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Quattro punti per capire il caos sul crollo del ponte Morandi

Dalle concessioni ad Autostrade per l’Italia alla questione della nazionalizzazione.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Foto via Facebook.

Il crollo del ponte Morandi a Genova—che al momento conta oltre 35 vittime, almeno dieci dispersi e centinaia di sfollati—ha generato un volume impressionante di reazioni e polemiche. In due giorni ci sono stati il comunicato dei comitati No Gronda del 2013 che parlava della “favoletta dell’imminente crollo” del ponte, usato per dare contro ai Cinque Stelle; meme orribili contro il precedente ministro delle infrastrutture del PD, Graziano Del Rio; le accuse (infondate) di Luigi Di Maio alla famiglia Benetton; gli status lievemente fuori focus di Salvini; e così via.

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Nel frattempo, il numero degli ingegneri e degli avvocati—almeno sui social—è schizzato alle stelle: tutti hanno una teoria sul crollo (di cui ancora non si conoscono le cause); e tutti sembrano già aver capito cosa potrà succedere ora. C’è una domanda in particolare che aleggia sul dibattito pubblico: alla fine, chi è il responsabile? Chi è che pagherà per quella immane tragedia?

Ieri, in un consiglio dei ministri straordinario tenutosi alla prefettura di Genova, il governo gialloverde ha detto chiaro e tondo che il colpevole—o almeno, uno dei principali colpevoli—è Autostrade per l’Italia, cioè la società privata che ha in concessione 3mila chilometri della rete autostradale italiana.

Il presidente del consiglio Giuseppe Conte, inoltre, ha comunicato l’avvio “delle procedure di revoca della concessione alla società Autostrade, sulla quale incombeva l’obbligo e l’onere di curare la manutenzione del viadotto.” Il premier ha anche spiegato che “è chiaro che ci sono responsabilità e la giustizia dovrà fare il proprio corso per accertarle. Ma il nostro Governo non può rimanere ad aspettare.”

Alcuni effetti dell’annuncio si sono visti subito: questa mattina, il titolo in borsa di Atlantia—la società che controlla Autostrade per l’Italia—non è riuscito a fare prezzo a Piazza Affari, per poi segnare un calo vertiginoso del 25 percento. In una nota il gruppo della famiglia Benetton ha criticato pesantemente le modalità dell’annuncio del governo: “è stato effettuato in carenza di qualsiasi previa contestazione specifica alla concessionaria ed in assenza di accertamenti circa le effettive cause dell'accaduto.”

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Ora, le questioni sul tavolo sono parecchie e complicate; e su tutte spicca il destino della rete autostradale italiana, nonché le potenziali contromisure per evitare altri crolli. Ma visto che parliamo di un evento così enorme è utile riepilogarne quelle più importanti e dibattute. Ne abbiamo messe in fila un paio, cercando di aiutarci con articoli e status che in queste ore convulse hanno provato a fare chiarezza.

MA LA CONCESSIONE AD AUTOSTRADE PER L'ITALIA SI PUÒ REVOCARE?

Partiamo da qui: tecnicamente sì, si può fare. Il vicepremier Luigi Di Maio è anche convinto che “ci siano tutte le motivazioni per non pagare le penali.” Alcuni commentatori e osservatori, tuttavia, ritengono che la strada sia molto stretta e tortuosa; e il prezzo sarebbe molto caro.

L’AGI, ad esempio, ricorda che la convenzione siglata tra Autostrade e governo (su questa torneremo più avanti) prevede—in caso di revoca—un risarcimento pari a un “importo corrispondente al valore attuale netto dei ricavi della gestione, prevedibile dalla data del provvedimento di recesso, revoca o risoluzione del rapporto, sino a scadenza della concessione, al netto dei relativi oneri, investimenti e imposte nel medesimo periodo.”

Tradotto in euro: si tratterebbe, sempre secondo i calcoli dell’AGI, di circa 20 miliardi; “una cifra non troppo distante da quello che l’Italia impiega in un’intera finanziaria,” si legge nel pezzo, “davvero difficile da sostenere quindi, anche di fronte a ‘grave colpa’ dimostrata della società.”

