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I millennial italiani hanno perso la speranza nel futuro

Stando a quanto dice Renzi, il 2015 è stato l'anno che ha segnato un'inversione di tendenza, in positivo. Ma la crisi economica ha fatto crescere una generazione di adolescenti molto diversa dalla nostra.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Foto di

Giorgi Nebieridze.

Fra meno di un mese la più grande delle mie sorelle compirà 16 anni. E oltre a lasciarmi immensamente basito per il fatto che sto invecchiando a una velocità che non ritenevo possibile, questa realtà mi dà modo di vedere coi miei stessi occhi qualcosa che chi non ha modo di interagire con adolescenti nati dopo il 2000 non realizza: non sono come eravamo noi.

Uno dei ricordi più persistenti che possiedo degli anni del liceo è il tanfo di tutte le velleità artistico-umaniste di una generazione cresciuta dai ventenni degli anni Ottanta che si stipavano in un edificio pubblico. Il 70 percento (come minimo) dei miei compagni, compreso me, sognava di scrivere, di suonare, frequentava un corso di teatro; voleva studiare lettere moderne, filosofia o addirittura storia. E soprattutto dava per scontato, proprio d'emblée, che avrebbe avuto a disposizione un reddito per supportare tutte queste cose.

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Alle mie due sorelle (nate rispettivamente nel 2000 e nel 2002) e ai loro amici non frega assolutamente un cazzo di queste cose. E non frega per il semplice fatto di essere pienamente, e smaliziatamene, consapevoli dell'irrimediabile indigenza economica a cui andrebbero incontro sognando di pubblicare un romanzo epistolare per minimum fax o a campionare il suono dei propri movimenti nel sonno per rinnovare la musica elettronica. Questa tendenza alla consapevolezza è dilatabile a molti altri paesi oltre che all'Italia, e dipende da molti fattori.

Ma nel caso specifico di questa analisi, il fattore che va sottolineato—e che ha dato vita al suddetto mutamento generazionale—è il grande evento che è intercorso fra gli anni in cui ho frequentato il liceo (primi Duemila) e oggi: la crisi.

Se la generazione delle mie sorelle ha appreso in modo naturale e quasi scontato come si sta al mondo in questa nuova realtà post-crisi priva di certezze e di speranze troppo sostanziose, è soprattutto grazie al "sacrificio" della nostra, l'ultima in ordine temporale a covare sogni di benessere esosi e in crescita uniformemente accelerata e costante, e la prima a scoprire in modo cruento che questi sogni non solo non si sarebbero avverati nella realtà, ma che non erano nemmeno più pensabili.

I nati fra il 1980 e il 1990 (rimanendo corti nella forbice generazionale) sono stati i primi a sbarcare sulla spiaggia di Omaha e scoprire in modo empirico come fra loro e delle mitragliatrici tedesche MG42 ci fosse solo un lembo di sabbia completamente sgombro e privo di ripari.

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Tutte queste velleità e la completa ignoranza circa il proprio destino erano figlie di un periodo storico, il ventennio berlusconiano, di cui ancora non si è pienamente in grado di valutare l'impatto culturale. Il berlusconismo (e il sincretismo quasi meccanico del contro-berlusconismo) ha rappresentato una bolla di ovatta che oltre alla strana e irreale idea di benessere suscitata in gran parte del paese è stato in grado di isolare per un tempo prolungatissimo gli italiani da quello che accadeva al di fuori della sfera d'interesse di un vecchio miliardario con l'ego ipertrofico.

Poi, di colpo, è finito tutto.

Le dimissioni di Berlusconi e l'avvento del governo tecnico Monti sono stati, almeno nei miei ricordi, una specie di esplosione cambriana al contrario. Hanno dato vita a una nuova razza, obbligata a scendere a patti con una recessione epocale dopo che per anni era stata allattata da aspettative e patrimoni accumulati.

Ovviamente la crisi economica reale era già iniziata da tempo, ma quello strappo politico/culturale ha avuto un impatto emotivo decisivo: a quel punto era irreversibilmente vero che i giovani italiani dovevano ricostruire il proprio immaginario dando per scontato che, in molti casi, tutti gli eventuali sforzi messi in atto per costruirsi un futuro non sarebbero stati sufficienti nemmeno a riconquistare il tenore di vita che i loro genitori avevano ereditato quasi come una conseguenza evolutiva.

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I quattro anni che sono passati da quel novembre del 2011 in un certo senso sono stati più intensi e lunghi dei dieci che li hanno preceduti: un tunnel di neutrini del CERN in cui il paese, e un'intera generazione, sono cambiati in modo netto e in cui hanno rimbalzato a una velocità troppo rapida per la comprensione centinaia di VAFFANCULO urlati in piazza, rivoluzioni radicali della sinistra italiana e dinamiche europee e bancarie con cui tutti hanno imparato ad avere anche solo una minima (e fino ad allora impensabile) confidenza.

Appena un mese fa, durante il discorso di chiusura della sesta edizione della Leopolda, Renzi ha dichiarato che finalmente il Jobs Act sta dando i suoi primi risultati e che l'occupazione è in crescita. Insomma, che le cose in qualche modo pare si stiano minimamente sistemando.

Ora, al di là del mero valore statistico (reale o irreale poco importa) delle affermazioni di Renzi, l'inizio del 2016 mi sembra comunque l'occasione per celebrare la stabilità della situazione "emotiva" della nostra generazione: ormai abbiamo assorbito in pieno il fatto che la sicurezza è un lusso, e che studiare una roba per poi fare tutt'altro nella vita è una cosa normale. Che dobbiamo rinunciare a molte delle cose che i nostri genitori davano per scontate, e soprattutto (cosa a cui non si dà il giusto risalto, secondo me) che dinamiche su cui non abbiamo nessun potere (sia come singoli che soprattutto come nazione) possano scombinare tutto da un momento all'altro.

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Lo scorso Natale è stata la prima volta che le mie sorelle hanno partecipato a un "pranzo di famiglia" non più come bambine ma come individui che si stanno affacciando all'età adulta. E quello che mi ha più colpito è stata la distanza fra le impressioni di mio padre, cresciuto e diventato adulto in un'Italia in cui il termine possibilità aveva solo connotazioni positive insieme a quelli di lavoro e impegno e la strana unione da commilitoni che si era creata fra mio fratello, me, e le mie sorelle (con dati anagrafici che spaziavano dal 1984 al 2002).

Eravamo ormai tutti consapevoli dell'ecosistema socio-economico in cui si svilupperanno le nostre vite in futuro, e c'era un'accettazione quasi stoica e totalmente assimilata. Una delle mie sorelle a un certo punto ha detto in modo del tutto naturale che sapeva "benissimo che non mi potrò permettere di comprare una casa neanche lontanamente simile a quella in cui abitiamo ora." Per come la vedo io, questa consapevolezza è quasi un punto d'onore.

È giunto quindi il momento, secondo me, di prenderci un attimo di celebrazione riflessiva per il fatto che dopo tutto questo tempo i "giovani della crisi" hanno fatto finalmente la buccia allo scoglio contro cui si sono frantumati tutti i sogni e le velleità pre-2007. Non è più così doloroso, pensateci.

E uno dei risultati più netti è proprio il fatto che le generazioni successive alla nostra sembrano già predisposte per affrontare questa realtà, tornando al discorso dell'adolescenza smaliziata delle mie sorelle. Siamo riusciti a far loro assorbire, attraverso l'esempio vissuto, il mantra che un mio stimatissimo collega anni fa aveva messo in calce al proprio blog con grande lungimiranza: "Coraggio, il meglio è passato."

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