una stazione televisiva faziosamente destrorsa e critica della cultura hip-hop tutta—era cominciato con un sample vocale in “DAMN.”; qua Kendrick lo usa come trampolino di lancio per proseguire il suo processo di identificazione personale e universale nella figura di Cristo. Come spiega bene questa analisi di Genius, nel libro del Deuteronomio gli israeliti, sotto la guida di Mosé, arrivano alla fine dell’esodo che li ha allontanati dall’Egitto quarant’anni prima. Mosé li avvisa delle conseguenze terribili che li aspetteranno, dovessero disobbedire le leggi di Dio; ma gli conferma anche che sono il popolo prescelto dal Signore.
Ecco: Kendrick concorda qua con le visioni degli ebrei israeliti, una parte delle comunità non-occidentali che si identifica nella fede ebraica e si considera, alla pari di chi fuggì dall’Egitto, figlia di Dio in nome delle comuni sofferenze patite, oltre che discendente delle tribù di Israele perdute. Quindi: “Non chiamatemi nero, io sono israelita come tutti i miei fratelli neri, nativi americani, latini, in quanto siamo tutti dovuti fuggire dalle nostre terre e abbiamo sofferto; e allora siamo figli di Dio.” Per concludere, Kendrick torna ad attaccare “LUI:” Lucy, o Lucifero, antagonista principale che aveva affrontato nei testi di To Pimp a Butterfly.
“FEEL.”: UN FLUSSO DI PESSIMISMO
Riempiamo il vuoto della disoccupazione facendo i criminali,
Le strade parlano, riempiamo gli spazi con le nostre bare,
Riempiamo le banche di soldi,
Riempiamo le tombe di padri,
Riempiamo i bambini di stronzate,
Blog e pulpiti, li riempiamo di gossip.
Deve essere così che Pac si sentiva:
Come se l’apocalisse stesse per arrivare.
Riprendendo il tono confessionale di “u”, Kendrick butta fuori tutte le paranoie che non è ancora riuscito a scrollarsi di dosso negli ultimi anni: parla delle speranze infrante per il futuro di sua figlia, di chi si finge suo amico, dell’opportunismo sanguinario dell’industria musicale. Ma anche di come i ragazzi afro-americani vengono tenuti in strada e nei cimiteri da un sistema economico pregiudiziale, dell’influenza dei predicatori—internettiani o reali che siano—sulle nostre menti. E, riprendendo la logica di “Mortal Man”, trova in 2Pac uno spirito affine in quanto anche Shakur, nell’ultima parte della sua carriera, si spostò verso opinioni piuttosto pessimiste sulla sua contemporaneità. Sul finire del pezzo, però, Kendrick torna su sé stesso, sulla sua sofferenza, sulla disperazione dell’essere solo a combattere il male del mondo mentre qualcuno, su una collina, sta preparando una croce e dei chiodi:
È come se il mondo intero volesse le mie preghiere,
Ma chi cazzo sta pregando per me?
“PRIDE.”, “HUMBLE.” E “LUST.”: UNA PRESA DI COSCIENZA E UN’ANALISI DEI VIZI DELL’UOMO
Capisci, mondo, in un mondo perfetto sarei perfetto.
Mondo, se vado sotto la superficie non mi fido abbastanza della gente.
Non amo abbastanza la gente da porre la mia fede nell’uomo,
La metto in questi testi e spero così di poter fare penitenza.
Non sono perfetto, lo capisco:
Probabilmente non risorgerò.
[…]
Non posso fare finta di essere umile solo perché il vostro culo è insicuro.
Non posso fare finta di essere umile solo perché il vostro culo è insicuro.
Su “PRIDE.” cominciamo a percorrere una delle due vie che portano il protagonista al colpo di pistola da cui l’album è cominciato: Kendrick si interroga sui suoi difetti e si chiede come fare a mantenere la propria integrità morale nonostante sia sempre più convinto di essere il miglior rapper sulla terra (come ha detto chiaramente in “The Heart Part IV”, e come ha ripetuto in “ELEMENT.”). Per evitare di morire da peccatore, tradendo la fede di Dio, da buon discendente della gente d’Israele, Kenny analizza i suoi difetti e cerca di riportarsi sulla Terra, lacerato dalla certezza delle proprie qualità e dalle opprimenti pareti della coscienza e della carne—le stesse che lo confinavano nella pazzia di “These Walls”. Prova a immaginarsi migliore, ma si ricorda che la sua natura umana è ancora fallibile:
Le barriere razziali ci rendono tutti inferiori.
