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L’hacker che ha reso open-source il suo cancro al cervello

“Una persona (io) si ammala di cancro al cervello. È una vicenda come tante, ma a un certo punto, mentre ero in ospedale, è successo qualcosa—Da qui si è sviluppata una riflessione e un’azione che ha avuto impatti globali,” Salvatore Iaconesi, co-autore del libro autobiografico La Cura, comincia così a raccontarmi la sua storia.

“Mi sono progressivamente accorto di essere scomparso. Mi ero trasformato nel ‘paziente’, un’entità diversa dall’essere umano—Il paziente vive di dati clinici, di immagini, di radiografie e risonanze magnetiche, di valori di pressione del sangue, e così via,” continua. “Come tutti i malati ero diventato una entità burocratica e amministrativa (e, quindi, amministrata). Tutto suggeriva l’esistenza del cambiamento: erano cambiati i linguaggi, i rapporti con le persone. Ero diventato a tutti gli effetti la mia malattia, rappresentata tramite i dati e le informazioni mediche.”

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La storia di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, la sua compagna, è particolare. Salvatore ha deciso di interpretare il suo cancro come un’occasione per umanizzare la figura del paziente: ha preso tutto il materiale clinico che lo riguardava e lo ha reso open source.

Quando queste informazioni non erano accessibili—come nel caso dei dati clinici, inizialmente rinchiusi in un file DICOM, un formato leggibile solamente dai software ospedalieri—Salvatore le ha hackerate, ha convertito i file in HTML e JPG e li ha condivise con la comunità che aveva costruito. Per lui la ‘cura’ della sua malattia non doveva essere soltanto fisica, ma anche creativa, artistica o spirituale.

“Non solo è una situazione orrenda, visto che perdi l’autonomia sul tuo corpo, la possibilità di autodeterminarti individualmente e nei rapporti con le persone—è anche uno scenario inefficace, perché non adatto ad affrontare la complessità del male e ad includere nel processo di guarigione tutte le parti in causa: i medici delle varie discipline, gli amici e i parenti, le relazioni della persona, e la società,” mi ha spiegato Salvatore per email. “La vita si sospende, il corpo viene espropriato, si inizia a condurre una esistenza completamente delegata ai medici, che di fatto ci amministrano.”

“Mi sono progressivamente accorto di essere scomparso. Mi ero trasformato nel ‘paziente’, un’entità diversa dall’essere umano.”

“Non l’ho sopportato e ho avviato La Cura, una cura completamente aperta alla società, in cui ogni essere umano può avere un ruolo: i medici, i ricercatori, gli amici e i parenti, gli studenti, gli artisti, i designer, i tecnologi, i fruttivendoli, e così via.”

La Cura è una performance artistica in cui Salvatore Iaconesi ha reso open-source tutte le informazioni relative al suo cancro. in cambio ha ricevuto poesie, sculture 3D del suo tumore (“Ora puoi avere anche tu il mio cancro!”), consigli e video. In occasione dell’uscita del libro in cui Salvatore e Oriana raccontano la loro esperienza, abbiamo fatto quattro chiacchiere con loro.

Motherboard: Cosa trovo nel libro?

Salvatore Iaconesi, Oriana Persico: Be’, molte cose. Due punti di vista sulla storia (la performance) che si alternano: quello di Salvatore e quello di Oriana—Quindi due autobiografie, due storie, due stili molto diversi. Poi c’è la ricerca, che è “situata” nella storia: per ogni doppio capitolo autobiografico si affrontano i temi e i problemi che di volta in volta ci siamo trovati davanti: dall’ospedalizzazione, all’information overload ai big data e molto altro.

Infine ci sono i workshop, la sezione più performativa del libro: dal racconto personale, alla conoscenza—Fino alla pratica, il “fare insieme”. I workshop sono disseminati nel libro sotto forma di box e sono disponibili nella sezione “Conoscenza” del sito del La Cura e su Github. I workshop costituiscono una base di conoscenza aperta che cresce e si evolve nel tempo: ne abbiamo già aggiunto uno nuovo, Erbe Indisciplinate, frutto della prima tre giorni con la Cura a Rural Hub.

Temevamo che questa struttura fosse complicata, invece il mix di elementi e questa “mobilità in lettura” a quanto pare piace. C”è chi sceglie di leggere prima tutti i capitoli “Salvatore” e poi quelli “Oriana”, chi inizia da un certo capitolo di ricerca per il quale ha un suo interesse, chi dai materiali sul sito e su Github. E molte altre combinazioni. Nel complesso il libro è una “cassetta degli attrezzi” da usare, smontare, espandere: ci piace vederlo così.

