Napoli, Roma, Milano: foto delle case popolari italiane
Le Vele di Scampia, Napoli. Tutte le foto per gentile concessione di Fabio Mantovani.

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Napoli, Roma, Milano: foto delle case popolari italiane

Da Palermo a Milano, Fabio Mantovani fotografa per capire come sono cambiate le case popolari e quanto è rimasto dello spirito con cui sono nate.

Sono cresciuto in un quartiere di case popolari e case popolari riscattate, ed è stata una delle cose che più mi hanno influenzato. In primis per il senso di appartenenza a un luogo con un'identità sua diversa da quella della città, poi in senso "politico" e di consapevolezza delle disuguaglianze sociali—soprattutto quando ho iniziato a vergognarmi di avere una situazione economica più rosea di quella di molti miei amici di zona—e infine proprio in senso geografico: non sono mai praticamente uscito da lì fino al primo giorno di liceo.

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Tutto questo nonostante il mio quartiere sia una semplice periferia (di Milano, nello specifico) e non un posto particolarmente brutto o malfamato, con un'incidenza di farmacie e case di riposo superiore a quella di qualsiasi altro esercizio commerciale. Ma non importa: se un quartiere nasce popolare rimane popolare, sia che si imborghesisca progressivamente sia che precipiti sempre più trasformandosi nel set di Gomorra o di qualsiasi video rap che vuole fare brutto.

È proprio per indagare questo aspetto, per fare un inventario dei modi in cui i grandi complessi di edilizia popolare italiani si sono evoluti a decenni dalla loro realizzazione, che Fabio Mantovani ha concepito un progetto fotografico che l'ha portato a viaggiare in tutta Italia. Oggi quel progetto è diventato un libro, Cento case popolari. Dato che dentro ci sono anche le foto del mio quartiere, ho deciso di chiamarlo per fare due chiacchiere.

Fabio mantovani intervista case popolari corviale

Nuovo Corviale, Roma.

VICE: Com'è nato questo progetto?
Fabio Mantovani: Il progetto è nato nel 2012, quando ho iniziato un viaggio in Italia, da nord a sud, accompagnato da una docente dell'Università di Architettura di Venezia che si è appassionata al tema ed è diventata la curatrice del progetto. Come fotografo di architettura il genere della casa popolare e dell'edilizia sociale mi ha sempre interessato, anche dal punto di vista storico, fin dai primi esempi come Le Corbusier.

Da dove arriva questo tuo interesse?
Allora, hai presente la Vespa? Della Vespa, così come di tanti altri prodotti, esistono sia le immagini pubblicitarie di lancio sia quelle che poi diventano iconiche—come ad esempio Audrey Hepburn in Vacanze romane o Nanni Moretti in Caro Diario. Faccio questo paragone perché quello che mi interessava nelle case popolari era proprio vedere questo: il punto centrale del progetto è che queste case popolari sono "firmate" o "d'autore." Sono state costruite dalla fine degli anni Cinquanta all'inizio degli anni Ottanta e progettate da grandi architetti dell'epoca: Il Gallaratese è di Aymonino e Aldo Rossi, lo ZEN di Palermo è di Vittorio Gregotti, Giancarlo De Carlo ha fatto il Villaggio Matteotti di Terni…

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Insomma, i grandi architetti dell'epoca sperimentarono questo tipo di architettura. Alcuni dei loro progetti oggi sono considerati dei mostri e dei fallimenti completi, mentre altri sono riusciti perfettamente. A me interessava andare a vedere com'è andata a distanza di diversi decenni. Ho cercato di rimanere neutro e oggettivo, di non insistere sui casi più problematici—come ad esempio le Vele di Scampia, o il Corviale a Roma, o lo ZEN di Palermo. Ho tenuto un approccio piuttosto formale ma inserendo sempre l'elemento umano.

Fabio mantovani intervista case popolari villaggio Matteotti

Villaggio Matteotti, Terni.

Perché c'era questo grande interesse per l'edilizia popolare?
La "febbre" per l'architettura sociale è nata nel contesto economico di fine anni Cinquanta-inizio anni Sessanta. Uno dei primissimi esempi è quello dei sassi di Matera. All'epoca i sassi di Matera erano considerati una vergogna, perché si era in piena ripresa economica e non sembrava possibile che ci fosse ancora gente in Italia che viveva nelle grotte. Così, su iniziativa di De Gasperi fu costruito il Rione Spine Bianche, un nuovo quartiere moderno di Matera. Se ne occupò De Carlo, un architetto molto in auge nel periodo. Era un impegno civico e sociale e molti altri architetti vollero stare al passo, quindi si scatenò una specie di gara in cui ognuno faceva il suo progetto di edilizia popolare.

