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A9N6: Il settimo annuale di narrativa

Una maestra e la sua allieva

Un'intervista a Marilynne Robinson sul significato dello scrivere, insegnare e amare la letteratura americana.

Illustrazioni di Denise Nestor.

Marilynne Robinson teneva il quarto e ultimo laboratorio a cui ho partecipato allo Iowa Writers’ Workshop. È una presenza intellettuale potente e un po’ intimidatoria—una volta ci ha detto che per migliorare la resa della caratterizzazione dei personaggi, avremmo dovuto leggere Cartesio.

Quando le ho chiesto di firmarmi una copia di Gilead, mi ha detto di essersi appassionata di recente all’antica scrittura cuneiforme. Ma è anche generosa e divertente— quando ci ha invitati a casa sua a cena, e io ho chiesto se dovessimo portare qualcosa da mangiare, ha risposto, “O forse farò apparire pani e pesci!” ed è scoppiata in una risata.

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Dopo aver conseguito la laurea di secondo livello a maggio, ho lasciato la Iowa con la convinzione che non esista un modo per imparare a scrivere, a raccontare una storia. Ma non si può d’altra parte negare che Marilynne mi abbia reso una scrittrice migliore. Le sue richieste sono finte richieste semplici: essere fedeli alla coscienza umana e onorare la complessità della mente e la memoria. Marilynne ha detto in qualche intervista che non legge molta narrativa contemporanea perché ne andrebbe troppo del suo tempo, ma sospetto che sia perché impiega buona parte delle sue facoltà mentali per stare dietro ai suoi studenti.

La nostra intervista ha avuto luogo uno degli ultimi giorni del semestre primaverile. Le residue tracce dell’arduo inverno erano scomparse, e la luce riempiva la classe, che ora, con noi due sole dentro, sembrava vuota. I miei due anni alla Iowa erano finiti, e con un po’ di egoismo volevo tirare l’intervista più in lungo possibile.

VICE: Poco tempo fa hai detto ai tuoi allievi che hai scoperto il finale del tuo nuovo romanzo—o almeno così speravi. Come funziona, per te? Come lo sai?
Marilynne Robinson: Gran parte dell’esperienza delromanzo—dopo l’inizio—è essere nel romanzo. Ti metti alla prova con un problema complesso. Se è un buon problema o uno che ti mette davvero in discussione, il cervello continua a lavorare, tutto il tempo. Un romanzo, per sua stessa natura, è nuovo. La grande sfida, conscia o inconscia, è assicurarsi che sia nuovo. Che sollevi davvero delle problematiche che valga la pensa affrontare nei termini che tu stabilisci. Non sono termini che hai trovato da qualche altra parte. È un po’ come comporre musica. Ci sono opzioni che si aprono e strade che si chiudono, a seconda di come sviluppi le linee guida. Ci pensi col tempo, nel tempo. E poi compare qualcosa, qualcosa che è la risposta più elegante alla domanda che ti sei fatta. E quella risposta assorbe la maggior parte della complessità che hai creato.

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Mi ha molto colpito quando hai detto che dobbiamo “fidarci della visione periferica delle nostre menti.” Funziona un po’ come un muscolo che si sviluppa allenando altre parti del corpo.
Si cerca di andare per analogie. Penso che sia simile alla meditazione—che non ho mai praticato. Ma da quello che so, è una capacità che si sviluppa e le persone che la praticano riescono ad avere accesso ad aspetti della coscienza che altrimenti non sfiorerebbero neanche. Vengono a contatto con esperienze enormi e prepotenti. Penso che con l’introspezione, che è una disciplina anch’essa, puoi avere accesso a una parte molto più estesa delle tue facoltà consce di quanto avresti altrimenti. Le cose ti vengono in mente, ecco tutto. La tua mente poi seleziona—questa mente più profonda—con criteri diversi della tua mente “front office”. Ti ricordi magari che, una volta, da qualche parte, hai visto una persona, sola, e il modo in cui stava in piedi ti ha suggerito un intero universo narrativo intorno a essa. E non ci hai mai parlato, non la conosci, non sei mai stata a meno di tre metri da lei. Ma nondimeno ti rendi conto che la tua mente la preferisce alla Tour Eiffel, a cose così. E questo ha una piacevole conseguenza: l’esperienza più ordinaria può diventare la più preziosa. Se sei vigile in senso filosofico non hai bisogno di cercarle, queste cose.

