“E se mi chiudi in casa finché mi passa?” – I miei dieci anni a Milano con un eroinomane

Penso che A.* sia uscito dalla comunità, perché da qualche settimana dà segni di vita: ha postato qualche foto, risposto ai commenti, scritto una nuova entrata sul suo Tumblr, cose del genere. Gli ho scritto, ma non mi ha risposto.

L’ultima volta che l’ho visto è stata tre anni fa, e in tutto questo tempo non ho mai tentato di contattarlo direttamente: gratto qualche informazione su di lui alla sorella, quando mi capita di incontrarla in giro, ma quel tipo di conversazioni si riducono sempre a degli inespressivi “Mi pare che stia meglio”, buttati lì con imbarazzata circostanza mentre tentiamo entrambe di trovare un appiglio per parlare d’altro.

Videos by VICE

A. e io ci siamo conosciuti quando andavamo alle medie, e il nostro è diventato da subito quel tipo di rapporto stranamente intimo—per quanto casuale—che ti capita di intessere solo durante la prima adolescenza. Possedevamo entrambi quella specie di disarmo sociale che genericamente ci piaceva considerare “sensibilità”, e credevamo di essere in sintonia su un sacco di cose che a ben vedere non avevamo nemmeno del tutto individuato: A era un ragazzo piuttosto acuto quando era in vena, ma aveva una goffaggine pervasiva che lo rendeva, a giorni alterni, sia rassicurante che velatamente patetico. Quando non entrambe le cose.

Ci sentivamo continuamente, anche se era difficile vederci perché suo padre era una figura quasi totemica e incombente: “Devo andare, papà mi aspettava per le 11,” “Non posso saltare gli allenamenti, papà si arrabbia.” Negli anni in cui tutti cercavamo di affermarci come individui, lui dava sempre l’idea di d’essere completamente rassegnato e impotente di fronte a questo genere di cose, e per un po’ di tempo ho creduto che fosse questa laguna di traumi borghesi la causa di tutto quello che gli è capitato.

Il liceo lo abbiamo trascorso tra feste improvvisate in zone industriali e pretese di maledettismo su libri che non capivamo. A. fumava erba e non era capace di provarci con le ragazze. Anche per questo tra noi si era cementato un rapporto intimo, perché io allora scoprivo la mia omosessualità e lui poteva risparmiarsi le turbe sulla nostra amicizia asessuata.

Durante il penultimo anno di liceo aveva cominciato a passare più tempo con i punkabbestia e i raver, ma dato che la scuola era piccola e che ci conoscevamo tutti, non abbiamo dato troppo peso al fatto che ci stavamo allontanando. La mia sensazione era che il rapporto tra loro non fosse paritario, che lui volesse farsi accettare da quel gruppo senza riuscirci. In modo istintivo i suoi nuovi amici sapevano che era il ragazzo debole e perbene, che non riusciva a “fregarsene” senza sentirsi in colpa.

Dopo qualche tempo che aveva cominciato a bazzicare questo gruppo, l’estate dell’ultimo anno di liceo, si è fatto per la prima volta—non perché gli fosse stato richiesto o offerto, ne sono certa, ma perché voleva dimostrare di essere arrivato a un certo “livello”. Che era, ironicamente, l’unico a ritenere importante.

Erano settimane che non lo vedevo, e insieme ad altri amici l’avevo invitato a vedere un film: è arrivato con un’ora e mezzo di ritardo, a film finito, e si è sdraiato sul pavimento aspettando che gli altri se ne andassero. Poi, con lo sguardo di chi sta tentando di millantare nonchalance, mi ha raccontato che si era appena bucato. Sul momento non posso dire che la cosa mi abbia turbato più di tanto: la situazione mi metteva a disagio, ma non ho mai avuto né le categorie mentali né la stabilità di giudizio perché una notizia simile mi toccasse.

Insomma, ho sempre avuto un rapporto amichevole con le droghe. L’eroina non mi aveva mai preoccupato come “problema” esistenziale o etico: quando ha iniziato a esistere nel mio panorama, è sempre esistita come problema reale, con implicazioni reali—non ho mai avuto la lucidità di considerarla una cosa in sé.

Tutti i pomeriggi A. passava da casa mia a farsi, raccontarmi di scazzi e pischelle, e rimanere al telefono ore per le interminabili chiamate dei tossici per decidere dove andare, chi vedere, da chi comprare. Per qualche motivo, i giri di telefonate tra tossici sono talmente complessi che mi hanno sempre ricordato la burocrazia. In qualche modo mi rendevo conto che tutto quello che A. mi raccontava succedeva nel suo cervello: erano turbe, ansie, prospettive su un bacio che ci sarebbe stato o meno, ma l’effettiva azione non veniva mai.

È stato allora, credo, che ho cominciato lucidamente a pensare (e non so se ad oggi siano la rabbia e la preoccupazione a farmelo pensare, o se davvero non ho cuore) quanto la storia delle turbe borghesi, con relative forme di ribellione, sia una stronzata: A. possedeva una strana forma di superficialità selettiva verso certe cose, ed era finito in quella situazione senza alcun apparente motivo.

