Andare ai concerti la domenica sera, a un certo punto della vita, comincia a non essere proprio un prospetto allettante. Tutto a un tratto il venerdì e il sabato, insomma, ti bastano. Cominci a pensare alle ultime ventiquattr’ore prima del lunedì come a un magma fatto di lenzuola, lunghi scrolling con la schiena sulle suddette lenzuola, caffè della moka, caffè americani pagati tre euro presi al bar di un museo e altre amenità. Insomma: stai cominciando a darti una calmata.
È per questo che quando il mio cervello ha pensato “mmmm” alla proposizione Vuoi venire al concerto di Ketama126 al Fabrique domenica sera mi sono un attimo preoccupato. Venerdì avevo fatto le quattro e mezza. Sabato anche. Magari potevo cucinarmi un cous cous un po’ abbondante, così mi facevo anche la schiscetta di lunedì. C’era Juve-Napoli. Potevo andare avanti con il libro che sto leggendo. Ho già visto Ketama dal vivo almeno quattro volte. Magari potevo… stare a casa?
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E invece no. Invece ho preso un tram e una Car2Go e sono andato al Fabrique a vedere Ketama126, autore di uno degli album rap italiani più originali, influenti e semplicemente belli usciti l’anno scorso. Era il suo concerto più grande a Milano finora dopo una serie di showcase e concerti, un’occasione per celebrare la fine del ciclo di Rehab con una grande festa. Forse il mio invecchiamento poteva aspettare un’altra settimana.
La prima volta che ho sentito dal vivo la chitarra che anticipa lo “STRONZI, TROIE / NON ABBIAMO PAURA DELLA MORTE” con cui comincia “Rehab” è stata al release party del disco in uno scantinato. Non c’era un palco: c’erano solo dei CDJ, un microfono e un bel po’ di birre. Ieri sera, invece, le ho gridate assieme a un sacco di gente. Non ero in mezzo a loro ma le ho viste dall’alto aprirsi sotto una luce bianca, creare un buco, cominciare a correrci in mezzo man mano che la canzone si preparava ad esplodere con quel k per sentirsi meglio. E poi, quando la luce si è fatta colorata, li ho guardati saltare e schiantarsi l’uno contro l’altro, come se su quel palco ci fossero gli Slayer e non un ragazzo che rappa. È una cosa che mi ha colpito e mi ha fatto fare un pensiero: non importa tanto quanta gente ti ascolta, ma quanto quella gente ci crede.
Ci pensavo già da un po’, dato che negli ultimi tempi ho visto altri due concerti al Fabrique – entrambi sold out – i cui pubblici reagivano in modo molto diverso a quello che succedeva sul palco. Il primo è stato quella della Dark Polo Gang, apertura del tour di Trap Lovers: un concerto inaspettatamente ben fatto, dato che le altre volte che avevo visto la Dark dal vivo era tutto gioiosamente a cazzo. Stavolta Wayne, Tony e Pyrex avevano una scaletta, dei costumi, dei visual, degli stacchetti, degli ospiti: hanno fatto un live di cristo, ma di fronte a ragazzi che erano più lì per vederli che per cantare con loro, sbattersi, muoversi, farsi venire mal di gola.
Il secondo è stato quello di Vegas Jones, data di chiusura del tour di Bellaria. A fronte di uno spettacolo ugualmente ben costruito, i ragazzi presenti hanno accompagnato l’intera serata con un’energia impressionante. Fin dall’apertura di Giaime non c’era bisogno di imboccare la folla con i vari “un grido per mio fratello x” o “Milano ci siete o no” – le risposte arrivavano spontanee, i testi venivano gridati, i corpi si muovevano. Sebbene la mobilità del proprio pubblico non sia minimamente un indice di successo, né dell’artista né del singolo concerto, il live di Vegas mi ha fatto sentire parte palpitante di un corpo, non un osservatore di quel corpo. Lo stesso mi è successo ieri sera al concerto di Ketama, sebbene la gente fosse la metà.
Il concerto di Ketama non è stato solo un concerto di Ketama. È stato uno show della Love Gang tutta, con Drone126 a mettere i pezzi e Franco126, Pretty Solero, Ugo Borghetti e Asp126 a salire sul palco liberamente per eseguire i loro pezzi, non necessariamente insieme al protagonista della serata. Ed è così che il pubblico del Fabrique si è potuto vedere dal vivo un pezzo di storia della 126 come “Tarallucci e vino”, la posse track “CXXVI”, “Caffé Illy” di Asp, “Buste Nike” di Solero – e “Ansia” di Ugo Borghetti e Massimo Pericolo.
Ecco, Massimo Pericolo. Il giovane rapper di Brebbia è stato l’unico ospite sul palco, insieme a Generic Animal, a non essere legato in qualche modo alla Love Gang. Ma è stato accolto – dai membri della crew e dal pubblico – come se fosse sempre stato uno di loro. “Fumo l’erba per l’ansia ma c’ho l’ansia per l’erba”, ha cantato, mandando in delirio tutti i presenti. A pezzo finito, dopo il bestemmione di Ugo Borghetti, ha alzato l’asticella: a petto nudo, ha fatto per la prima volta “7 Miliardi”. Sentire tutte quelle persone gridare insieme quelle parole, quello “schiaffo alla scena”, è stato come essere testimoni della nascita di qualcosa di grande, inaspettato. Come un bombardamento benigno.
Ad ergersi come una colonna in mezzo alla distruzione, però, c’è sempre stato Ketama. Con un giubbotto dei Mötley Crüe come mantello e una tuta rossa sulle gambe, ha condotto il pubblico come se fosse la sua orchestra: da “Lucciole” a “Sporco”, da “Pantani” ad “Angeli Caduti”, Kety ha creato ordine nel caos del pogo che si trovava di fronte, unico punto di riferimento per i corpi stanchi e sudati che calpestavano il pavimento del locale, e si davano una mano a risalire quando le gambe cedevano e a terra restava la schiena.
Quando sono tornato a casa mi sono reso conto che non andare sarebbe stato un errore. Il concerto di ieri sera è stata un’affermazione delle triadi che portano avanti il sistema filosofico della Love Gang: CUORE / SANGUE / SENTIMENTO. SESSO / DROGA / AMORE. Un rap viscerale, sentito. Melodioso ma greve, maledetto ma tendente al cielo. Musica che crea concerti, veri scambi tra artisti e pubblico, e non semplici – per quanto piacevoli – spettacoli.
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