Musica

"Non capisci chi stai vendendo e chi sei tu": abbiamo incontrato uno psicologo per musicisti

Che cosa fa la fama alla mente degli artisti? E l'uso di Instagram? È ok parlare di Xanax e depressione nei testi? L'abbiamo chiesto a uno psicologo per musicisti italiano.
Simone Zagari
Milan, IT
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Nell’ultimo anno mi sono ritrovato spesso a scrivere articoli su artisti che utilizzano la musica per parlare delle proprie difficoltà, del loro essere comuni mortali, proprio come noi. Non è stata una scelta mirata, semplicemente è successo, probabilmente sotto la guida del mio inconscio e dei miei gusti. Una decina di anni fa tutto ciò sarebbe stato impensabile perché i rapper erano troppo occupati a fare i grossi, mentre quelli che scrivevano le proprie debolezze si contavano sulle dita di una mano.

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Oggi, invece, l’industria sembra aver preso una nuova direzione: la salute mentale non è più un tabù e gli artisti non si vergognano a mostrare le proprie ferite, anche e soprattutto se—come Marracash, Salmo e Ghemon, per citarne solo alcuni—parlano a un pubblico enorme. Vengono intavolati sempre più discorsi riguardo l’uso e l’abuso di sostanze, la terapia, la salute mentale. E anche in Italia, ora, è nata una realtà che vuole dare supporto mentale a chi lavora con la musica.

Si chiama Restart e la presenteremo a Milano venerdì 22 novembre alle 15:00 all’interno di Linecheck Festival, con tre delle ragazze che l'hanno fondata e lo psicologo per musicisti Federico Buffagni. Proprio con lui abbiamo deciso di fare una chiacchierata per iniziare ad indagare il rapporto che lega musica e terapia.

Quando mi è stato proposto di intervistare “uno psicologo per musicisti” ho subito accettato con entusiasmo, ma due secondi dopo mi sono ritrovato a pensare “uno psicologo per musicisti?!”. È innegabile che la tua sia una specializzazione molto settoriale, oserei dire inusuale, almeno in Italia.
Federico Buffagni: Io sono uno psicologo, ma anche un musicista laureato in conservatorio. Da quando ho iniziato a esercitare, ho cominciato a propormi nell’ambito musicale tramite i contatti che avevo instaurato in conservatorio. Ho fatto workshop, lezioni di sensibilizzazione sul tema, ma il grosso del mio lavoro è rappresentato dai classici colloqui individuali di terapia. Da settembre di quest’anno sono entrato a far parte del team di Restart.

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Ecco, parlami di Restart.
Restart nasce dall’idea di Flavia Guarino che ha contattato Michela Galluccio, una neuropsicologa, Azzurra Funari, una psicologa che adesso si occupa di comunicazione, e me. In Inghilterra Flavia ha conosciuto Music Support, una rete di sostegno psicologico per musicisti e operatori nell’industria musicale, e ha deciso di provare a fare qualcosa di simile in Italia. Qualcosa del genere qui da noi non esiste. Ci piacerebbe estendere la nostra presenza in quante più regioni possibile, creando sedi fisiche in cui gli artisti, magari in tour, possano trovare aiuto. L’altro obiettivo è quello di fare sensibilizzazione sul tema per fare in modo che l’industria musicale, proprio come ogni altro luogo di lavoro, inizi a preoccuparsi della salute dei propri lavoratori.

Ma con Restart parliamo solo di musicisti o di industria musicale in generale?
No, giusto, parliamo di industria musicale in generale. È ovvio che i soggetti che ricoprono posizioni a qualsiasi livello, sia nel mondo della musica come in qualsiasi altro ambito, possano avere bisogno di assistenza psicologica.

"Lo stereotipo vede la musica considerata solo come un simpatico passatempo, mai come un vero lavoro. 'Ma di cosa ti lamenti tu che in fondo non lavori?'"

Presumo che la gente si stranisca ancora al pensiero che i musicisti, ma più in generale le persone famose, possano avere bisogno d’aiuto. Sai i classici luoghi comuni del successo, del non far fatica, del fare il lavoro dei sogni.
Esattamente. E questo si ricollega allo stereotipo della musica considerato solo come un simpatico passatempo, mai come un vero lavoro. “Ma di cosa ti lamenti tu che in fondo non lavori?” Questa però è ignoranza, un parlare senza conoscere le dinamiche interne dell’industria.

