Il Sudamerica, oltre ad essere la meta di tutti i neolaureati in architettura perché “là c’è lavoro”, è anche il continente da cui alla lunga provengo, o almeno da cui proviene e in cui vive gran parte della mia famiglia. I miei si sono limitati a farmi vedere la luce in Italia quasi ventiquattro anni fa, esuli dal Perù, uno stato tanto pittoresco quanto profondamente squarciato dalle conseguenze più o meno impalpabili dei trascorsi storici che tutti conosciamo—leggi: colonialismo spagnolo. Non a caso ho un cognome che di precolombiano non ha proprio niente, anzi, è solo ed unicamente spagnolo. In realtà a molti continua a far venire in mente Zorro, ma mi sono ripromessa di non commentare più il fenomeno.
In generale la mia attitudine nei confronti delle mie origini è sempre stata quella della diffidenza/indifferenza, è molto brutto da dire ma è così. Ciò che non mi era chiaro era che in qualsiasi “nicchia” riversassi i miei interessi, mi trovavo sempre in un antipatico purgatorio imbevuto di cultura occidentale, praticamente indelebile e destinata a permeare ogni mio passo successivo. Abitudini e gusti venivano da me sbandierati con tutto l’orgoglio possibile, sia davanti ai miei coetanei, sia davanti ai miei poveri genitori, che intanto facevano di tutto per rendermi un briciolo più recettiva e consapevole di quella (non) appartenenza. Nei 24 anni che li conosco, ad esempio, ho avuto modo di provare che una delle loro attività preferite era irrorarmi giorno e notte di musica folklorica peruviana/andina, i cui dischi e cassette sono, ad oggi, gli unici supporti musicali che abbiano mai acquistato.
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I dischi dei miei.
Il risultato è stato prevedibilmente triste: benché ne vedessi la casa sommersa e sapessi segretamente i testi a memoria, non sono mai riuscita a delineare un sentimento degno di tale nome nei confronti di questo approccio alla musica, forse anche perché era quanto di più lontano dai miei interessi dell’epoca.
Non aver mai vissuto in Perù ed essere cresciuta in Europa può esonerarmi da tante responsabilità, ma non mi permette di giustificare il livellamento culturale per cui viene considerata succulenta solo l’industria musicale occidentale, dozzinale o underground che sia. Perciò la decisione di un articolo che metta al corrente di ciò che avviene ed è avvenuto al di fuori dei nostri più pretenziosi ed etnocentrici concetti di “esotismo”, che ci spingono a usare la parola “indigeno”—nell’accezione umiliante di “selvaggio”—come sinonimo di “nativo”, che a pensarci bene è un insulto bello e buono.
Il motto Inca: “Non rubare, non mentire, non vagabondare”. Di Luzmila Carpio parleremo in fondo.
La musica folklorica andina, come qualsiasi espressione artistica tradizionale di un popolo, ha una storia e un’evoluzione legata alla cultura della moltitudine di popoli che in quelle terre ci ha abitato ben prima dell’arrivo degli spagnoli, ma pure degli Incas stessi—ricordo che l’impero Inca, il Tahuantinsuyo, ha coperto solo tre secoli, dal 1250 al 1548.
Prima dei bianchi charango l’arpa andina Altiplano del Collao La Pinkillada, solo fiati (quenas) e tamburi.Gli Inca avevano un termine quechua, la lingua nativa, per indicare un’arte complessa, costituita tanto di danza, quanto di canto e musica: taki. In sostanza nessuno di questi singoli elementi veniva distinto come a sé stante, ma come parte di un’unica dimensione, che durante l’invasione spagnola si è pure rivelata strumento di resistenza. Il Taki Unquy infatti era un movimento di matrice popolare, sviluppatosi negli ayllu (comunità di montagna) e diffusasi in tutto il Perù tra il 1564 e il 1572, che si affidava al potere di danza e canto, e lo contrapponeva al dominio cristiano spagnolo, dapprima sul piano religioso, poi su quello politico. In pratica se per il cristianesimo in principio era il verbo, che a sua volta si è fatto carne ed è finito nei nostri corpi, per il Taki Unquy, danza, canto e musica erano una sorta di ricongiungimento primordiale, e il corpo era solo un veicolo di propagazione attraverso il quale avveniva. Il processo a cui si sottoponevano spirito e corpo, era proprio il Taki, e difatti “Taki Unquy” significa “maledizione del ballo”.
