Mi ha sempre affascinato/turbato che l’elettronica più promettente e seguita degli ultimi 2-3 anni, quella che per definizione travalica l’idea di “genere”, il più delle volte di generi ne accorpa eccome, quasi sempre legati a culture di appartenenza o di riferimento distanti—in senso geografico e stilistico—da quella di partenza. Suona come un controsenso: la world music è il futuro ibrido dell’elettronica, ma i generi da cui attinge sono tutt’altro che inesistenti. Sono appunto insiti nella parola “world”, e, se ben interpretati, rimandano al concetto di musica pop, popolare, appartenente al popolo. Non si tratta di uno sguardo dall’alto verso il basso: alla base dei meccanismi di assimilazione e ibridazione dell’elettronica che oggi Boiler Room, Club To Club, Unsound Festival, ma pure Wire, Fact e noi stessi promuoviamo, c’è proprio il contatto con una realtà pop spesso non-europea. Il risultato è la prolificazione di certe sonorità “di strada”, in forma più o meno evidente, in club/festival/release/label da tutto il mondo, con un pubblico vertiginosamente allargato rispetto a quello originario. Poi spiegherò bene perché non vado pazza per l’espressione “di strada.”
Ora, ha poco senso soffermarsi sul fantasma dell’appropriazione culturale, onnipresente quando si affrontano certi temi, perché per certi versi questa è una riflessione che lo neutralizza. “Appropriarsi” di una cultura è un concetto tanto relativo quanto reale e corrente, specie nell’arte. È pressoché impossibile ritagliarsi uno spazio in cui l’accumulazione e rielaborazione di elementi “altri” dalla cultura di appartenenza, che siano musicali, letterari, visivi o filosofici, non venga interpretata—specie dai legittimi detentori—come impropria. Colpevole è la successiva mercificazione. È un cane che si morde la coda; in arte viene prima l’accrescimento culturale, fatto anche di contaminazioni, o la dignità di chi quella cultura la vive da sempre sulla pelle, senza bisogno di corromperla col mercato? Fin qui nulla di nuovo, eravamo già al corrente della controversia del caso, dei suoi pro e contro, e della sua capillarizzazione in un tessuto creativo che dipende quasi esclusivamente dalle dinamiche di mercato. Ci sono due modi di osservare il fenomeno, entrambi validissimi ma ahimè opposti; il primo consiste nel diffidare da ogni rassicurazione sugli intenti di una cultura che traspone certi elementi di un’altra nella propria, il secondo nell’interpretarlo come una potenziale risorsa. Mi pare evidente che, viste le premesse, abbiamo scelto il secondo.
Il “problema” silente in molte comunità di musicisti/ascoltatori che si professano attratti dalle nuove frontiere di fluidità musicale, è che storcono un po’ troppo il naso di fronte a ciò che non quadra con il loro personale ideale di sperimentazione. Se in mezzo a un set di un qualche artista X, uscito su NON, NAAFI, Halcyon Veil et similia, parte il pezzo trap, reggaeton, o semplicemente pop commerciale, vedi Beyoncé, Rihanna o Craig David, in molti ambienti cosiddetti underground, la gente si imbroncia in tempo zero e va dal suddetto dj a chiedere “la cassa”. So benissimo che ormai anche la-richiesta-della-cassa è diventato un meme, quindi no, non la nominerò più, ma ecco un po’ enunciata la questione: perché si fa così tanta fatica a conciliare il mito dell’underground con molte delle sue—inconsapevoli—matrici pop?
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Questo senso di scomodità di fronte all’utilizzo del termine “pop” inteso come “cultura popolare” da cui siamo nostro malgrado assorbiti, è dovuto all’impossibilità di ridurlo, per l’appunto, a un solo significato. Gran parte della produzione elettronica cui noi in primis ci interessiamo per la ricchezza di stimoli (sociali, politici, culturali, ecc.) che è in grado di suscitare, ha influenze aliene alle definizioni canoniche di musica “underground”, e spesso le rivendica orgogliosamente in maniera esplicita, con buona pace dei puristi principi della guerra contro-il-commerciale. C’è uno snobismo smisurato verso quel terreno eterogeneo e “sporco” di materia prima commerciale, creata quindi ad hoc dall’industria pop, cui molti artisti sperimentali affondano le mani, per evolversi in termini di stile ma soprattutto di cultura. Certo, può essere tutto ridotto a gusti, e allora sticazzi, dovrei starmene zitta per sempre. Come mi permetto di giudicare i gusti altrui? Il punto è che a voler essere più profondi, si capisce subito che non è una semplice questione di preferenza individuale. Il trend è reale, e basta vedere i commenti Facebook alle Boiler Room di Staycore, per rendersi conto dell’ottusità di intere scene musicali—nel caso di Staycore, dei technolesi casi umani che non riuscivano a comprendere il senso di un set non-techno.