In un certo senso, sembra più difficile. Come cercare di sembrare belle senza trucco.
In alcuni casi è più difficile che in altri. È difficile. Onestamente, credo che molte persone pensino che se una persona è bella senza trucco, allora sia più realmente bella di come sarebbe se fosse bella con del trucco. Anche se è una questione difficile già di per sé. Se fosse semplicemente una cosa da imparare, se fosse come fare il giocoliere, cose così, sarebbe un conto. Ma è piuttosto cercare un modo di penetrare nella tua vita che si spinga più in profondità di quanto non andresti. Considera questa esperienza incredibilmente breve, incredibilmente strana, che viviamo noi, creature ipersensibili, su un piccolo pianeta nel bel mezzo di quello che somiglia pericolosamente al nulla. È assegnare il valore appropriato all’unicità della nostra situazione e a ogni situazione individuale.

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Come possiamo noi—i tuoi studenti—migliorare come scrittori?
È difficile rispondere senza sembrare normativi, ma penso che ci sia una certa riluttanza da parte di tutti gli scrittori alle prime armi a credere davvero che i propri interessi si fi ssino su cose che sono realmente interessanti. A capire che non devono per forza parlare nello stesso gergo che sentono parlare intorno a loro, in termini di convenzioni letterarie e tutto il resto. Una cosa che dico a volte, e a volte credo anche, è che è andato perso il culto del genio. Quando ero più giovane, mi ricordo che restavo abbagliata dal fatto che gli altri potessero essere dei geni o in grado di esprimere il proprio genio in ogni modo. L’idea che una persona possa fare una cosa stupefacente è molto potente e ha regalato al mondo un sacco di cose interessanti, un sacco di esempi da cui prendere spunto. È un effetto collaterale del culto della normalità—l’idea che sarebbe assurdo e magari anche sgradevole essere unico e diverso. Penso che sia anche il motivo per cui un sacco di chincaglierie siano considerate “creative” quando, in realtà, sono tanto asservite quanto obbedienti alla norma prevalente come qualsiasi altra cosa.

Diceva Malcolm Gladwell che se passi 10.000 ore a fare qualcosa, diventerai bravo a farlo. O almeno, abbastanza bravo.
Lo standard “abbastanza bravo” non è propriamente desiderabile.

Volevo chiederti di alcuni dei tuoi studenti più recenti, come Ayana Mathis o Paul Harding. Ogni anno, qualcuno che frequenta il tuo laboratorio ti prende come mentore per il suo sviluppo intellettuale.
Una cosa bella di questo programma è che gli studenti possono scegliere il proprio mentore. Io vado bene per alcuni studenti, e pertanto devo presumere che non vado bene per altri. È questione di affinità. Qualcosa che preesiste negli scrittori più giovani e che li spinge a cercare un certo tipo di guida. La mia esperienza quando ero una laureanda mi ha insegnato che la cosa più importante nella mia preparazione è stata l’approvazione giunta in un contesto di forte selezione. Davvero, crudamente, scoprire cosa fai bene, e con la stessa realistica crudeltà scoprire cosa fai male. Cerco di avvicinarmi a questo ideale il più possibile. So che ogni bravo scrittore ha qualcosa che lo distingue nettamente. Significa che se vuoi che i tuoi studenti si sviluppino e diventino i bravi scrittori che sono in potenza, ci sono dei limiti netti a quanto puoi mettere mano nel plasmarli.