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Per l’appunto, ci sono poi ragioni di carattere giuridico. Come riporta Il Sole 24 Ore, per arrivare alla revoca deve prima essere una “contestazione formale per gravi inadempienze,” che non è mai stata fatta. Il ministero delle infrastrutture, inoltre, dovrà dettagliare molto bene le accuse che muove alla società.

Di certo, il crollo del ponte ha complicato la posizione di Autostrade per l’Italia. Perché, di fatto, si tratta dell’ultimo di una lunga serie di crolli ed episodi controversi—tra cui un bus precipitato dal viadotto Acqualonga della A16 nel luglio 2013, che ha causato la morte di 40 persone. Ad Avellino è in corso un processo che vede coinvolti i vertici aziendali, e la sentenza di primo grado è attesa per il prossimo dicembre.

COME SI È POTUTI ARRIVARE A QUESTO PUNTO?

Il crollo del ponte Morandi ha riacceso i riflettori su un altro tema molto dibattuto negli anni scorsi: la questione delle concessioni autostradali. Il professore della Bicocca Ugo Arrigo ha realizzato un lungo thread su Twitter (pubblicato per intero in un post Facebook di Oscar Giannino) che ne ripercorre la storia, e sottolineato come “il principio che ha ispirato la regolazione del settore autostradale nell’ultimo ventennio è stato quello di non disturbare il regolato… e l’obiettivo apparente il perseguimento del massimo profitto privato da parte dei pubblici poteri.”

Due, secondo Arrigo, sono stati i regali della politica di ogni colore alle varie concessionarie (tra cui Autostrade per l’Italia): il primo è quello di non aver mai attivato realmente il controllo pubblico—prima, quanto la società era di IRI, “si controllava da sola in quanto pubblica.” In pratica, come scrive Il Secolo XIX, Autostrade si controlla da sola in materia di sicurezza.

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La riprova delle difficoltà (per non dire l'assenza) dei controlli pubblici è confermata da un'audizione parlamentare del 2016 a Mauro Coletta, direttore della Vigilanza del ministero delle Infrastrutture sulle concessionarie autostradali. L'architetto parlava apertamente degli ostacoli riscontrati nelle ispezione (passate dalle 1400 del 2011 alle 850 del 2015), e rivelava addirittura che “i collaboratori che si recano in missione per svolgere i sopralluoghi devono anticipare le spese.”

Il secondo, invece, “è stato il mantenimento del principio che si possa caricare in tariffa già oggi un investimento che si farà (forse) in futuro.” Una cosa che “non ha alcun senso per un gestore privato il quale, una volta incamerata la maggiorazione tariffaria per investimenti futuri, inizia a distribuirla sotto forma di dividendi agli azioni e bonus ai manager.”

In terzo luogo, il professore rileva l’indecente fatto che “tutte le concessioni autostradali sono da sempre secretate” e non è possibile sapere cosa prevedano. Le cose sono cambiate all’inizio di quest’anno, quando l’ex ministro Del Rio ha deciso di renderle pubbliche. Peccato che manchino gli allegati più interessanti, cioè i piani finanziari “che giustificano le tariffe e le loro variazioni.” Solo da questi piani, infatti, “è possibile comprendere se le tariffe e la loro crescita nel tempo sono giustificate o meno.”

I FOLLI PEDAGGI DELLE AUTOSTRADE ITALIANE

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Questo ci porta all’altro grande argomento che sta emergendo in queste ore—l'aumento dei costi che paghiamo per percorrere le autostrade. Secondo un’inchiesta del Corriere della Sera dello scorso giugno, le autostrade italiane sono le più “care d’Europa.” E questo, chiaramente, porta enormi ricavi alla concessionarie; parliamo di 7 miliardi di euro annui, di cui l’83 percento arriva dai pedaggi.