Capisci, mondo, in un mondo perfetto sceglierei la fede invece che la ricchezza,
Sceglierei il lavoro invece che le puttane, renderei scuole le prigioni,
Prenderei tutte le religioni e le metterei in una sola messa
Solo per dirgli che non valiamo un cazzo, ma Lui è stato perfetto.
Il pezzo seguente, “HUMBLE.”, mostra un parziale fallimento: l’umiltà del titolo non è infatti quella di Kendrick ma quella che cerca di instillare in chi lo ascolta con i suoi versi, conscio della loro qualità. Allo stesso modo, “LUST.” racconta i vizi della vita dei ricchi, tra sesso, droga, cazzeggio e ostentazione—e Kendrick ci si mette dentro fino al collo, riconoscendo i suoi peccati ma dichiarandosi al contempo in cerca di aiuto: “I need some water,” dice, “Ho bisogno d’acqua“: la stessa che, nel suo capolavoro “Sing About Me, I’m Dying of Thirst”, identificava con la salvezza divina. Ma sono comunque un paio di passi in più verso il proiettile—punizione di Dio per chi non segue la sua legge.
“LOVE.”: KENDRICK CUORE DI PANNA
Se non guidassi macchinoni, mi ameresti lo stesso?
Se minimizzassi il mio patrimonio, mi ameresti lo stesso?
Voglio il massimo, preferisco avere la tua fiducia che il tuo amore;
Voglio il massimo, davvero: senza di te, non ho niente.
Dopo essersi lanciato nella grandeur che solo un rapper estremamente famoso può chiamare propria, nelle dichiarazioni di dominazione lirica di “HUMBLE.” e nella sequela di ostentazione di “LUST.”, Kendrick si ricorda che per evitare il proiettile di cui sopra deve concentrarsi su ciò che gli dà sicurezza, gioia: la sua fidanzata Whitney Alford, presumibilmente, con cui sta insieme fin dagli anni della high school. Nel suo pezzo più romantico di sempre, K-Dot si toglie qualsiasi maschera di boria e si presenta in tutti i suoi dubbi e desideri romantici—”Voglio stare con te, voglio stare con te,” canta, “Non voglio starti addosso, voglio solo la tua benedizione.”
“XXX.”: SCEGLIERE TRA LA VIOLENZA E IL PERDONO, TRA IL PECCATO E LA SALVEZZA
Ieri il mio cane mi ha chiamato, tipo Carica dei 101,
Mi ha detto che gli hanno ucciso il suo unico figlio perché aveva finito i soldi.
Singhiozzava, era pronto a vendicarsi, era belligerante e ubriaco,
Buttava fuori i suoi pensieri, filosofava su quello che il Signore aveva fatto.
Mi ha detto, “K-Dot, puoi pregare per me?
È stata una giornata di merda,
So che sei unto, spiegami come uscirne, come vincere.”
Stava cercando un senso a quello che gli era successo,
Sperava che io potessi avvicinarlo allo spirito—
Il mio non sa fare di meglio, ma questo è quello che gli ho detto:
“Non posso addolcirti la risposta, è questo quello che credo:
Uccidi mio figlio, e io ti ucciderò.”
Dopo l’intermezzo di luce che è “LOVE.”, “XXX.” ci riporta nel buio del vizio, in nuovo peccato capitale: “Non uccidere,” dicono i comandamenti; “Uccidi mio figlio, e io ti ucciderò,” risponde Kendrick dopo aver sentito un amico raccontargli di aver perso il suo primogenito per un debito non pagato. K-Dot procede dicendo che ammazzerebbe il tipo alla prima opportunità, che andrebbe in tribunale con in mano la pistola orgoglioso delle sue azioni; e poi ribalta ogni cosa uscendosene, dal nulla, con un “Ok ragazzi, e ora parleremo del controllo delle armi.”