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Quanto era diversa la situazione quando ti sei laureata tu, nel 1966?
Era piuttosto strana. Ero alla Brown. Pembroke era essenzialmente un campus residenziale. Tutti i miei corsi erano alla Brown, la laurea l’ho presa alla Brown. Pembroke era essenzialmente, a guardarlo dal lato positivo, un training d’élite per le ragazze, che non era una cosa così facile da trovare, allora. Se invece guardi i contro, era un pretesto per assicurarsi che la percentuale di ragazze rispetto ai ragazzi fosse molto bassa. L’altro lato della medaglia era che a Pembroke c’erano molte donne incredibilmente brillanti, perché essere ammesse era davvero arduo. La Brown, come le altre università, aveva una schiacciante presenza maschile. Non c’erano insegnanti di scrittura donne. Il mio dormitorio era una specie di convento. Queste situazioni hanno sempre due facce—le persone andavano su tutte le furie per una porta che sbatteva. Era un ambiente quieto e serio, a livelli estremi. Il che calzava a pennello con le mie inclinazioni naturali, ed era l’atmosfera perfetta in cui studiare. C’erano anche dei vantaggi a fianco agli svantaggi, ma di sicuro non li compensavano. Vivevo un momento di transizione. Gli insegnanti erano uomini. Tutti i miei insegnanti erano uomini. Alle lezioni di scrittura, per esempio, non mi sono mai sentita trattata in modo diverso, o nessuna delle mie compagne lo era, e ho ricevuto quello che mi è sembrato un autentico incoraggiamento, e consigli eccellenti.

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Quando frequentavo il tuo laboratorio, il corso era su Faulkner, Melville e sull’Antico Testamento. Una parte di me è riluttante a farti questa domanda, perché sospetto che tu non pensi secondo le caselle di genere, ma sono curiosa di sapere, ci sono scrittrici che ammiri?
Emily Dickinson. Ma in parte è solo un portato del periodo in cui sono immersa. Emily Dickinson è una poetessa di primissima categoria, senza discussioni. È una cosa strana—c’erano altre scrittrici nel Diciannovesimo secolo, molto amate. Molto più famose della Dickinson, non che fosse difficile. Lydia Sigourney, per esempio. Mai sentita nominare, vero? La citavano come fosse Shakespeare. Era molto importante. Come molti scrittori del periodo, era una convinta abolizionista. La adoravano come una divinità. Ho molte raccolte di poesie sue, e davvero non capisco cosa ci trovassero di buono. Davvero vorrei poter dire che ha avuto una grande risonanza allora, ma tutto quello che posso presumere è che ci sia una qualche musicalità nella sua poesia che io non colgo. Rufus Griswold ha fatto un’antologia di poesia americana, The Poets and Poetry of America. E sono tutti uomini, anche se nell’introduzione parla anche delle scrittrici americane dei primordi. Ma ha anche fatto un’antologia gemella, The Female Poets of America. Io ce l’ho. Non è lunga come l’altra, ma è un bel librone. Un sacco delle poesie sono scritte in stile tragedia greca, che, francamente, non trovo fruibile. Molti nemmeno sanno che Rufus Griswold abbia fatto un secondo volume, così considerano solo la storia della poesia maschile. Il fatto che abbia fatto due volumi accerta che le donne erano attive in poesia, e riconosciute come poetesse. Mi piacerebbe essere sensibile alla questione. Ma sinceramente, come che sia andata, quelli del Diciannovesimo secolo che mi piacciono sono in stragrande maggioranza uomini.

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Cosa ti piace così tanto del loro modo di scrivere?
Mi piace la loro generosa ampiezza. Mi piace la scala su cui pensano. Insomma, io ho scritto libri che si intitolano Housekeeping e Casa. È il motivo per cui amo Emily Dickinson. Puoi guardare le cose, per quanto minutamente, e capire che sono una metonimia per il cosmo. Ma se quello che ti interessa sono davvero le cose nella loro piccolezza, quella per me è una sorta di prigionia, una tremenda prigionia. Non lo sopporto. Non mi piace il romanzo di costume. Se non si apre a qualcosa di più grande, mi viene quasi subito la claustrofobia.