Motherboard: Da osservatore esterno mi sembra che la tua malattia, Salvatore, abbia attraversato moltissime fasi, di cui la più recente è proprio questo libro. Come è cambiato nel tempo il tuo rapporto con essa? E invece per quanto riguarda Oriana, come è cambiato il rapporto tra te, la malattia e Salvatore?

SI, OP: Tutto ci cambia, in continuazione. Alcuni micro-eventi lasciano tracce così piccole da non arrivare alla nostra percezione—Altri sono così evidenti che segnano dei “capitoli” della nostra vita: un prima e un dopo nel flusso, e La Cura è uno di questi.

È curioso come sia ormai impossibile scindere la “malattia” dalla “cura”: hanno finito per coincidere, come due facce di una stessa medaglia. L’una è il vincolo e quindi la possibilità dell’altra. Sottoposta a queste tensioni, la nostra coppia non è esplosa: vuol dire che si è creato lo spazio necessario per assorbirle e trasformarle. Abbiamo più strumenti e abbiamo acquisito nuove sensibilità a riconoscere i loop e le tensioni del quotidiano, e possibilmente cercare di interromperli. Certo, si tratta di una tendenza—e non ci riusciamo sempre—ma quando succede è bellissimo.

Motherboard: Che cos’è la ‘biopolitica dei dati’, di cui parlate nel libro?

La biopolitica studia il modo in cui i sistemi, le istituzioni, le organizzazioni, le procedure e le attività di tutti i giorni includono elementi il cui scopo (implicito o esplicito, consapevole o meno) è quello di esercitare potere e controllo sul corpo e sulla psicologia delle persone. La biopolitica dei dati fa la stessa cosa, ma partendo dall’analisi delle pratiche connesse ai dati.

Sono due tipi di analisi critica molto importanti, proprio perché permettono di comprendere come alcune cose che ricadono completamente nella nostra percezione della normalità siano in grado di esercitare potere e controllo, spesso anche in modo molto violento.

Per esempio: un semplice pulsante presente o mancante su un’interfaccia, una cosa fatta in un certo modo all’ufficio delle poste, un call center, un modulo con una risposta a scelta multipla per indicare il genere sessuale—Tutte queste cose esercitano potere su di noi impedendoci di esprimerci, rappresentarci e autodeterminarci liberamente, o ponendo vincoli sul nostro agire o vivere nel mondo, spesso a livello psicologico e percettivo.

La Cura, Patrick Lichty

Si tratta di misure molto violente anche per questo: ricadono nella percezione della normalità delle persone e, quindi, spesso sono difficili da identificare e indicare come problematici, “È normale così! Come potrebbe essere diverso?” È una reazione classica a queste osservazioni. Anche il fatto che spesso agiscono su livelli sottili e immateriali come la psicologia delle persone diventa problematico quando si tratta di interpretarle, in quanto l’assenza di violenza o costrizione fisica rende difficile l’espressione del disagio, la sua identificazione e, quindi, l’affrontarlo.

Quando tutto questo si sposta su dati e informazioni la situazione diventa molto più complessa. Oggi siamo completamente immersi in questo ecosistema di dati, e lo siamo anche quando non ne siamo consapevoli, anche mentre dormiamo: non solo produciamo e consumiamo dati—Li indossiamo, li abbiamo negli oggetti delle nostre case, uffici e scuole, stanno lungo le nostre strade e parchi. Dappertutto. Quindi la biopoitica dei dati diventa una biopolitica ubiqua.

Motherboard: Dopo il libro, come continuerà (se continuerà) il progetto ‘La Cura’?

SI, OP: Il libro è parte del progetto: è un elemento della performance. Francesca Fini, carissima amica e artista, ha definito La Cura una performance ‘durazionale’, nel senso che dura tutta la vita. Possiamo smettere di “prenderci cura”—di noi stessi, degli altri, dell’ambiente che ci circonda? Il prezzo da pagare sarebbe la dissoluzione dei più basilari legami sociali e di coesistenza.

Lo psicanalista René Spitz negli anni 40 ha mostrato gli effetti devastanti dell’isolamento sui neonati: i bambini cresciuti in orfanotrofio deprivati di contatti e connessioni con altri umani sviluppavano scarse capacità psico-motorie, infezioni; alcuni si deprimevano fino a lasciarsi morire, benché gli venissero assicurati cibo e culla.

Non solo la morte e la malattia, anche invecchiare è quasi un tabù. Abbiamo sempre meno strumenti—culturali e rituali—per affrontare questi passaggi che si svuotano di senso e, per questo, sono paralizzanti.

