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A8N6: Il sesto annuale di narrativa

Tre favole gangster

Tre racconti di puro caos criminale.

Illustrazioni di CF
Traduzione di Elena Viale

COMICITÀ AZZARDATA

Il comico di un nightclub sta passando una brutta serata. Alla luce polverosa dei riflettori nota un uomo grasso più vecchio di lui di qualche anno, che lo fissa con stolida indifferenza. Si porta al bordo del palco e fa una battuta su quella faccia da scemo, qualcosa sulla stazza, tipo, “Almeno uno di voi due in quella sedia potrebbe ridere, no?” Qualche risatina poco convinta. Il grassone sbatte le ciglia. Arrossisce. Fa per alzarsi, mastodontico. Il comico continua, gli dice di non preoccuparsi, che presto arriverà un muletto ad aiutarlo a tirarsi su. Qualche altra risata senza entusiasmo. Il grassone riaffonda nella sedia, fissandolo attonito.

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“Cristo che branco di cadaveri, avrei dovuto fare una funzione funebre,” mugugna tra sé e sé il comico mentre esce di scena. Il proprietario del locale lo afferra per un braccio. È color del gesso. “Lo sai di chi ti sei appena preso gioco?” fa, stridulo. Il comico, scioccato, scopre di avere appena preso per i fondelli un pezzo grosso della criminalità organizzata.

Si tiene un incontro nell’ufficio del proprietario, dove il grasso gangster è in attesa. Il comico nel suo bagno di sudore si scusa, vigliacco, dopo le presentazioni officiate untuosamente dal proprietario stesso.  Fa un po’ di autoironia spinta (gli riesce sempre molto bene). Con grande imbarazzo del proprietario, comincia anche a spogliarsi, in balia di una nuova ispirazione comica—si spoglia per la fustigazione, dice, che si merita. Il grassone interrompe la messinscena, con scarso senso dell’umorismo. “Smettila,” dice. “Puoi riparare. Domani sera do una festa. Abbiamo bisogno di comici. Ma roba buona, stavolta, non merda,” aggiunge. “Certo, certo,” fa il comico, rimettendosi frettolosamente la camicia.

La festa è fragorosa e noiosa, nella dimora terribilmente pacchiana del gangster. Il comico monta sul palco dell’orchestra e racconta barzellette per una ventina di minuti mentre i musicisti prendono fiato. “Ora siamo pari,” dice il ciccione, e dà una pacca sul braccio del comico metà scherzosa, metà no. Il comico ridacchia istericamente. “Ora va’ a divertirti,” rumina il grassone, girandogli le spalle.

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Il comico vaga tra la folla vacuo, rispondendo ai pochi cenni che gli vengono rivolti. Poi si fa da parte, e resta lì, sorridendo cupo, ingollando il suo drink. Dà un’occhiata furtiva attorno per vedere se c’è qualcuno di interessante, ma non vede nessuno. La sbronza e i nervi in pessimo stato fanno combutta e infiammano una nuova vampata di deviante ispirazione. A un tratto, inizia a borbottare incomprensibilmente, a voce alta, e quando ha abbastanza teste rivolte a sé, inizia a saltare su e giù, levandosi i vestiti, urlando, “L’ultimo che si tuffa è un rincitrullito!!” (Ovviamente, c’è una piscina, e pure bella grossa, ma la sfida è retorica.) Dentro di lui, una versione piccola e più razionale della sua mente di giullare osserva la scena, pensando, “Cosa sto facendo, sono impazzito?” Un paio di figure corpulente si fanno strada velocemente tra gli invitati confusi e pongono fine alla breve performance. Il comico si ritrova nuovamente di fronte al gangster, in una stanza privata. “Sono un mattacchiooooone, caro!” geme il comico con un ghigno allucinato, cercando di capovolgere disperatamente il clima e le prospettive in chiave comica. Deve tenere su i pantaloni con le mani, dato che ha lanciato via la cintura nel suo attimo di follia. “Questa è casa mia, e questi sono i miei ospiti,” dice il grassone, respirando pesantemente, con una palpebra che traballa. “Li hai insultati—hai insultato me.”