Che cosa nel nostro modo odierno di pensare ti lascia perplessa?
Penso che un sacco delle spinte del Diciannovesimo secolo, che a buon diritto potrebbero essere dette “democratiche”, siano tramontate. Questo mi destabilizza. I movimenti tettonici sono sempre molto complessi. Ma penso che un sistema progressista sia minacciato quando la sua concezione dell’individuo si restringe. È molto difficile rispettare i diritti di qualcuno che non rispetti. Penso che siamo quasi riusciti ad avere una visione cinica delle altre persone. Quando mi lamento dello scientismo, mi lamento in primo luogo del riduzionismo che vuole le persone tutte piccole e tutte semplici. Che il movente delle loro azioni, se ne fossi a conoscenza, non aggiungerebbe alcun valore. È così brutto. E così contrario al meglio del meglio che abbiamo cercato di creare nella storia della civiltà e così coerente con il peggio che abbiamo creato come civiltà.

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Questa rivista si chiama VICE, quindi potremmo parlare di vizi. Ne hai qualcuno?
È molto strano, perché se guardo obiettivamente alla mia vita mi sembra di aver fatto un buon lavoro. L’impressione che ho più costantemente di me stessa è di essere lassista. Mi dico, “Be’, è solo il mio coscio profondo.” Ricordo che una volta leggevo ipotesi sul perché le creature viventi debbano dormire. Quella che mi aveva impressionato era di uno scienziato che diceva, “Tiene l’organismo fuori dai guai.” Così, ogni tanto mi siedo sul divano pensando, sto tenendo il mio organismo fuori dai guai. Mi faccio coinvolgere in cose che richiedono un carico di lavoro assurdo. E ovviamente, comparo in continuazione quello che faccio a quello che mi ero prefissata di fare. Altri vizi—non devo avere macaron in casa! Sono una creatura piuttosto priva di vizi, come si definiscono convenzionalmente queste cose. D’altra parte, uno dei motivi per cui mi sono avvicinata al calvinismo è che posso sempre trovare vizi nei posti più inaspettati.

Cos’è un vizio, secondo te?
Non ne ho idea. Credo sia quando il risultato è inferiore alle attese. Alla base c’è il fatto che hai qualcosa di buono da dare e non lo fai.

Cosa fai per essere buona?
Cerco di scrivere bene. Cerco di tenere fede agli impegni e agli appuntamenti. È una cosa buffa, perché la mia vita è così piena dei problemi in cui mi impegolo, narrativi o meno, che è come se di tanto in tanto facessi un salto nel mondo reale. Per quel poco che ci interagisco, cerco di fare in modo che l’interazione sia positiva. Ma mi rendo conto di essere fuori dalla massa per molti versi, semplicemente per le mie scelte, che non sarebbero soddisfacenti per tutti, ma a me vengono naturali e sono strettamente legate al mio lavoro di scrittrice. Non credo che la mia nozione di bontà sia incredibilmente non convenzionale. Non fare del male—questa è la regola numero uno.

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Faccio una piccola digressione, ma parliamo comunque di lavorare bene: a volte in classe ci facevi notare un problema fondamentale di una storia: la storia può perdere la testa. Noi la chiamiamo “la ghigliottina”.
È un aspetto di me stessa di cui non ero a conoscenza!

A livello intellettuale, è come se togliessi la base della storia e tutto il sistema crollasse.
È un’esperienza educativa.