Perché alcuni di questi progetti hanno funzionato e altri no?
Allora, innanzitutto c'è da dire una cosa: alcune case popolari si sono dovute scontrare con l'esigenza di farle in luoghi economicamente abbordabili, quindi fuori dal centro cittadino. Lo ZEN di Palermo è emblematico: è molto lontano dal centro ed è rimasto isolato, tanto che ancora oggi—35 anni dopo che è stato ultimato—è veramente un'isola. Così anche per le Vele di Scampia, che sono in un quartiere lontano dal centro di Napoli e hanno intorno una specie di circonvallazione che ha un po' impedito di frequentarle a chi non è del luogo. Viceversa, nel caso del Gallaratese, il quartiere è nato distaccato ma è poi stato inglobato da Milano.

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In una creazione urbanistica non c'è nulla che attiri persone che non abitano lì come negozi, cinema, ristoranti. Se questi servizi non ci sono e se il posto è isolato a nessuno interessa più andarci e il quartiere diventa un dormitorio. Poi ovviamente ci sono anche delle ragioni storiche e sociologiche, che però vanno un po' al di là del mio interesse. Problematiche del genere sono abbastanza determinanti per la riuscita o meno di un progetto.

Fabio mantovani intervista case popolari zen Palermo

Quartiere ZEN, Palermo.

Qual è il posto che ti ha colpito di più da questo punto di vista tra quelli che hai visitato?
Probabilmente il Corviale a Roma. È forse l'edificio più lungo d'Europa e ospita più di 8mila persone, è alto otto o nove piani. Circa a metà, nel quarto piano, doveva esserci una lunghissima galleria—lunga come l'intero palazzo—in cui ci sarebbero dovuti essere tutti i servizi per soddisfare le esigenze degli abitanti: lavanderie, uffici postali, tabaccherie, ristoranti. Questo immenso piano non è mai stato realizzato, è stato occupato e ci sono stati creati degli appartamenti con pareti di legno o di cartongesso. Questo cosa vuol dire? Che il progetto originale non è stato rispettato e che adesso al Corviale di servizi non ce ne sono—ce ne sono solo un po' all'esterno, fatti in seguito. Ma servizi di questo tipo favoriscono anche la socialità, perché la gente sente di appartenere a un luogo quando ha posti dove trovarsi e locali di riferimento, e il fatto che una struttura così grande ne sia così carente l'ha fatta entrare in crisi. Ci sono tanti paesini in Italia che hanno meno abitanti del Corviale.

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Qual era il tuo scopo mentre lavoravi a questo progetto?
Lo scopo era creare un punto fermo—un catalogo, se vuoi—di un aspetto della nostra società che secondo me vive molto di stereotipi: casa popolare = brutto posto. Questa è un po' l'associazione che sento molto spesso fare. Mi interessava il tema, anche dal punto di vista fotografico, il modo in cui gli abitanti lo vivono. E anche dal punto di vista architettonico, perché tutti i questi progetti che ho fotografato sono molto validi e stimolanti dal punto di vista fotografico.

Per questo ho scelto questo approccio neutrale: ho lasciato che fosse il tema in sé a dare spunti per altri discorsi successivi. Io ti fotografo il Corviale, dopodiché tu che non ci sei mai stato puoi fartene un'idea oggettiva. È chiaro che anche il fotografo compie delle scelte, ma nei limiti del mio gusto e della mia sensibilità, ho cercato di rendere fotograficamente il concetto di "una giornata a…" In modo che sia il quartiere o la casa popolare a parlare.

Fabio mantovani intervista case popolari gallaratese bonola

Quartiere Gallaratese, Milano.

Come ti sei trovato nei posti che hai visitato? Come reagivano gli abitanti?
In generale mi sono trovato molto bene: mi è piaciuto proprio starci e in certi posti sono rimasto anche tre o quattro giorni. Per quanto riguarda le reazioni, l'atteggiamento è sempre stato molto simile: all'inizio ero visto come il classico scocciatore che veniva li a fare la foto facile, la foto di cronaca per illustrare il degrado. E mi sembra comprensibile: posti come Scampia o lo ZEN sono ormai iconici, e se uno vive lì e vede che vai a fotografargli la casa con quelle intenzioni ha tutto il diritto di arrabbiarsi. Ma poi stando lì e spiegando cosa volevo fare, ho trovato una grandissima apertura e mi sono trovato a casa ovunque.

Il libro di Fabio Mantovani, Cento case popolari, è uscito per Quodlibet. Puoi ordinarlo qui. Segui Mattia su Twitter