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È una parola che nessuno si augurerebbe di sentire da un gangster sovrappeso di mezza età con indosso un completo costoso: “insultati.” Al plurale, poi. “La prego, riparerò in qualche modo—” sputacchia il comico. “Stai scherzando,” replica il gangster, senza alcuna ironia. Scuote le mani con sufficienza e ripugnanza. “Pensateci voi,” dice agli altri nella sala, andandosene. Il comico boccheggia guardando a sinistra e destra mentre delle mani gli stringono le braccia. Si agita convulsamente, riesce a rompere la presa non si sa come, svicola in qualche modo verso la porta mentre gli altri incespicano tra il mobilio ribaltato. Si lancia per il corridoio.

Corre a perdifiato reggendosi i pantaloni con la mano, lanciando occhiate di sbieco da sopra la spalla, come un fedifrago disperato in una farsa di quart’ordine. Gira l’angolo in derapata e si schianta in un carrello del catering e inizia a dimenarsi caoticamente. Lotta per alzarsi e annaspa mentre il cameriere abbattuto al suolo lo maledice dal mezzo del macello che ha causato.

I passi alle sue spalle si fanno più vicini. Si guarda dietro, nel panico. I suoi inseguitori sono ora nel suo campo visivo, girato l’angolo. E poi sono anche davanti a lui—se ne è formato un altro gruppo. Si ferma, si gira di qua e di là. I due gruppi si fanno più vicini e poi si fermano. Il comico si rannicchia con la bocca aperta e paralizzata dal terrore. Lentamente, molto lentamente, gli omaccioni cominciano a ridere. Ridono sempre più forte. All’improvviso in mezzo a loro c’è anche il grassone, con il tuxedo avvolto intorno alla testa come un turbante. Il comico si lascia cadere al suolo, farfugliante, fa eco alle risate con un isterico ridacchiare.

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Si sveglia di colpo. Si dimena. Sta nel suo letto, nel suo triste appartamento. Si lascia cadere sul cuscino, ansimando, gemendo, scioccato. “Che sogno… che sogno…” continua a mugugnare, sull’orlo del pianto, coprendosi la faccia con un braccio.

Un dolore pungente e improvviso al polso lo limita nei movimenti. Geme. Sbarra gli occhi.

E il breve momento di allucinazione nel suo delirio finisce.

Non è nel suo letto. È su un lettino lurido. Nudo. I polsi legati alle gambe del tavolo dietro la sua testa e le caviglie legate con una cinghia. Gli fa male il cranio.

“Davvero, ti piace molto levarti i vestiti,” dice il grassone, incombendo su di lui nel suo tuxedo pacchiano. “Pensi che sia divertente.”

“Cosa—è successo?” sussulta il comico, disorientato. “Nel corridoio—loro non—tu—” La voce gli muore in gola.

Eh?” fa beffardo il grassone. “Oh,” dice. “È quel pugno in testa.”

Un’ora dopo lo caricano, incaprettato e nudo sul suo lettino, in un furgoncino, guidano fino al deserto, e lo portano in una fetida, rovente grotta spersa nel nulla. Mugugna quando fanno per andarsene. Uno degli uomini pensa che così sia sufficiente. Ma per gli altri esiste la lieve possibilità che i rumori attraggano l’attenzione di qualcuno. E quindi tornano dentro e gli mettono del nastro adesivo sulla bocca.