È spaventosa! Ma mi piace, perché mi spinge a scrivere una storia migliore. E quando succede, anche su piccolissima scala, penso che anche nel momento stesso in cui hai completamente confutato le sue premesse, è evidente che non giudichi l’allievo sulla base dei suoi errori. 
Ho il più profondo rispetto per la narrativa come idea. Deve avere un certo grado di integrità. È una cosa fondamentale. È la radice da cui cresce tutto il resto. Spero che le persone a cui insegno imparino a essere molto critiche verso le proprie premesse. A richiedere l’onestà da se stesse. Se c’è una cosa di cui sono grata, è di tenere un corso dove non si danno voti. È assolutamente ridicolo. Uno può fare un errore di dimensioni abnormi un giorno ed essere incredibilmente brillante cinque anni dopo. Non ha nessun senso dire che questo fallimento importa in modo assoluto o che sia indicativo di qualcosa al di là del fallimento in sé. Ricordo di avere parlato della tendenza della società a esporre i giovani a tutte le cose che tradizionalmente non è affar loro conoscere, per poi trattarli come se fossero corrotti o cinici per il fatto che conoscono cose che non possono fare a meno di conoscere. Inoltre, le culture variano moltissimo sulla base di cose come queste. È il valore assoluto dell’essere umano che non deve essere dimenticato. Penso perciò che chiunque voglia dare dei giudizi stia agendo sulla base di presupposti errati.

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Hai mai paura che non scriverai più?
Quando andavo al college, avevo in testa questa idea che ero una scrittrice, con una quantità irrisoria di prove per documentarla. È sempre stato importante per il mio senso di me stessa. Ovviamente, ora che ho sullo scaffale un certo numero di libri col mio nome stampato sopra, posso dire di esserlo. Ma mi interesso a un sacco di cose. Se avessi la possibilità di passare il resto della vita solo a leggere o a pensare a quello che ho letto, lo considererei molto soddisfacente.

Com’è la tua giornata ideale?
Ahah! Rara. È una giornata in cui nessuno vuole niente da me—niente di niente. Allora posso sedermi sul divano e occuparmi di un paragrafo fi no a pranzo. E poi risedermi sul divano e occuparmi dello stesso paragrafo fi no a cena. A volte mi piace occuparmi del mio trascurato giardino. Tutto qui. Di solito ho uno o due libri da leggere. Uno o due libri che sto scrivendo. Mi piace stare a casa e tenere addosso i vestiti consunti.

Anche a me piace, ma poi divento claustrofobica e devo vedere della gente.
Sì, be’, probabilmente hai una personalità più sana della mia.

Ma ti invidio! Mi sembra che sia parte del successo di uno scrittore.
Di sicuro aiuta. Penso sia indiscutibile. Ma ci sono anche quelli che scrivono in caffetteria, per dire.

Sono sicura che non molti vogliono vedermi in accappatoio!
L’accappatoio è un’invenzione eccezionale.

Penso sia giunto il momento di un po’ di VICE DO e DON’T, ma nel campo che ti compete. Giovanni Calvino: DO o DON’T?
DO! Se le opzioni sono queste, che altro posso dire?

Freud: DO o DON’T?
Credo sia importante leggere tutti gli scrittori che hanno avuto una certa influenza. Di sicuro Freud l’ha avuta. Leggilo! Ricordati solo che è uno strano prodotto di uno strano frangente storico. Incredibilmente influente.

Trascendentalisti americani? DO o DON’T?
Assolutamente DO!

William James?
Sì. Sicuramente DO.

Spiegami lui, in particolare, perché DO?
William James arriva in profondità nella coscienza umana, in un modo che ammiro moltissimo. Quando entra nella coscienza del personaggio è magnifico. Ancora e ancora. Ha quel genio particolare di alcuni scrittori del Diciannovesimo secolo, di riuscire a essere brillante e contemporaneamente non pretenzioso. Tutta la tradizione—be’, non è solo che ammiro la tradizione come tale, ma mi sembra di avere imparato ad amare l’esperienza della coscienza da questi scrittori. E forse è il regalo di maggior valore che qualcuno mi abbia mai fatto.

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