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Musica

Recensione: Slash - Living The Dream

Slash, davvero, basta, il tuo rock è morto.

Slash è il miglior chitarrista del mondo. Slash è un’icona che incarna il senso stesso del ruock. Slash è ormai più un’idea astratta che non un reale essere umano. Slash è lassù, tutti gli altri sono più in basso. Slash, nel 2018, ancora ci scassa il cazzo con un disco di inediti.

Non se ne può più. Davvero, dai basta, solo il pensiero che personaggi che esaurirono tutto quello che avevano da dire in tre album trent’anni fa continui ad appestare l’asfittica scena musicale, peraltro in un genere che storicamente lascia spazio solo ai soliti quattro dinosauri è del tutto insostenibile. Sì, a quattordici anni urlavamo tutti take me down to the Paradise City where the grass is green and the girls are pretty, va bene. “You Could Be Mine” è il pezzo che tutti abbiamo dedicato alla ragazzina delle superiori che ci piaceva. Bene. Adesso però basta, oggi i ragazzini ascoltano il rap, quindi sarebbe il caso che le rockstar di quattro ere geologiche fa si levassero dai coglioni e non cercassero di pagare le bollette continuando a scrivere riff insulsi che nessuno si ricorderà mai da oggi a domani mattina.

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Myles Kennedy se ne tornasse a badare agli Alter Bridge, che ha già abbastanza problemi a tenerli fuori dall’abisso dopo un disco decente e quattro inutili, e tutti gli altri si trovassero un’altra rockstar con cui fare i turnisti. Possibilmente qualcuna che in carriera abbia detto qualcosa e non venga ricordata per tre assoli in croce e per il senso di ribellione che può dare l’essersi fatti operare al cuore a trentacinque anni per la troppa eroina. E per tutti quelli che sto facendo incazzare dicendo queste cose: no, i Guns’n’Roses non sono mai stati un gruppo interessante. Con il ben di dio AOR e hard rock che gli anni Ottanta hanno sputato fuori, tra paillettes, lustrini e simil-sobrietà, i Guns erano semplicemente un gruppo che aveva indovinato qualche melodia e la vendeva bene con il piglio californiano e lo sguardo ottenebrato dagli eccessi. La verità è che i Guns hanno avuto successo nei ruggenti anni in cui i Van Halen ipersintetizzavano “Jump” perché abbandonavano le tastierone pacchiane e facevano esattamente le stesse cose che facevano i Deep Purple di Perfect Strangers, ma avevano quasi vent’anni di meno ed erano più facili. Poi poco importa che il rock buono di fine decennio lo stessero scrivendo in Svezia, tanto quella era buona solo per “The Final Countdown”.

In tutto questo rant non ho nominato una volta Living The Dream perché Living The Dream è uno degli aborti più insulsi che abbia ascoltato nel 2018. Non ha capo, non ha coda, non ha centro, non ha altro che chitarre sentite ogni tre giorni negli ultimi trentacinque anni e un tizio più o meno capace che ci canta sopra delle solite faccende tanto care ai dinosauri del ruock: la ribellione, la società che fa schifo, l’amore struggente e di quando in quando la figa. Grandi emozioni. Senza risparmiare gli arpeggini che scimmiottano le varie hit dei Guns o magari le cover-hit dei Guns (chi non sente “Knockin’ On Heaven’s Door” in “The Great Pretender” o è sordo o è scemo, o magari entrambe).

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Ma prego, continuiamo a legittimare questa pagliacciata fatta di canzonette generiche, richiamini bluesy e porcherie da sagra di provincia, tanto ormai le chitarre si sono ridotte a questo e il rock è morto. Ormai più di Dio.

Living The Dream è uscito il 21 settembre per Warner.

TRACKLIST:
1. The Call Of The Wild
2. Serve You Right
3. My Antidote
4. Mind Your Manners
5. Lost Inside The Girl
6. Read Between The Lines
7. Slow Grind
8. The One You Loved Is Gone
9. Driving Rain
10. Sugar Cane
11. The Great Pretender
12. Boulevard Of Broken Hearts

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