Quando siamo andati all’università, mia madre mi ha preso in affitto un appartamentino dall’altra parte della città. In quel periodo, galleggiavo: le esagerazioni, non capivo la mia sessualità, la situazione famigliare, l’ansia dell’università e delle responsabilità domestiche mi avevano reso più distaccata e più dura, ma anche bisognosa di un affetto stabile e gratuito, che cercavo in A. In seguito però è stato più facile ammettere che erano due le occasioni in cui mi telefonava più spesso: in rota per chiedermi di prestargli venti euro, o tutto fatto per dirmi che se fossi andata a casa sua avremmo scopato, “cioè, non scopato perché non ce l’avrebbe fatta, ma potevamo abbracciarci.”

Nei weekend lo passavo a prendere per portarlo dai suoi amici, che si ritrovavano in birrerie orribili a fare niente. Ogni tanto, se ero l’unica con la macchina, si fumavano le stagnole a turno sul sedile del passeggero. Nessuno mi ha mai invitato a provare, e di questo sono grata e un po’ stupita, se ci penso. Erano anche amici miei, a quel punto, ma sapevo che eravamo reciprocamente estranei.

Non che quella vita di birrerie orribili non fosse stata anche la mia, è solo che aveva cominciato a pesarmi. E A. era sì il mio migliore amico, ma raccontargli di quando mi innamoravo o degli esami era come raccontare a mio nonno quando andavo a trovarlo in ospedale: a una persona che li vede dalla distanza, che ne ha un vago ricordo. Ma lui di queste cose non aveva nemmeno il ricordo, non ne aveva mai fatto esperienza—aveva smesso di andare all’università, senza dire niente ai suoi, dopo appena qualche mese; costruiva rapporti platonici con 15enni. Mi pareva allo stesso tempo così piccolo, e così più vecchio di me.

I nostri vecchi amici si erano stufati della sua inaffidabilità (non rispettava un orario, quando si presentava a un appuntamento; non faceva mai quello che aveva detto che avrebbe fatto etc) e delle richieste di soldi, ed erano gli anni in cui ognuno andava per la propria strada. Io invece continuavo—senza chiedermi se facevo bene o male, ma per puro affetto—a dargli soldi e ospitarlo a casa quando non sapeva dove andare e pensavo, “Meglio che abbia qualcuno su cui contare, qualunque cosa succeda.” Davanti a me A. si faceva le pere e rimaneva a collassare appoggiato alla vasca da bagno, dicendomi “Voglio smettere,” non so se per rassicurare me o lui. È vero, a posteriori non so quanto quello che provavo fosse amore e quanto personale titanismo, e quando voglio buttarmi giù penso che una persona che gli volesse bene davvero non avrebbe dovuto dargli soldi per comprarsi l’eroina, né accettare di essere lì.

Credo di aver cominciato ad allontanarmi quando mi sono resa conto che mi faceva fare quello che voleva, che parlava sempre e solo di droga e che—mi sento terribile a scriverlo, ma è andata così—la mia vita stava andando avanti, e lo stavo lasciando indietro. Durante la sessione estiva del secondo anno di università ho cominciato a non rispondere al telefono o a non avere contanti da prestargli. Mi sentivo in colpa: l’avevo abbandonato, ma è durata poco come presa di posizione, perché in capo a un paio di settimane non mi chiamava quasi più.

I suoi genitori a quel punto lo sapevano. A settembre di quell’anno l’hanno mandato in una comunità in Svizzera. Ero a cena da mia madre quando mi ha scritto di andare a salutarlo, che sarebbe partito l’indomani. Salutarlo è stato ovviamente inutile perché si era fatto una pera, e l’ho guardato infilare con lentezza degli stivali di gomma e il disegno che gli avevo portato nel borsone. Ricordo che uscendo ho incontrato lo sguardo di suo padre: esausto, sembrava voler soppesare quale fosse la mia responsabilità in tutto questo. So che sapeva che non mi facevo perché D., la sorella di A., lo sapeva—eppure, potevo dire che le mie responsabilità erano zero? Essergli stata vicina sempre e nonostante tutto mi rendeva un personaggio positivo o negativo?

Così, nel 2009, A. è entrato in comunità. Da allora ne è entrato e uscito, ne avrà cambiate una decina senza mai arrivare al termine del percorso. Dalla prima è scappato: mi ha telefonato a inizio gennaio dell’anno successivo fatto marcio che era in macchina con qualcuno, “Posso dormire a casa tua? Posso rimanere un po’ da te, mi chiudi in casa finché mi passa?” e io gli ho detto sì—pensavo avesse finito il programma e ci fosse ricascato subito, non so cosa pensavo. Succedevano sempre cose così subitanee con lui che bisognava solo essere pronti. Gli ho chiesto dove fosse, mi ha detto un posto dall’altra parte della città. Gli ho detto dimmi dove sei e scendi da quella macchina, vengo a prenderti. Era l’una di notte, avevo un esame due giorni dopo e stavo cercando di incollare delle colonne portanti su un plastico. È caduta la linea. A quel punto non sapevo se chiamare sua madre, ma non avrei saputo cosa dirle. “Non so dove sia A., è in macchina con uno sconosciuto e temo che si schiantino o muoiano d’overdose.”