Che lo vogliamo o no, TUTTO il panorama musicale ibridato, eterogeneo e polimorfo attinge a contesti sociali, urbani e storici che trascendono dalle nostre seghe mentali su cosa è underground e cosa no. Nasce, cresce e prolifica in ambienti popolari, e da qui il collegamento con la premessa iniziale, ovvero i suoi unici referenti e consumatori sono le persone che lì ci vivono fisicamente, favela, barrio, o quartiere che sia. Non mi piace denominarla musica “di strada” perché la trovo un’espressione riduttiva e anche un po’ classista, benché sia consapevole che molto è usata molto più comunemente come contrapposizione agli spazi protetti, privati, accessibili solo a chi se lo può permettere—leggi: la musica “autentica” di un dato popolo/posto non deve per forza provenire dall’asfalto delle strade, ma anche da semplici case, palazzi, prati, campagne, steppe, deserti. Nell’elettronica “genreless” odierna è proprio il passaggio da un ambiente all’altro ad essere indigesto: DJ set di un artista come Lotic, che su disco soddisfa i palati di chiunque, dal ghettotech sofisticato, al curioso neofita che si è rotto le palle del noise industrial, vengono snobbati proprio da categorie come queste ultime, perché poco conformi al prodotto offerto originariamente. La riduzione più frequente è quella a “zarri”, “commerciali”, privi di sufficiente inventiva sperimentale.
Moro, Kablam, Toxe, Kamixlo sono solo alcuni dei nomi che mi vengono in mente per esemplificare quanto detto fino ad ora. Durante i loro set c’è sempre il momento in cui l’onore degli aficionados dell’underground viene messo alla prova da intramezzi pop, reggaeton, a volte pure trash anni Novanta. Il caso del reggaeton è più esaustivo: difficilmente viene visto come genere sperimentale o d’avanguardia, anzi spesso è ostracizzato per i continui—e purtroppo reali—rimandi sessisti. Eppure Heterocetera di Lotic trasuda reggaeton, così come qualsiasi release/DJ set di Dinamarca o Arca. Guarda caso a demonizzarlo sono le stesse persone che per i singoli dischi di questi artisti hanno stravisto. Come già notato altrove, non ci sono particolari esempi italiani di generi musicali pop in grado di dar vita a nuovi tessuti culturali. Ci ritroviamo a relazionarci con un pop appartenente a realtà rigorosamente estere, a loro modo estranee ai ricatti del mercato occidentale—ma neanche così tanto ormai.
La tribal messicana, cioè una strana litania ossessiva di tamburi a cui spesso vengono sovrapposti jingle eurodance buffissimi, è onnipresente nelle release NAAFI. Il palpito delle favelas di Rio, il funk carioca o baile funk—i cui producer sono INFINITI e sfornano tracce da combattimento letteralmente ogni giorno—risuona distinto in Furiosa di Kablam, ma pure in molte release di Salviatek, l’etichetta di Lechuga Zafiro, Toxe, Elysia Crampton—adoro che sul suo Soundcloud definisca la sua musica “crunktribalosa”—MM, e chissà quanti altri. Sono generi con tempi e ritmiche ben precise, che sono solite prolificare in ambienti in cui le definizione di “sperimentale”, “underground” e “alternativo” passano in secondo piano, perché si preferisce il linguaggio del corpo a quello della mente. Il ballo è un elemento cruciale: attraverso esso gli individui si autodeterminano, e la musica diventa veicolo di liberazione. Per questo è estremamente prezioso che quest’ultima si schiuda dal proprio nido e pulluli in giro per il mondo, specie se di mezzo c’è la dimensione corporea della danza—e in ognuno di questi casi c’è. La gqom di Durban, Sudafrica, intercettata da Gqom Oh! di Nan Kolè, è un esempio cristallino di come un genere da club, diffuso inizialmente dai taxi, e amato da pressoché tutta la popolazione giovane della città, stia finalmente ricevendo i riconoscimenti che gli spettavano dal resto del mondo. E potrei continuare ancora per molto, con la kuduro, l’afrobeat, ma pure, per tornare in Sudamerica, la cumbia, la saya, il candombe e via così per altre ore.
Pure il pop inteso in senso commerciale, cioè appartenente alla cultura mainstream spesso anche scadente in trash, ha un suo ruolo essenziale. Tutti gli edit di pezzi pop, rigurgitati in forma alienoide con sotto drums baile funk, crunk o ballroom di Crampton, Chino Amobi, ma anche || FLORA, Retina Set, non sono stati smembrati con fare futurista per mancanza di creatività. A prescindere dallo stile aggiunto, leggo in queste forme di riarrangiamento della hit pop, la voglia di conferire alla stessa un nuovo tipo di fruizione, stimolata da input sonori che ne valorizzano la decontestualizzazione.
Questo neo-metabolismo della musica però, è troppo spesso condizionato dal giudizio aprioristico secondo cui: hit pop = commerciale = troppo poco sofisticato per me. Addirittura si arriva a bollare come vigliacchi gli artisti che “su disco suonano in un modo, dal vivo mettono il trash”. Come sempre mi rendo conto di star a mia volta giudicando aprioristicamente una reazione del genere; non sto dicendo che, nella world music elettronica, i frutti degenerati della cultura pop e “di strada” debbano piacere per forza, ma che almeno ne venga riconosciuta la grande dignità di appartenere a una fetta di popolo. Se un genere viene immediatamente ostracizzato dalla cultura di massa—sì, perché anche quella dell’underground immobilista lo è—in quanto “tamarro”, siamo liberi di mandarla pure a cacare, quella cultura. Assieme a tutto il mito dell’underground che si porta dietro. Come mi disse a luglio Moro, a cui poi devo lo spunto per questo articolo: “Ciò che è del popolo è di tutti noi, ed è da terreni come questi che nascono SEMPRE i frutti migliori. Dalla cultura pop abbiamo solo da imparare.”
Sonia è su Twitter: @acideyes.
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