Ave Maria, Gesù e Giuseppe,
La grande bandiera americana
È piegata e avvolta di esplosivi.
Disordine compulsivo, figli e figlie,
Quartieri barricati e confini.
Guardate quello che ci avete insegnato!
Ci sono morti sulla mia strada, sulla vostra strada, nei vicoli,
Negli uffici di Wall Street.
Banche, impiegati e boss con
Pensieri omicidi; Donald Trump è il presidente,
Abbiamo perso Barack e ci siamo promessi di non dubitare mai più di lui.
Ma l’America è onesta? O ci stiamo crogiolando nel peccato?
“XXX” si rivela così un pezzo dalla duplice natura, per metà schiavo del peccato e per metà illuminato e ragionevole; una prima strofa che allude al ciclo ininterrotto di violenza tipico della gang culture che ancora pesa sulle spalle della società americana, una seconda che grida la frustrazione della fine dell’era Obama e tutta l’insicurezza e il terrore sociale ed economico proprio dell’attuale presidenza Trump. E conclude, tornando sul discorso dell’universalità dell’esperienza di Kendrick, interrogandosi sulla natura delle azioni del popolo: quando ci lasciamo andare ai nostri vizi siamo onesti con noi stessi o stiamo peccando? Sappiamo riconoscere la natura delle nostre azioni, e le loro conseguenze? Riusciamo a ragionare invece di lasciarci prendere dalla passione, dalla furia, dal vizio? Prima di uccidere qualcuno, e prenderci il proiettile vendicativo di Dio in fronte?
“FEAR.”: TRE RACCONTI DI TERRORE E MORTE
Kendrick comincia “FEAR.” facendoci sentire la telefonata di suo cugino in cui parlava in “YAH.”, riferimenti al Deuteronomio e tutto, a rivelare la struttura metaforica del suo percorso finora. Procede poi, in un gesto di estrema onestà ed espiazione, a rivelare tre momenti di puro terrore dalla sua biografia. Comincia, nella prima strofa, raccontando di violenze domestiche: di una madre che pesta il figlio per qualsiasi errore o dubbio, dell’impossibilità di scappare nell’accoglienza delle braccia del padre, di minacce e prepotenza. Kendrick fa poi un salto temporale e, nella seconda strofa, racconta di quanta paura di morire ha avuto crescendo a Compton:
Probabilmente morirò per una di ‘ste manganellate, per uno di ‘sti distintivi,
Col mio corpo buttato sul nero dell’asfalto, circondato da vernice bianca e le ossa spezzate.
O forse morirò di paura, o morirò per essere stato troppo indulgente,
O morirò aspettando la morte, morirò perché non mi sto fermando mai.
Probabilmente morirò provando a comprare erba alle popolari,
Probabilmente morirò provando a separare due amici mentre litigano,
Probabilmente morirò perché è questo che si fa a 17 anni.
Tutti i problemi possibili e alla svelta, avrei voluto poter controllare le cose.
La morte, come—ancora—è stato notato da Genius, è la seconda chiave per capire il nuovo album di Kendrick: è la paura di morire, la coscienza che tutto potrebbe finire in qualsiasi momento, a instillare in lui questa ricerca di un senso religioso, di lealtà e correttezza. Una paura fottuta di andarsene avendo fatto qualche cazzata, senza alcun senso, portati via da un poliziotto, da una rissa—”perché è questo che si fa a 17 anni“, mica per altro, come già cantava raccontando la scomparsa di un suo amico in “Sing About Me, I’m Dying of Thirst”.
Il terzo racconto riprende le fila di To Pimp a Butterfly e scarnifica il Kendrick-rapper fino a esporne ogni paranoia: il suo terrore di essere ingoiato dai soldi, da un mondo che non gli appartiene, dal sesso e dalla depressione, da un’idea di sé distorta dal successo.
Sto parlando di paura, paura di perdere la mia creatività.
Sto parlando di paura, paura di perdermi io e te.
Sto parlando di paura, paura di perdere lealtà per colpa dell’orgoglio,
Perché il mio DNA non vuole lasciarmi entrare nella luce di Dio.
Sto parlando di paura, paura che la mia umiltà se ne sia andata.
Sto parlando di paura, paura che l’amore ormai non viva più qua.