Intanto il telefono da cui mi aveva chiamato era staccato, e ricordo bene che pur essendo preoccupata da morire avevo anche una strana sensazione di vuoto, e un pensiero bizzarro mi ha attraversato il cervello: ero sollevata perché non avrei dovuto mettere il mio—appena trovato—coinquilino nella situazione di convivere con A., che nel migliore dei casi avrebbe sbacchettato e vomitato per tutta la casa.

Nel primo pomeriggio successivo mi ha chiamato sua sorella, mi ha chiesto se quella notte lo avessi visto. Mi ha detto cos’era successo: A. era scappato dalla comunità qualche giorno prima, ed era tornato dai suoi genitori. Il pomeriggio aveva detto che sarebbe venuto da me, ma in realtà aveva visto uno degli amici-pub e insieme avevano comprato eroina e cocaina. Quando mi aveva chiamato se l’erano già fatta tutta. L’hanno trovato addormentato sul mezzanino di casa dei suoi, la mattina dopo. Non si era portato nemmeno le chiavi per rientrare.

Quando D. mi ha chiamato, esasperata, le ho detto no, che l’avrei avvisata se fosse stato da me. Mi ha risposto, “Certo, immaginavamo,” come se non ci credesse affatto. O era solo stanca. Non sapevo cosa fare, ho detto al telefono a mia madre, in lacrime, poco dopo.

Qualche giorno dopo è finito in overdose. Quando è uscito dall’ospedale, eravamo ormai lontani: lo invitavo a fare cose con me ma ero la prima a sentire che lo stavo facendo non più per un legame ma per gentilezza, per dimostrare qualcosa. Andavamo ogni tanto al cinema, sua madre mi raccomandava di tenerlo d’occhio, ma io non pensavo ce ne fosse bisogno: pensavo che almeno per proteggere me non avrebbe fatto cazzate. Una sera è venuto a un reading di poesia, a metà del primo tempo è andato in bagno. Mentre tornavamo a casa mi ha detto che aveva pensato di scappare, ma poi si era fatto ed era tornato tranquillo. Progressivamente, ha ricominciato a uscire con i vecchi amici dell’eroina.

L’ultima volta che l’ho visto dovevamo andare al cinema, ma prima voleva passare per forza in un posto. Il posto era la casa di una coppia di tossici. Avranno avuto massimo tre-quattro anni più di noi, ma avevano già una figlia, e siccome volevano farsi senza interruzione quel pomeriggio, l’avevano lasciata alla madre di lei. Mentre preparavano l’occorrente e chiacchieravano di cose inutili, il telefono della ragazza continuava a squillare: era la madre della ragazza che voleva sapere quando avrebbe potuto riportare a casa la bambina. Dopo la seconda telefonata la ragazza è quasi impazzita, ha urlato una serie di oscenità alla madre, e ha staccato la batteria dal cellulare.

Mentre cercavo con tutta me stessa di estraniarmi da quella situazione degradante, ricordo che mi ha colpito come una coltellata il pensiero che A. non era, e non voleva essere ormai da tempo, distinguibile da quelle persone. Se ne stava lì, tranquillo e impassibile a ridacchiare, aspettando che fosse tutto pronto per bucarsi.

Per lui non c’era più differenza tra tutti “noi”: io ero solo un’altra persona da cui scappare, che stava dalla parte dei grandi e dei buoni. Nell’anno che ne è seguito ho sviluppato una gran rabbia, verso la sua famiglia perché mi sembrava che mi avesse dato una responsabilità enorme, e verso di lui perché non ha mai fatto niente per proteggermi, per aiutarmi a essere responsabile di lui. Lo so che è un pensiero egoista, come so che in quello che ha fatto c’entrano la depressione, la mancanza di affetto, un sacco di fattori che io ero e sono incapace di valutare.

Dopo quell’episodio, il tempo e i ricordi si fanno confusi: ha fatto dentro e fuori dalle comunità, ha passato vari periodi da vari parenti che hanno cercato di farlo sentire amato e dargli fiducia—e furti e fughe si sono ripetuti. Nel 2013 ha tentato il suicidio la prima volta, in comunità. L’anno scorso ha rischiato di morire di nuovo facendosi di eroina dopo aver preso il suboxone. So poco altro di lui perché non ho il coraggio di chiedere: ho paura di quello che mi potrebbero rispondere. Ho paura sia che mi dicano che è morto o che mi dicano che è vivo, che è uscito, che è il momento in cui si rende conto che è troppo tardi per imparare a vivere. Se lo conosco, è anche questa una condanna a morte. E io preferisco essere arrabbiata con lui che avere il coraggio di pensare all’eventualità.

*I nomi sono stati cambiati per proteggere le persone coinvolte.

Thumbnail via Flickr – Lauri Rantala