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Quali sono i pattern che vedi nelle persone che lavorano nell'industria musicale?
Personalmente ho avuto a che fare più con gli artisti. Ho incontrato figure dell’industria, organizzatori di eventi e gestori di locali, che mi hanno chiesto aiuto in generale nella loro vita e durante la terapia abbiamo capito che il lavoro rappresentava una delle criticità. Parliamo della difficoltà nel far combaciare i ritmi lavorativi con quelli di una vita normale, di trovare del tempo libero, sino alla paura per il futuro e la sua instabilità. Per i musicisti è un po’ diverso, perché loro identificano da subito le difficoltà nella professione stessa.

E quali sono allora i pattern che vedi negli artisti con cui lavori?
Può sembrare un paradosso, ma gli artisti soffrono tantissimo il proprio rapporto con la musica stessa; ed è un grosso problema, perché quello è il loro mestiere. C’è chi soffre l’ansia da palcoscenico, chi abusa di sostanze, chi soffre della sindrome dell’impostore…

"Può sembrare un paradosso, ma gli artisti soffrono tantissimo il proprio rapporto con la musica stessa; ed è un grosso problema, perché quello è il loro mestiere."

Con che musicisti hai a che fare tu? Che genere fanno?
Ho un ventaglio abbastanza trasversale in questo senso. Lavoro molto con musicisti classici, avendo fatto il conservatorio e avendo stretto molti contatti là, ma essendo anche specializzato in ambito adolescenziale ho spesso a che fare con rapper e aspiranti tali.

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Presumo che i diversi generi musicali comportino diverse problematiche.
Assolutamente sì. Prendiamo un esempio classico come l’abuso di sostanze. Un musicista classico solitamente le utilizza per placare l’ansia da palcoscenico, che è la base di partenza dei problemi. Il rapporto di un rapper con le sostanze è completamente diverso. Ma perché è diversa la vita, il contesto socioculturale da cui proviene, la sua adolescenza. Anche il fatto di essere approdati al rap non è un caso. Il genere che si fa ha una fortissima compenetrazione con chi si è.

E anche la fama penso giochi un ruolo fondamentale in questo, no?
Dipende. Io non ho avuto a che fare con personaggi iper-famosi, ma lavoro tuttora con artisti che hanno raggiunto un livello di fama tale da cambiargli lo stile di vita. In questo caso il successo è qualcosa di complicatissimo da gestire, ed è qualcosa da mettere in rapporto alla fase della vita in cui capita. Se arriva quando si è adolescenti è un problema, o almeno è più facile che lo diventi. Più che altro mi sembra che tutti desiderino ardentemente questa fama, perdendo però di vista il tramite con cui si cerca di raggiungerla, ossia la musica. L’idea che ho è che spesso i ragazzi puntino a fare delle canzoni non ottime, ma solo decenti quanto basta, per poi focalizzarsi maggiormente sull’immagine e sulla creazione di un personaggio che possa essere spinto in una certa maniera. In definitiva, per assurdo, il successo in sé conta più della musica che uno fa. Quando però c’è l’incontro con l’industria vera e propria, con un mondo un po’ più professionale, le sfere si ridimensionano e compare quella gavetta che sembra ormai scomparsa dalle narrazioni, ma che in realtà esiste ancora.

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Qua sopra la nostra intervista a Marracash per Noisey Personal in cui parliamo di psicoterapia.

Ma quando il successo arriva, che effetti ha sugli artisti e sulla loro salute mentale?
Anche qui, paradosso: quando finalmente la mitica fama viene raggiunta, essa sortisce l’effetto opposto e la sua gestione diventa problematica. Spesso gli artisti devono rivedere il proprio stile di vita, si accorgono che la realtà è diversa da ciò che si erano immaginati, nessuno pensa alla privacy e al tempo libero finché questi non mancano. Per gli artisti di un certo livello poi, come già accennato prima, sorgono la paura del palcoscenico e la sindrome dell’impostore.

E parlando nello specifico di giovani rapper, cosa puoi dirmi?
Abbiamo già parlato di quanto per loro l’immagine sia fondamentale per sfondare, ancor più dell’arte. Ecco, in questi casi subentra la difficoltà a distinguere tra persona e personaggio, tra chi stai vendendo e chi, in realtà, sei tu. Quali aspetti di te fanno parte della tua professione e quali della tua sfera privata? Le sicurezze sul proprio io iniziano a vacillare e l’identità viene compromessa. Un’altra paura tra i giovani rapper di successo è quella di venire dimenticati in fretta, di diventare delle meteore.