Carnaval
Il carnevale è arrivato sulle Ande, così come in tutto il Sudamerica, con gli spagnoli, ma non ci vuole molto a immaginarsi un progressivo adattamento territoriale, ben distante dall’accezione cristiana di partenza. La triade Taki di danza-canto-musica, qui fiorisce nella sua manifestazione più genuina e gioiosa di tutte: la festa paesana. Sono serviti secoli di regolamentazione spagnola, per arrivare a un “modello” di Carnaval accettato un po’ da tutti: a turbare la sovranità spagnola era infatti l’interpretazione pagana—in cui si ringraziavano gli dei per l’inizio della stagione delle piogge, proprio nel mese di febbraio—data alla festività, dalle comunità native.
Nella “sierra” (montagna, inteso come Ande) il Carnaval consiste, esattamente come qui, in una parata in città di bande e gruppi di ballo tradizionale, che suonano e danzano sfrenatamente per tutta la durata della sfilata. Il Carnaval è insomma un’espressione a metà tra il religioso e il profano, il terreno e il cosmico, e sfrutta questi elementi per esorcizzare tutto ciò che è motivo di sofferenza per la popolazione. Non a caso nella tradizione andina, si delinea una ricorrenza nell’interpretare a festa canti dai temi e argomenti tutt’altro che felici.
Con queste premesse è possibile approfondire con più consapevolezza alcune dei canti/danze che incarnano al meglio un modo di appropriarsi della musica andato quasi del tutto perduto, anche a causa dei forti complessi di inferiorità che molti popoli hanno ereditato dal razzismo post coloniale. Ma di questo parleremo più avanti.
Huayno
Se il Carnaval è un genere che pone le sue basi attorno a una particolare modalità di festeggiamento, il huayno è il ballo/canto folklorico andino per eccellenza. Anche qui l’accompagnamento musicale varia di zona in zona, e come il primo, si distingue per variabilità di tematiche messe in musica: molte canzoni parlano di ingiustizie, amori non corrisposti (Ojos Azules, Aguas del Rio Rimac) o anche solo piccole tragedie di villaggio come la morte di un paesano, o la sua dipartita verso le grandi città della costa. A ricorrere infatti sono i temi nostalgici e gli addii alle terre natie (Adios Pueblo De Ayacucho, Huerfano Pajarillo).
Molto spesso però prevale l’allegria paesana, l’amore o le rimenescenze degli antichi culti per la terra, il sole, la luna, e via dicendo. L’intenso sentimento di gratitudine e rispetto nei confronti della natura, è qualcosa a cui noi, semplicemente, non siamo mai stati educati.
Huaylasrh
Musicalmente vicino al huayno, il huaylasrh ha origini agricole, legate alla raccolta dei prodotti coltivati nei campi—prevelantemente patate, mais, e altri cereali. Nasce a sud delle Ande, nelle regioni di Cusco e Huancavelica.
Yaravì El Condor PasaFortunatamente la diffusione di questi canti e danze non è solo un modo di intrattenere i turistoidi, bramosi di trarre esperienze formative dal fantomatico “viaggio in Sudamerica.” Molti artisti hanno dato interpretazioni musicali particolarmente importanti alle loro opere, e con la loro attitudine, hanno contribuito al processo di riappropriazione di identità in primis dello stesso popolo a cui appartengono.
Luzmila Carpio
La prima che mi viene in mente è Luzmila Carpio, attuale ambasciatrice boliviana in Francia, che sin da inizio carriera, negli anni Settanta, ha difeso la tradizione storica ed artistica di Bolivia, Ecuador e Perù. Nei suoi testi, quasi tutti in quechua e aymara, ci sono i valori appresi durante l’infanzia trascorsa a stretto contatto con la cultura nativa, in un paesino poco fuori Potosì, in Bolivia. “Uso il linguaggio della musica della mia gente, degli “indios”, delle nostre montagne, dei laghi, dell’aria che respiriamo. Canto del mio amore per la terra che mi ha visto nascere, la terra dei miei antenati. Parlo di pachamama (madre terra), dell’armonia dell’amore e del ruolo della donna nella nostra civiltà, della convivenza tra uomo e natura in un ordine cosmico, delle nostre tradizioni, che non devono andare perdute.”
Martina Portocarrero – Flor De Retama “Il sangue del popolo ha un buon profumo. Sa di gelsomini, viole, gerani e margherite, polvere e dinamite… cazzo! Polvere e dinamite, Cazzo!”Un grande classico della mia infanzia, nonché della protesta popolare negli anni del conflitto armato interno, tra gli anni Ottanta e i Duemila, in Perù. Il compositore del huayno è Ricardo Dolorier, che lo scrisse nel 1969 come commemorazione dei venti civili uccisi—perlopiù contadini e studenti—in un assalto della polizia (“sinchis”) a Huanta, lo stesso anno. Lo scontro era dovuto alle riforme scolastiche approvate dal governo nello stesso periodo, che avrebbero visto cadere buona parte del diritto allo studio, fino ad allora garantito a tutti, figli dei contadini compresi. La “flor de retama” non è altro che la ginestra, che, secondo la canzone, cresce rigogliosa nella piazza dove si è consumata la strage.