Il problema, stando agli ultimi dati disponibili, è che “il valore degli investimenti complessivi è sceso del 23,9 percento e anche la spesa per le manutenzioni è calata del 7,5 percento.” Il nodo, scrive Ferruccio Pinotti sul Corriere della Sera, è che “il sistema è caratterizzato da un duopolio che opera senza gare europee e al di fuori della concorrenza prevista dalle direttive comunitarie.” Oltre ad Autostrade per l'Italia, infatti, c’è il gruppo Gavio che gestisce oltre 1.200 chilometri: insieme, i due gruppi coprono i tre quarti dell’interno mercato.

Per ricapitolare: a fronte di ricavi immensi, gli investimenti sulla manutenzione sono calati—e al di là del caso specifico del ponte Morandi, negli ultimi anni si sono verificati diversi crolli in tutta Italia. E questo scenario non fa che confermare quanto scriveva il professore Giorgio Ragazzi nel libro I signori delle autostrade, uscito nel 2008:

Nel complesso, i risultati conseguiti dalla regolazione delle autostrade italiane dal 1997 ad oggi sembrano davvero fallimentari. Non si ha evidenza di miglioramenti significativi nell’efficienza di costo […]. Gli investimenti previsti, sulla base dei quali le concessionarie ottennero nel 1999 lunghe proroghe delle concessioni e incrementi di tariffa, non sono stati realizzati se non in piccola parte. Le concessionarie hanno invece registrato enormi extraprofitti.

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È chiaro che qualcosa deve cambiare. Ma cosa? E come?

LA QUESTIONE DELLA NAZIONALIZZAZIONE DELLE AUTOSTRADE, E ALTRE POSSIBILI SOLUZIONI

Il governo non ha ancora indicato una soluzione alternativa—ad eccezione di questa dichiarazione di principio del ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli: "Se non sono capaci di gestire le nostre Autostrade, lo farà lo Stato." Dunque, ammesso e non concesso che venga revocata la concessione ad Autostrade per l’Italia, non si sa ancora come e se cambierà il sistema.

Alcune forze politiche e singoli politici hanno parlato di “nazionalizzazione.” L’hanno fatto, con ragioni molto diverse tra loro: Giorgia Meloni, e quindi Fratelli d’Italia; Alessandro Di Battista, cioè il custode dell’ortodossia grillina; e Potere al Popolo, il nuovo partito della sinistra radicale italiana.

Da altre parti—pur non evocando la nazionalizzazione—si sostiene che la tragedia di Genova “è un frutto avvelenato delle privatizzazioni combinate alla decadenza della classe dirigente,” e che quindi lo Stato dovrebbe “riprendere il suo ruolo.”

Va comunque ricordato, come ha fatto Il Post, che negli anni Novanta la privatizzazione venne decisa perché lo Stato italiano si era ritrovato con “un enorme debito pubblico da gestire e senza più le risorse necessarie a finanziare i continui investimenti necessari a migliorare la rete.” Da qui, però, non è per nulla automatico regalare una gestione monopolistica senza freni a dei privati—con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi.

A tal proposito, in queste ultime ore è tornato a girare un articolo de Lavoce.info del 2015 di Giorgio Ragazzi, in cui tratteggiava tre possibili soluzioni che si collocano a metà strada tra il pubblico e il privato.

La prima proposta del professore è la creazione di un’“autorità indipendente per la supervisione delle concessioni, eliminando così il palese conflitto d’interesse in cui si trova oggi l’Anas: partecipa al capitale di concessionarie e al contempo esercita la funzione di regolazione.” La seconda—allo scadere delle varie concessioni—è appaltare “singoli servizi” con gare separate, mentre “i ricavi da pedaggio affluiscono a un fondo pubblico” (come succede in Germania). La terza, infine, è l’adeguamento progressivo dei pedaggi “in funzione della congestione,” rescindendo così “il legame tra pedaggio pagato e introito del concessionario.”

Forse è ancora troppo presto per capire che piega prenderà questa parte specifica del dibattito. Ma, alla fine, è proprio questa la parte più importante—proprio perché riguarda il futuro e la sicurezza di milioni e milioni di persone che si spostano per l’Italia.

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