"Nei giovani subentra la difficoltà a distinguere tra persona e personaggio, tra chi stai vendendo e chi, in realtà, sei tu."

Considera che qualche mese fa ho scritto un articolo sul disco d’esordio di Polo G , un rapper ventenne di Chicago che dice di voler morire da leggenda.
Certo, ma questa è una conseguenza di una società basata sull’immagine, sul narcisismo inteso come esposizione individuale, e in quanto tale fondata su una grande fragilità. Anche quando un giovane rapper parla di sostanze, di violenza, di morire, non lo fa per un atto di ribellione ma per esporsi. Non è più un andare contro, è un tappare le fragilità.

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All’inizio “rap” era sinonimo di gangster, di uomini duri; solo poi è venuto il conscious . Qualche anno fa è cominciata la piaga dello Xanax, assunto dai teenager senza prescrizione medica, per curare una depressione che troppo spesso sembrava auto-indotta per moda. Ora questo comportamento è condannato dagli stessi rapper, che sembrano essersi aperti alle tematiche di salute mentale, tra debolezze e i benefici della terapia. Cosa pensi di tutto questo?
Proprio settimana scorsa mi sono ritrovato a leggere un articolo di una psicologa dell’università di Cambridge che da anni sta conducendo uno studio che si chiama “Hip Hop Psych”, in cui il rap viene utilizzato in tutte le sue sfaccettature per fare terapia. Quei testi, che lei sta sottoponendo ad analisi tramite software di elaborazione delle aree semantiche, di fatto parlano in un’altra maniera di problematiche vissute dai pazienti. Il rap in questo caso è un altro mezzo nelle mani dello psicologo verso la riuscita della terapia. Fatico a pensare ad un altro genere che utilizza così tante parole. C’è la tendenza ad elaborare un discorso molto più approfondito e che vada dritto al punto. Anche i cantautori possono trattare queste tematiche, ma la loro narrazione procede molto spesso per metafore, giri di parole ed ermetismo, con testi molto meno diretti dell’hip hop e quindi meno incisivi in sede di terapia.

Prendi tutto questo e aggiungici la società che è cambiata, l’individualismo che la fa da padrone ma al contempo le fragilità del meccanismo che sono state portate a galla. Non è che dall’oggi al domani i rapper hanno iniziato a parlare di psicoterapia, non è stato un cambiamento repentino quanto più un divenire continuo del contesto e, di rimando, del rap che del contesto è voce.

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Capisco il ragionamento sul contesto. Ma a livello individuale, invece? Secondo te cos’è che fa scattare in un rapper la voglia di raccontare le proprie debolezze?
Non riesco a esprimerti un giudizio per quanto riguarda le singole situazioni, ma ti parlo a livello generale. Non dimentichiamoci mai che stiamo ragionando su un’industria che macina milioni e milioni di euro: non esistono scelte naif, bensì percorsi studiati.

"Quando un giovane rapper parla di sostanze, di violenza, di morire, non lo fa per un atto di ribellione ma per esporsi. Non è più un andare contro, è un tappare le fragilità."

Non so se hai sentito parlare di sadfishing. È quella pratica social sempre più comune di condividere contenuti tristi per accalappiare l’attenzione. Banalmente: la foto degli psicofarmaci abbinata ad una frase triste. Pensi che ci sia anche l’equivalente in musica?
No, non sto dicendo che un artista possa costruire una narrazione a tavolino, perché se la terapia e la depressione non sono state vissute sulla propria pelle, si verrebbe sgamati subito. Un conto è una foto, un altro è un prodotto musicale che abbia un senso. Sono cose troppo delicate e personali per essere scimmiottate. D’altro canto, però, è innegabile che questo sia un momento propizio per parlare di terapia e salute mentale, perché si crea una rottura con la narrazione circostante e perché, sotto sotto, al contempo ci si accoda ad un trend che sta funzionando.

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A parlare di queste cose, comunque, oggi si risulta tutt’altro che deboli. Fare musica che racconta la terapia e i momenti difficili è di per sé una piccola vittoria, e l’effetto che si ottiene è quello di un successo. Ciò che prima poteva essere una vergogna, ora diventa una forza: i tagli fanno il giro e diventano cicatrici di guerra da mostrare. Ed è un bene, eh, sempre che tutto questo venga fatto con più sincerità possibile.