SOGNO ROSA

Un giovane borseggiatore fa un colpo facile. Su un autobus affollato, sfila con le sue dita da fantasma un portafoglio rosa, iperfemminile, dalla borsetta di falsa pelle rosa di una ragazza, che spicca dall’ammasso di corpi senza volto come una gomma masticata e sputata. Su una panchina del parco ispeziona il bottino. A parte pochi dollari, c’è una patente temporanea, piegata, senza foto, e un’istantanea fatta alle macchinette. Nella foto si vede una ragazza che ride. È magra e ha la pelle scura, deve avere qualcosa di asiatico. Il borseggiatore la guarda. Uno spasimo gli fa fibrillare il cuore, il duro e giovane cuore di ladro. Si chiama amore a prima vista, questo spasimo. Il borseggiatore si maledice. Alza improvvisamente lo sguardo, guarda a destra e a sinistra. È solo. Riguarda la foto. Legge il nome sulla patente, ma gli è completamente sconosciuto. Lo pronuncia lentamente, maldestramente. Arrossisce, bestemmia ancora. Balza in piedi. Il suo giovane cuore impetuoso frulla. Circa un’ora dopo è all’indirizzo scritto sulla patente, dall’altra parte della strada: una piccola casa desolata su una via desolata in un quartiere di immigrati. Guarda. Passa un’ora. Nessuno esce, nessuno entra. Poi, un’ombra sottile passa dietro una finestra velata: l’ombra di una ragazza?

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Il borseggiatore ghigna. Sputa la gomma che sta masticando. Atterra, rosa, sul marciapiede sudicio. Si passa un pettine tra i capelli impomatati. Sta per fare una cosa sconsiderata: innanzitutto, vìola la prima regola, imprescindibile, del suo decalogo, ovvero mai creare un legame pubblico tra te e l’oggetto sottratto. Secondo, chi può sapere in che situazione vive questa ragazza, posto che sia davvero lì dentro? Magari ha un fidanzato geloso e aggressivo. O un marito più vecchio e violento. Fratelli litigiosi. Un padre che sfoga il proprio desiderio represso nei confronti della figlia in facili accessi d’ira in cui inneggia alla modestia.  Ma il borseggiatore è giovane e preso nella morsa dell’amore a prima vista, ovvero nella volgare morsa della fantasia: e anche se è lesto, è pure piuttosto sciocco. Con le sue dita da fantasma toglie la foto dal portafoglio (che farà riavere alla proprietaria come un onesto cittadino) con un’ultima occhiata d’addio. Poi, con il cuore che pulsa, sogghigna. Inizia ad attraversare con noncuranza. A metà strada sobbalza; e bestemmiando si getta di nuovo indietro, disordinatamente, convulsamente.

Una macchina spunta rombando dal nulla; e inchioda a uno stop. Due oggetti si inarcano pigramente dalla fiancata che dà verso la casa e si schiantano con fragore contro la facciata. La macchina sgomma via.

La facciata della casa esplode. L’onda d’urto fa cadere il borseggiatore sulle quattro zampe, a terra. Il portafoglio rosa è a terra, luccicante, dove già gli era caduto di mano.

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A gattoni, combattendo per mettersi dritto, il borseggiatore fissa attonito le fiamme che salgono dalla porta d’ingresso distrutta, dalla finestra frantumata. Sente urlare. Delle sagome escono in fretta e furia dalla casa—un’orda di persone in fiamme. Uomini, donne e bambini dalla pelle scura urlano in strada, in fiamme, come se fossero appena stati sottoposti al giudizio universale. Il borseggiatore barcolla in mezzo a loro, guardandosi intorno, nel panico, cercando la ragazza della foto. La vede, lei si sta allontanando da lui lungo il lato della casa, le braccia vorticano caotiche tra le fiamme della pira del suo corpo. Il borseggiatore sta a bocca aperta, nell’orrore, la insegue di corsa urlando. Si lancia su di lei, la butta a terra, rotolano insieme a terra per spegnere le fiamme di lei che si contorce, bruciata, sotto di lui. Lui grida, le sue preziose mani bruciano nelle fiamme serpeggianti di lei.

I vigili del fuoco arrivano a sirene spiegate sul teatro della devastazione. Mani di dura gomma strappano il borseggiatore dai resti carbonizzati che sta cercando di salvare, lo avvolgono in un lenzuolo e lo battono, il fumo sale. (Il portafoglio giace spiaccicato sotto un camion dei vigili del fuoco.)

