Giudicare un libro (o in questo caso un disco) dalla sua copertina e dal suo titolo è spesso fuorviante, ma non sempre. Il nuovo album di Khalid, golden boy classe ’98 della scena R&B statunitense, si chiama Free Spirit. In copertina c’è lui a braccia aperte, in piedi su un van da hippy, nel pittoresco contesto di un deserto baciato dal tramonto o dall’alba. In generale questa scelta estetica non mi invoglia a cliccare play ma magari, penso, i brani non avranno niente a che fare con questo immaginario un po’ Into the Wild e un po’ Coachella.
A togliere ogni dubbio ci pensa direttamente Khalid, che al disco ha associato un cortometraggio di 46 minuti per chiarire il concept del suo nuovo lavoro. È una sorta di road movie su sette ragazzi (tra cui lo stesso cantante) che girano un’America fatta di prom, diner, falò, discussioni con la polizia e momenti formativi strappalacrime. Una specie di American Honey ripulito in cui si parla sì di ribellione e libertà, ma sempre entro i confini di un contesto orgogliosamente americano. L’ispirazione arriva quasi sicuramente dalla biografia di Khalid, che ha trascorso la sua infanzia in diverse parti degli USA per via del lavoro di sua madre nell’esercito; ma nonostante questa informazione continuo ad avere un qualche rigetto per il mondo idealizzato in cui l’artista vuole farmi entrare. Lasciando da parte i pregiudizi si arriva all’ascolto del disco e le cose non migliorano.
Free Spirit è l’album R&B perfetto per la primavera del 2019. Non c’è una singola nota fuori posto, ci sono 17 brani e dura quasi un’ora. Il problema sta però proprio nell’eccessiva pulizia delle produzioni e nella totale mancanza di scelte coraggiose, sia a livello musicale che di testi. L’unico momento in cui si avverte un tentativo di uscire un po’ dai binari è verso la fine del disco, nella cupezza di “Self”, ma quei pochi minuti non bastano a giustificare una serie di brani molto simili tra loro in cui l’estensione vocale dell’autore copre tutto il resto.
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Proprio per questo uso pesante della voce a volte è difficile concentrarsi sui beat, che però hanno come unica caratteristica particolare quella di avere delle chitarre, e direi che possiamo smettere di comportarci come se questa fosse una novità. I testi, per quanto enfatizzati dallo splendido timbro di Khalid, scadono abbastanza regolarmente nel cliché tra frasi melense tipo “we were running onto something / and we didn’t say ‘forever’, but it’s all we wanted” (“Free Spirit”) o statement sui lati negativi della fama già sentiti troppe volte, come “people only love you when they’re needing your wealth” (“Bad Luck”).
L’atmosfera del disco ricorda a tratti Nostalgia, Ultra, il primo mixtape di Frank Ocean, ma i punti in comune tra i due lavori sono solo sulla loro superficie. Quel disco partiva da un immaginario simile, ma ne affrontava la sua disillusione: non si trattava di girovagare liberi per un’America sconfinata, ma di andarsene dalla propria casa dopo che un uragano l’aveva distrutta.
Nel brano “American Wedding” (quello sulla strumentale di “Hotel California”, che ha scaturito non pochi problemi legali) Ocean attaccava i presunti sacri valori americani, non li usava come sfondo facile e acritico per parlarci delle sue emozioni: “It’s just an American wedding / They don’t mean much, they don’t last enough / We had an American wedding / Now what’s mine is yours, American divorce”. Ed è proprio dando per scontato questi elementi che Khalid ha fatto il suo primo passo falso, riportando il tempo a un ibrido tra pop e black music orecchiabile ma sicuramente meno stimolante di ciò che è stato costruito negli ultimi tempi da gente come Frank Ocean, Sampha, Blood Orange, FKA twigs o i The Internet.
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