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La Nuova Zelanda potrebbe usare l’ingegneria genetica per eliminare le specie invasive

Lo scorso anno, la Nuova Zelanda ha lanciato un piano per eliminare tutte le specie di predatori invasive entro il 2050. Per predatori invasivi si intendono ratti, possum, donnole, ermellini, furetti, e tante altri animali introdotti nel paese e che stanno distruggendo la fauna autoctona. La Nuova Zelanda è composta da due grosse isole e un piccolo arcipelago, e l’obiettivo, in questo caso, è che al termine del programma non ci sia più neanche un ermellino a calpestare i territori neozelandesi. Per riuscirci, dovranno dispiegare uno sforzo mai visto prima, e utilizzare nuove dirompenti tecniche, come l’ingegneria genetica.

Sono più di mille le isole sparse in tutto il mondo che hanno eliminato specie invasive grazie a programmi di “mega eradicazione” come nelle Galapagos, dove diverse isole sono state finalmente liberate da ratti e topi invasivi che hanno portato le tartarughe giganti locali sull’orlo dell’estinzione.

L’isola più grande mai liberata da predatori invasivi è Macquarie Island, il punto più meridionale dell’Australia, nel mare antartico. Un isola quasi disabitata con una superficie di centoventotto kilometri quadrati. Per eliminare conigli e ratti dall’isola, nel 2007 è iniziato un progetto pluriennale che ha incluso il rilascio controllato del virus della febbre emorragica dei conigli per sfoltire la popolazione, lancio di esche avvelenate per ratti tramite elicotteri su tutta la superficie dell’isola, e caccia al suolo coi cani per individuare ed eliminare i superstiti. Dopo solo due anni dal termine del progetto è chiaro che l’operazione sia stata un enorme successo, con almeno 8 specie di uccelli in via di estinzione la cui popolazione si è già ripresa abbastanza da essere derubricati dall’IUCN.

Dall’arrivo in Nuova Zelanda delle specie invasive (esseri umani inclusi) circa 750 anni fa, il numero di specie native di vertebrati si è dimezzata.

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La Nuova Zelanda, invece, misura duecentosessantotto 268.000 kilometri quadrati mila km quadrati, poco meno dell’Italia, “solo” duemila volte più grande di Macquarie. Se guardassimo solo alla dimensione da coprire, sarebbe come se dopo aver corso una maratona decideste che siete abbastanza allenati per fare giro della Terra sull’equatore a piedi. Due volte. A cui si deve aggiungere il fatto che la Nuova Zelanda non è quasi disabitata, ma c’è traffico di uomini, merci, animali, città e anfratti vari in cui possum e ratti possono nascondersi.

I ricercatori ritengono che l’impresa in Nuova Zelanda sarebbe possibile nell’arco di 35 anni, e certamente sono consapevoli dei potenziali effetti indesiderati che questa operazione potrebbe avere sulle specie locali. D’altro canto, dall’arrivo in Nuova Zelanda delle specie invasive (esseri umani inclusi) circa 750 anni fa, il numero di specie native di vertebrati si è dimezzata, e la velocità di estinzione sta continuando ad aumentare da quando, nel tardo diciottesimo secolo, sono arrivati gli Europei. 

Pterodroma lessonii, uno degli uccelli marini che è passato da “Minacciato” a “Specie a rischio minimo” grazie alle operazioni su Macquarie island.

La Nuova Zelanda è in qualche modo l’esempio più emblematico di come certe specie invasive possano causare catastrofi ecologiche a cascata. Gli Europei, durante la colonizzazione, portarono i primi conigli nel paese: nel nuovo ambiente, senza predatori, la popolazione della specie crebbe a velocità vertiginose. Per cercare di fermare questa espansione, a metà dell’800, qualcuno ebbe l’idea di portare in Nuova Zelanda degli adorabili ermellini: sulla carta avrebbero dovuto cacciare e uccidere i conigli fino a ridurre le dimensioni del problema.