Negli anni della guerriglia militare di Sendero Luminoso (le nostre Brigate Rosse), il canto venne reso inno della mobilitazione popolare, e tutt’ora è emblema della lotta contadina peruviana. Quella di Martina Portocarrero è indubbiamente l’interpretazione migliore.
Raul Garcia Zarate
È uno dei più abili chitarristi peruviani, e ha suonato praticamente ovunque nel mondo, forse addirittura più in Europa che in America Latina. Proviene da Ayacucho, regione andina situata a centro sud del Perù, e in origine suonava assieme ai tre fratelli, dedicandosi sempre alla composizione e interpretazione di huaynos tradizionali Ayacuchani. La sua abilità con la chitarra classica lo ha reso famoso in tutto il mondo, e sempre a detta di mio babbo, “è anche grazie a lui e al suo prestigio universalmente riconosciuto, se molti peruviani non si vergognano della loro musica.”
José Maria Arguedas
Arguedas era uno scrittore e antropologo (forse il più importante, in Perù) originario di Apurimac, regione confinante con Ayacucho e Cusco, sempre nel centro sud del paese. La sua vita è stata relativamente breve e poco goduta—si è sparato in testa all’età di cinquantotto anni—ma la sua eredità è stata fondamentale, almeno per quella fetta di popolazione legata alla tradizione contadina, che tanto è stata umiliata ed emarginata in primis dai conterranei, nei secoli. Le testimonianze di questa sofferenza, vissuta sulla sua stessa pelle durante l’infanzia, sono prevalentemente nei suoi libri, ma talvolta anche nelle interpretazioni cantate di huaynos, come quello qua sopra. Rigorosamente in quechua, ne “La canzone della trebbiatura dei fagioli” ciò che strugge è proprio la semplicità lacerante della sua voce.
La musica folklorica andina, naturalmente, è molto più di quanto raccontato qui. Le mie sono semplici suggestioni nate in famiglia, di cui ho saputo fare tesoro solo recentemente. A fare specie in queste circostanze è la bizzarria del comportamento degli autoctoni, cresciuti con in testa un germe coloniale che li spinge a non considerarsi parte di questo patrimonio, tanto immenso quanto vulnerabile. Me compresa ovviamente, e
se nel mio caso posso dare la “colpa” all’essere cresciuta in Europa, nel caso del popolo peruviano, boliviano, ecuadoreno, è il puro e semplice razzismo a rappresentare il principale ostacolo all’ottenimento della tanto bramata “libertà” di un popolo che, se ci pensiamo, libero davvero non lo è mai stato.
Quando questi moti di esclusione nei confronti della cultura andina, dei suoi abitanti bassini e dalla pelle bruciata dal sole verranno superati, allora forse anche il huayno, il carnaval, la saya e via dicendo, entreranno nella scintillante vetrina dei generi latinoamercani in cui l’Occidente ha riposto con cura, salsa, merengue, bachata, tango etc. Ciò non toglie che sia comunque molto più importante auspicare a una progressiva liberazione di quei popoli affetti dal morbo post coloniale, prima ancora che alla nostra. Anzi, direi che è fondamentale. Spero che almeno parlarne sia un punto di partenza.
Yo no quiero ser el hombre / Io non voglio essere l’uomo
que se ahoga en su llanto / che affoga nel suo stesso pianto
de rodillas hechas llagas / con le ginocchia fatte piaghe
que se postra al tirano / prostrate davanti al tiranno
Yo quiero ser como el viento / Voglio essere come il vento
que recorre continentes / che ricorre continenti
y arrasar tantos males / e distruggere tutti i mali
y estrellarlos entre rocas / e li getta sulle pietre
No quiero ser el verdugo / Non voglio essere il carnefice
que de sangre mancha el mundo / che di sangue macchia il mondo
y arrancar corazones / spezzando quei cuori
que amaron la justicia / che hanno amato la giustizia
y arrancar corazones / spezzando quei cuori
que buscaron la libertad / che hanno cercato la libertà
Yo quiero ser el hermano / Io voglio essere il fratello
que da mano al caído / che aiuta chi è caduto
y abrazados férreamente / e abbracciati strettamente
vencer mundos que oprimen / vinceremo i mondi che ci opprimono
Fuga
Por que vivir de engaños cholita / Perché vivere di inganni, contadinella
de palabras que segregan veneno / di parole che riversano veleno
acciones que martirizan al mundo / azioni che martirizzano il mondo
¡Ay! Sólo por tus caprichos, dinero / Ah, solo per i tuoi capricci, denaro
¡Ay! Sólo por tus caprichos ,riqueza / Ah, solo per i tuoi capricci, ricchezza.
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