La Cura è una spinta continua a uscire dall’isolamento e dalla separazione in ogni sua forma, imparando e scoprendo insieme (come società e individui) la “bellezza di ciò che connette”. Nell’isolamento moriamo, nella connessione possiamo vivere: in fondo è semplice. La performance parte e continua da qui, evidenziando il ruolo dell’arte come catalizzatore dell’interconnessione di discipline, scienze, significati, tecniche, tecnologie, culture, percezioni, comprensioni e conflitti.

Motherboard: Sei stato il primo a fare una cosa del genere? E se sì, perché secondo te non ci ha mai pensato nessuno (può dipendere da un rapporto particolare con la tecnologia?)

SI, OP: Penso che le classifiche o i “il primo a…” siano sempre fuorvianti. Non è importante essere il primo, ma non illudersi che le cose siano così semplicemente confrontabili da poter dire di esser stati i primi a fare una certa cosa.

Diverse persone, nel tempo, hanno agito in diversi modi, ognuno con la propria intenzione, i propri strumenti, stili, e approcci. In aggiunta, per determinare “chi è stato il primo a fare X” occorrerebbe mettersi d’accordo su cosa è “X”—E anche questo è complesso, perché questo tipo di cose (incluse le performance e le azioni delle persone) hanno una propria vita, e una propria evoluzione nel tempo. La Cura è un’azione sul cancro? Sulla biopolitica? Sulla tecnologia? Sulla società? Sul software o sui dati? Sulla collaborazione? Su cos’altro? Ovviamente la risposta, come per tutto quanto, è più complessa di quanto si possa dire in poche parole.

Lo stesso vale per gli altri che hanno intrapreso un percorso simile. Alcuni hanno mutato la natura della malattia per potersi permettere di curare, per agire sulle scienze, per paura, per gioia di vivere, per soldi, per l’arte, per guarire e per tante altre cose. Sono tutte differenti e interessanti—Una per tutti: Beatriz da Costa, che nel suo ultimo periodo di vita ha fatto cose incredibili con la sua malattia, ad esempio l’Anti Cancer Survival Kit.

Motherboard: La nostra società è terrorizzata dalla morte e dalla malattia (in quanto simbolo della morte). Teniamo lontano i morti e anche i malati, eppure fino a poco tempo fa, la morte era parte integrante della vita, i morti restavano nei letti per giorni e c’era un dialogo aperto con l’inevitabile. Pensi che sia possibile recuperare o reinventare un legame “naturale” e con la malattia e la morte, oggi, grazie a quella che potremmo definire una “etica hacker“?

SI, OP: Non solo la morte e la malattia, anche invecchiare è quasi un tabù. Abbiamo sempre meno strumenti—culturali e rituali—per affrontare questi passaggi che si svuotano di senso e, per questo, sono paralizzanti. Ivan Illich fa notare che l’incapacità di gestire”in casa” la vita e la morte—progressivamente appannaggio delle istituzioni—corrisponde all’incapacità di tollerare l’incertezza: non è tanto il rischio medico in sé, quanto la precarietà esistenziale dell’essere umano a cui la scienza non può dare una risposta pacificatoria.

L’incertezza è anche il regno della possibilità. Gli hacker smontano e rimontano sistemi – non solo informatici, ma anche sociali, economici, giuridici. Per farlo li devono comprendere intimamente: in questo processo ci sono spazi per la reinvenzione e l’appropriazione dei sistemi e del mondo che ci circonda.

Motherboard: Qual è il punto di arrivo? La sconsacrazione della malattia come demone assoluto oppure la consacrazione delle conseguenze della malattia come non assolutamente invalidanti?

In realtà il problema è pensare che si parli della malattia: non è così. Si parla dell’intera società, e di come sviluppare immaginari secondo cui diventi non solo possibile e fattibile, ma anche e soprattutto bello e sinceramente desiderabile agire per risolvere i problemi del mondo interconnettendo pratiche, discipline, scienze, arti, design, culture, competenze, inclinazioni e desideri, di tutti.

È necessario accorgersi quanto sia estremamente ingenuo pensare che problemi complessi come la salute, l’ambiente, l’energia, l’istruzione o il lavoro possano essere affrontati (e risolti) delegando (ad una medicina, ad un governo, ad una azienda, ad una organizzazione…) e amministrando. I problemi che afferiscono al dominio della complessità necessitano di approcci anch’essi afferenti allo stesso dominio. L’intera società deve partecipare attivamente al processo, ognuno con un ruolo.

Dove si arriva? Non lo sappiamo. Sappiamo, però, da dove possiamo partire: dal cambiare il nostro immaginario e, in virtù di ciò, ragionare e agire in modi differenti, insieme.

La Cura è il libro di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, è uno strumento degli attrezzi per la malattia del ventunesimo secolo. La Cura è una pubblicazione Codice Edizioni.