Puoi dirmi qualcosa sull’impatto che ha Instagram sugli artisti e sulla loro salute mentale, soprattutto sui ragazzi con cui hai a che fare tu?
Questo è un tema gigante. Considera che Instagram ha vinto il premio della Royal Society For Public Health come social network più dannoso per la salute mentale, soprattutto in adolescenza. Il rapporto con l’immagine è devastante, ancor di più in quella fascia d’età in cui l’immagine te la devi costruire. Gli adolescenti vivono sul ritorno della loro immagine, devono capire chi sono e chi vogliono diventare e per farlo cercano la validazione, i feedback. Io e te, che non siamo nati “social”, possiamo ancora distinguere ciò che è virtuale e ciò che è reale. Per le nuove generazioni questa separazione non esiste. Ma non è un “discorso da vecchi”, è proprio la realtà dei fatti e come tale va affrontata. Un like non messo, un commento mal interpretato, lo smettere di seguire qualcuno, sono tutte azioni che hanno ripercussioni nella vita che noi definiamo “vera”.

Spesso è proprio il gap generazionale a creare incomprensioni e fare danni. Un genitore che etichetta i problemi legati a internet e ai social come “stupidate”, non si rende conto che quella sfera è parte integrante della vita del figlio e che, in quanto tale, può creare problemi più che concreti; oppure ci sono quei genitori che si rendono conto di non saper gestire la situazione, perché non conoscono i mezzi, e vanno nel panico. Queste incomprensioni all’interno della famiglia, che dovrebbe essere un luogo sicuro in cui parlare di qualsiasi problema, portano quindi a grandi sofferenze. Ma pensa anche agli insegnanti e al sistema scuola che vieta categoricamente il telefono tra le sue mura, quasi a fingere che quel pezzo di vita non esista: è un negare l’evidenza, nascondere sotto il tappeto la realtà dei fatti per non affrontare il problema. Immaginati tutto questo, ma se sei un giovane rapper: è una cassa di risonanza infinita.

"Instagram ha vinto il premio della Royal Society For Public Health come social network più dannoso per la salute mentale, soprattutto in adolescenza."

Ti è mai capitato di avere a che fare con aspiranti cantanti che oggettivamente non ce l’avrebbero mai fatta?
Certo. Ciò che passa dai media è che il successo arriva da un giorno all’altro, e questo è altamente dannoso. Ci sono ragazzi che si costruiscono l’immagine, il personaggio, hanno dei feed Instagram pazzeschi ma poi si trovano a dover fare i conti con la realtà: serve essere capaci di fare musica. Ho avuto a che fare con ragazzi che non volevano esercitarsi nel canto né tanto meno nella scrittura; ma non sto parlando di lauree in lettere eh, semplicemente di tempo speso per esercitarsi e migliorare in quella cosa che vorresti fosse la tua vita. Sembra assurdo, ma c’è chi davvero non fa i conti con questa cosa, con la fatica.

Cosa possono fare i media musicali per parlare in maniera sensata di salute mentale e per provare a fare sensibilizzazione sull’argomento?
Parlarne, innanzitutto, perché non è scontato, ma in un determinato modo. Partiamo da quella cosa fatta da Mario Giordano in TV qualche tempo fa: è disinformazione, ma se proprio vogliamo trovare un lato positivo ha avuto l’effetto di stimolare il dibattito e di far emergere delle voci autorevoli che hanno trattato la questione in maniera intelligente. In generale bisogna smetterla di trattare la musica con allarmismo e come veicolo verso il male: se il tal rapper parla di droga, non porterà l’ascoltatore alla tossicodipendenza. Al massimo lo porterà a provare una droga, ma tra il provare e lo sviluppare una tossicodipendenza ci sono un sacco di altri fattori che non c’entrano niente con quel rapper e le sue canzoni.

Dall’altro lato, però, è anche vero che l’artista deve assumersi la responsabilità di quella comunicazione, potenzialmente dannosa per determinati soggetti. Occorre ragionare sugli stili di vita, sulle scelte compiute, fare un’informazione ragionata e della sensibilizzazione in senso stretto. Bisognerebbe parlare di centri di riduzione del danno, di unità di prossimità. È una questione ampia e trasversale, troppo delicata per essere generalizzata con pressapochismo e sensazionalismo. È qui che si crea il danno fondamentale: nell’informazione errata e nell’ipocrisia. Penso per esempio alle vostre interviste, ad altre testate online, al lavoro che sta facendo Daria Bignardi in TV. È possibile parlare di salute mentale con preparazione, ad un pubblico ampio, è possibile fare informazione e sensibilizzazione nel modo giusto, ed è giunto il momento di farlo. Simone è su Instagram. Segui Noisey su Instagram, Twitter e Facebook.