Il ragazzo sopravvive. Dei 40 disperati circa, illegalmente ammucchiati nella piccola casa, solo un paio sopravvivono. La maggior parte, inclusa la ragazza, no. I mandanti di questo orrore, una banda rivale di trafficanti di esseri umani, non verranno mai portati alla sbarra.

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Il borseggiatore si riprende, più o meno; ma non del tutto. Le mani ustionate sono troppo danneggiate per i magheggi di un tempo, la faccia e la testa bruciate sono troppo facili da ricordare. Si riduce a fare piccole operazioni da quattro soldi su commissione—la forma di carità del mondo del crimine, portata a termine con uno sguardo di disprezzo trattenuto, servile. Lui china la testa con il contegno inespressivo del senza speranza. Sale sull’autobus, senza una meta, senza una fine. Quando è affollato, fa vagare lo sguardo davanti a sé, perso nella morsa dei sogni antichi, oscillando sotto la pressione dei corpi incastrati tra loro che lo circondano, le mandibole malconce lavorano lentamente una gomma, rosa e senza vita.

SOTTO COPERTURA

Un giornalista investigativo si crea una copertura e si infiltra senza pensare due volte in una gang di spacciatori in un violento paese vulcanico. I capelli schiariti e l’abbronzatura artificiale depistano abbastanza, all’inizio. Poi iniziano a serpeggiare i sospetti a causa della sua scarsa dimestichezza con la lingua. Riesce a gestire la situazione, almeno temporaneamente, dichiarandosi reo, e vergognoso, di una scarsa fedeltà culturale durante gli anni in cui ha vissuto al nord. Scarsa fedeltà per cui ora desidera ardentemente fare ammenda, assicura ai suoi nuovi compagni.

La sua confessione è accolta da grugniti incerti, e poi sprofonda nel silenzio. Gli viene assegnato un compito, per provare il suo desiderio di espiazione. Qualcuno ha cominciato a creare guai per il monopolio della violenza della gang di spacciatori in una certa città. Deve finirla. “È usanza portare indietro la testa come prova,” dicono al simulatore. “Ma andranno bene anche gli occhi, o le orecchie.”

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Con questo incarico insanguinato, il giornalista investigativo sotto copertura si dirige in città sul suo lungofiume polveroso e desolato, il punto di ingresso di molta della merce della gang—nonché luogo di azione di questo attaccabrighe.

Il giornalista adesso è ben oltre quello che si era proposto, ma non osa darsela a gambe. È certo che i suoi lo stanno tenendo d’occhio. Ma teme una trappola. Anche così, dovrà aspettare il momento giusto, uno spiraglio fuggevole da imboccare. Prega che il cammino verso la via di fuga non grondi sangue e atrocità.

Una volta in città, ha qualche problema a mettere a punto un incontro con l’attaccabrighe, nel tentativo di crearsi una doppia copertura e fingersi una terza parte interessata, come avrebbe spiegato, a unire le forze contro la gang. Il bersaglio-interlocutore lo incontra nella lobby di uno sciatto albergo lontano dalla piazza centrale, o zocalo, come la chiamano. Si presenta come uno studente universitario del nord (o almeno così dice), ingenuo e onesto (sembra), qui per un progetto di ricerca etnografica. Il suo modo di esprimersi con un vocabolario limitato, scolastico, è stato interpretato male dalla gang—sembra. Cogliendo un’occasione, il giornalista gli dice che è in pericolo. Vedendo la paura crescere mostruosamente negli occhi spalancati, occhialuti, dello studente, inizia ad avere fiducia nella veridicità dell’intera situazione.

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“Oh mio Dio,” si agita lo studente. Maneggia male le informazioni, ovvero, insiste che vadano dritti dritti alla polizia o all’ambasciata. Il giornalista lo afferra per il braccio e lo rimette a sedere. Con voce bassa e alterata istruisce l’accademico in fieri sulla dura realtà di corruzione e malvagi violenti nel mezzo del quale sono incappati.