Sto parlando di paura, paura che la scelta sia tra debolezza e malvagità.
La paura, qualsiasi cosa sia, è un elemento di destinazione.
Paura che ciò che succede sulla Terra resti sulla Terra
E che non possa portare con me questi sentimenti.
E allora spero che possano disperdersi
In queste quattordici tracce, buttate su questo vinile,
Cercando soluzioni aspettando che qualcuno torni—
E mi chiedo se è il rap o la paura a tenermi in vita.
A concludere il pezzo, la fine della telefonata del cugino di Kendrick, il cui senso è lapidario: “Finché non ci pentiremo,” parafrasando, “saremo condannati a restare nella nostra situazione di esodo, di inferiorità sociale.”
“DUCKWORTH.”: QUANDO IL CAPOCCIA DI TOP DAWG HA QUASI UCCISO IL PADRE DI KENDRICK
Dei poliziotti corrotti dissero a Anthony che avrebbe fatto meglio ad andarsene.
Lui li mandò a cagare
E tornò al Kentucky Fried Chicken.
Sapete, in quel posto
C’era un negro dalla pelle chiara che parlava un sacco,
Coi capelli ricci e un buco tra i denti.
Lavorava al take away, si chiamava Ducky,
Veniva dalle strade, dalle Robert Taylor Homes.
Dai Southside Projects, da Chiraq, dalla culla del terrore.
Andò fino in California, con sé una donna e cinquecento dollari.
Fecero un figlio, speravano sarebbe riuscito a vivere abbastanza da andare all’università,
E lavoravano per svoltarla, turni dalle nove alle cinque.
Anthony, che Kendrick descrive nella prima parte del pezzo come un ragazzo di strada impossibilitato a fuggire dalla violenza del contesto in cui è cresciuto, è Anthony Tiffith—capo di Top Dawg Entertainment, la sua etichetta, fautore della sua fama. Ducky è invece il padre di Kendrick, che si era trasferito a Los Angeles da Chicago e lì lo aveva avuto, e lavorava a un Kentucky Fried Chicken per tirare su due soldi. Ecco: “DUCKWORTH.” è il racconto di come Tiffith arrivò quasi a uccidere il padre di Kendrick, e di come esistono due scelte nella vita: si può uccidere o perdonare, salvare o condannare. E in base alle nostre azioni verremo giudicati, da Dio e dalla splendida, terrificante, evanescente casualità della vita.
Ducky sapeva bene
Che l’anno scorso avevano derubato il manager e avevano sparato a un cliente.
Quindi decise di trattare bene ‘sti negri,
Ogni volta che Anthony si metteva in fila lui gli regalava del pollo,
Due pezzi di pane in più: a Anthony piaceva,
Quindi lo risparmiarono; non lo uccisero.
Anzi, sembrò che fossero gli unici due a sopravvivere.
Fate attenzione, ché una singola decisione ha cambiato entrambe le loro vite,
Una maledizione alla volta.
Rovesciate l’ovvio, il karma positivo e vi dirò perché.
Prendi due estranei e mettili in situazioni difficili, completamente casuali; dagli un’anima
Così che possano compiere le loro scelte e vivere con le loro conseguenze.
Vent’anni dopo, quelli stessi estranei si incontrano di nuovo
In studi di registrazione in cui raccolgono i frutti dei loro sussidi.
Poi cominci a ricordargli di quell’incidente da KFC:
Chi avrebbe mai pensato che il rapper più grande di sempre sarebbe nato da una coincidenza?
Perché se Anthony avesse ucciso Ducky
Top Dawg sarebbe potuto essere all’ergastolo
E io sarei potuto crescere senza un padre e sarei morto in una sparatoria.
Il momento in cui Tiffith ha scelto di non uccidere Ducky ci ha dato Kendrick; un dito sul grilletto e tutto sarebbe stato diverso. Il pezzo viene interrotto da un colpo di pistola, lo stesso su cui il disco è cominciato, e la voce di Kendrick, al rovescio, ripete: “L’altro giorno ero in giro…” Due linee temporali si spaccano in due possibilità, in due vite, in due concetti—vita e morte, salvezza e dannazione.
Elia traduce canzoni, ed è anche su Twitter: @elia_alovisi
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