Invece di cacciare i conigli, però, gli ermellini diventarono a loro volta un temibile predatore invasivo, uccidendo ogni sorta di uccello locale incluso l’iconico Kiwi. Almeno 51 specie di uccelli si sono estinte in Nuova Zelanda dall’arrivo degli europei e degli animali che hanno portato con loro, e molte altre sono le specie sono sull’orlo di sparire per sempre, come i bellissimi Kakapi.

Secondo alcune stime, i predatori invasivi e i programmi di controllo costano alla Nuova Zelanda più di 2 miliardi di euro l’anno in produttività perduta.

Anche da un mero punto di vista economico le specie invasive sono un disastro. Secondo alcune stime, i predatori invasivi e i programmi di controllo costano alla Nuova Zelanda più di 2 miliardi di euro l’anno in produttività perduta. Ragione per cui il governo, dopo aver considerato una stima del 2015 per cui il progetto in totale sarebbe costato 9 miliardi di dollari (neozelandesi), ha deciso che il gioco vale la candela e ha dato il via libera ad iniziare il progetto.

Scalare i metodi tradizionali con cui si sono eliminati i predatori su altre isole non è affatto semplice. Esche, trappole e veleni sono contromisure efficaci su aree relativamente piccole: nell’isola di Rangitoto, sempre in Nuova Zelanda, ci sono voluti due anni di preparazione logistica e di conversazione con le popolazioni locali per avviare un’operazione che portato a sterminare i ratti invasivi i nel giro di 3/4 settimane.

Ma su due isole tanto grandi quanto quelle che compongono la Nuova Zelanda, le popolazioni iniziali di specie invasive sono troppo grandi per gli approcci tradizionali. Se una singola coppia di ratti fertili sfugge alla rete di eradicazione, questo può portare ad una popolazione di quindicimila ratti nel giro di un anno.

Guida pratica per sterminare gli ermellini invasivi: a occhio non sembra molto efficiente.

Serve quindi qualche strumento nuovo, flessibile e potente che permetta di andare oltre i limiti degli approcci tentati finora. E qual è l’approccio nuovo flessibile e potente che è ultimamente sulla bocca di tutti? CRISPR/Cas9, ovviamente.

Una delle strategie, impensabili fino a qualche decennio fa, che oggi si possono dispiegare grazie a CRISPR consiste nel cosiddetto ‘gene drive’. Si tratta di una tecnica che permette di garantire che un gene particolare venga sempre ereditato in una popolazione. Ci sono modi diversi per implementare la tecnica, ma il risultato finale è sempre il medesimo: possiamo costringere un carattere desiderato a diffondersi nella popolazione, anche se questo è sfavorito dalla selezione naturale.

Una delle applicazioni più famose del gene drive — nonché una delle più vicine alla reale implementazione su larga scala — riguarda le zanzare e la malaria: siamo riusciti, tramite l’ingegneria genetica, a creare delle zanzare immuni dalla malaria. Grazie ad un gene drive basato su CRISPR-Cas9, quando queste si riproducono sono in grado di passare l’immunità al 100% della progenie, invece che a circa il 50%, come vorrebbe il caso.

Una delle applicazioni più famose del gene drive riguarda le zanzare e la malaria: siamo riusciti, tramite l’ingegneria genetica, a creare delle zanzare immuni dalla malaria.

Rilasciando un numero sufficiente di queste zanzare in natura, il gene dovrebbe diffondersi nella popolazione e “vaccinare” tutti i moscerini dalla malaria, impedendo alla malattia di diffondersi. Tecniche simili ma che generano femmine sterili e quindi incapaci di riprodursi, sono già state dispiegate su scala ridotta in Brasile e Australia, riducendo la popolazione locale di zanzare dell’85% nel giro di un anno.

La stessa tecnologia è stata accolta da numerose proteste nelle Florida Keys, dove l’FDA statunitense ha approvato un test su scala più ampia per fermare la diffusione del virus Zika — In attesa dei primi rilasci, però, il dibattito sul tema continua a farsi sempre più teso.