L’unica soluzione, annuncia il giornalista, con visione d’insieme, è questa: iniziare a inviare la coppia di orecchie insanguinate, la richiesta minima, e nel breve lasso di tempo in cui la gang sarà concentrata nella verifica (come esattamente si svolgerà la verifica non è chiaro) loro ne approfitteranno per involarsi via fiume fino alla costa con un motoscafo rubato. (Noleggiare o corrompere qualcuno, in questo caso, è troppo rischioso.)

“Le mie orecchie?” balbetta lo studente universitario. “E perché le mie? Perché non quelle di qualcun altro? Perché non le tue?”

I due inesperti parlanti della lingua si lasciano trascinare in una fitta, macabra discussione bisbigliata. Alla fine il giornalista investigativo, ringhiando, tira fuori una moneta. Lo studente universitario fa la sua scelta piagnucolando: “Testa.” Spalanca gli occhi. Il giornalista acciuffa la moneta e la batte sul polso e, mugugnando una preghiera, la mostra. Grugnisce. “Gesù, mi dispiace,” dice lo studente. Non gli interessa nemmeno nascondere un sorriso di gioia e sollievo.

Il brutto affare è deciso per quella notte, nella stanza dello studente in una casa studentesca, una posada, come la chiamano, dietro l’angolo. Il giornalista esce a comprare un coltello adatto e tutto il necessario. Questa commissione terrà lontano gli occhi indiscreti dal comprendere la doppiezza della sua azione. Il giornalista, stordito, si sente come vivesse in un sogno perverso, una vivida allucinazione di paranoia e paura e azioni eccessivamente primordiali.

Arriva l’ora della resa dei conti. Nel giornalista investigativo il risentimento verso il fato avverso brucia sempre più acuto. Perché non dovrebbe essere lo studente universitario a soffrire di quella ingiustizia, secondo il piano iniziale, dal momento che si sta salvando la testa grazie a lui, al giornalista? Chi se ne frega se lo studente universitario non ha colpa degli impicci in cui lui si trova?—anche se la sua ingenuità e scarsa conoscenza della lingua hanno sicuramente qualche responsabilità.

Il giornalista annuncia i pensieri al suo ospite spaventato, che aspetta nella sua stanza con una pila di asciugamani e una bottiglia di acquavite locale. Lo studente universitario protesta affannosamente, insiste che un patto è un patto. Alla fine si accordano, entrambi daranno un orecchio. La carne sacrificata sarà troppo insanguinata perché la riconoscano come appartenente a persone diverse. Tracannano. Lo studente universitario, che trema d’angoscia, insiste per essere il primo a tagliare. La lama del coltello (per spinare il pesce) trema a tal punto in mano sua che il giornalista improvvisamente la afferra, per tenersela lontano dagli occhi.

Esattamente come prima, i due aspiranti fuggitivi sono immobilizzati in una battaglia mortale. Un fischio di una vaporiera stride da qualche parte sul fiume limaccioso. Lo studente universitario perde la presa del coltello e cade goffamente sul ginocchio ossuto. Il giornalista ringhia e lo accoltella. L’altro emette un grido e si tira indietro carponi sul pavimento, perdendo gli occhiali. Il sangue gli cola tra le dita, riempiendogli la faccia. Il giornalista rantola e poi selvaggiamente balza in avanti e accoltella ancora, a sinistra e a destra, la testa dello studente universitario, tra flotti di sangue e gemiti. Raccoglie i macabri pegni dove sono caduti e vacilla all’indietro. Lo studente universitario guaisce e si dimena come un animale torturato. Il giornalista abbandona il coltello, scatta verso la porta, la spalanca, e corre fuori.

Lo prendono sul lungofiume, in stato confusionale, mentre cerca di chiudere meglio il cartoccio di giornale in cui ha chiuso le orecchie. Lasciano il pacchetto accanto al suo corpo, sbeffeggiandolo con parole che non avrebbe mai capito, mentre tornano alle luci soffocanti della città.