In laboratorio e in prove su piccola scala, è stato dimostrato che le tecniche di gene drive possono funzionare almeno in insetti e lieviti. Ma oltre alle numerose e ovvie complicazioni sociali e politiche, tra popolazioni che non si fidano di queste nuove tecnologie, regolamentazioni e leggi che fanno fatica a tenere il passo con il progresso tecnico, e il dibattito morale su quanto sia moralmente eradicare intere specie per i nostri fini, ci sono anche complicazioni meramente scientifiche.

L’assurda efficienza della tecnica di gene drive preoccupa molti: se da un lato potrebbe servire a sterminare le specie invasive, dall’altra gli effetti sull’ecosistema potrebbero essere devastanti.

In primis, per non finire come con gli ermellini e i conigli, bisogna assicurarsi che l’uso del gene drive, sia reversibile. L’irreversibilità è una delle preoccupazioni principi per l’uso di questa tecnologia, al punto che la DARPA, l’agenzia americana per i progetti avanzati di difesa militare, ha recentemente indicato tra le sue priorità nella ricerca biologica trovare metodi sicuri ed efficaci per rendere reversibili i gene drive.

Sulla carta questi strumenti esistono già, e vengono chiamati gene drive a “collana di margherite” — In riferimento al concetto di Daisy Chain in informatica ma non sono mai stati dispiegati nel mondo reale al di fuori di qualche generazione di nematodi.

In secondo luogo, bisogna adattare queste tecnologie alle peculiarità genetiche e ecologiche specifiche delle varie specie su cui vogliamo usarle. Il governo neozelandese ha investito 28 milioni di dollari in un’iniziativa combinata pubblico-privato il cui scopo è testare nuove tecnologie e modi per eliminare specie invasive, e riuscire ad eradicare almeno un mammifero predatore in questo modo entro il 2025.

In particolare, in collaborazione con due team in Australia e Texas, stanno lavorando al primo gene drive in una popolazione di topi, che faccia nascere solo maschi per far collassare la popolazione in poche generazioni. D’altro canto, alcuni critici delle biotecnologie, tra cui la famosa primatologa Jane Goodall, Paul Watson di Sea Shepard e l’attivista indiana Vandana Shiva, hanno fatto un appello per un ban internazionale dell’uso di gene drive a fini conservazionistici.

Infine, anche ammettendo di riuscire a impiegare dei gene drive in queste popolazioni di mammiferi, non possiamo dimenticare che in campo c’è un altro giocatore, ben più paziente e ben più allenato a modificare specie tramite eredità differenziale attraverso generazioni: l’evoluzione.

Infatti, utilizzando troppo e male gli antibiotici, abbiamo favorito l’evoluzione più batteri resistenti e siamo già di fronte ad un disastro di proporzioni colossali, così potrebbe succedere con i gene drive. Se una mutazione che permette di sfuggire al gene drive compare nella popolazione, questa da un vantaggio selettivo tale che si diffonderà molto rapidamente in tutti gli individui. Se modifichiamo le zanzare di modo che siano immuni al parassita della malaria, di contro l’evoluzione favorirà i plasmodi che sono in grado di aggirare quell’immunità, se non riusciamo ad eradicarli abbastanza in fretta. Ci sono strategie per rallentare questo processo di evoluzione verso la resistenza, ma non possiamo fermarlo completamente, ed è fondamentale tenerlo presente prima di decidere di impiegarlo sulle popolazioni in cui è più probabile emerga resistenza.

Nonostante tutti gli ostacoli e i pericoli, la Nuova Zelanda è probabilmente il paese candidato più forte a dispiegare un gene drive in mammiferi, probabilmente partendo da topi o ratti, che conosciamo molto bene da un punto di vista genetico. Se almeno i primi rilasci andranno in porto per il 2025 dipenderà probabilmente dalla reazione dell’opinione pubblica di fronte all’uso di questa nuova strategia.

Se è vero che la Nuova Zelanda si è data complessivamente 35 anni per eradicare i predatori invasivi sul suo territorio, il momento di partecipare alla discussione sull’impiego dei gene drive, sulla loro messa a punto, e sulla loro liceità è già qui ed ora.