Música

La post-ironia ci seppellirà

C’è un punto nell’album di debutto di Ought, More Than Any Other Day, in cui il testo salta dal cinismo sottile all’euforia: all’improvviso tutto si illumina, il cantante va a comprare la frutta e la verdura e questa cosa gli piace tantissimo. Trova un attimo di misticismo nella leggerezza delirante di essere “pronti a decidere tra il due percento e il latte intero”. Poi la musica (come potete sentire qui sopra) si infiamma e lui inizia a delirare su un testo che dice più o meno “oggi, insieme, siamo tutti la stessa cosa”.

La scena sopra descritta cattura perfettamente il sentimento di un disco ossessionato con la condizione (post) moderna. È un ammasso di contraddizioni, ma non so: qualcosa mi arriva. Un secondo prima Tim Beeler (il cantante degli Ought) è “disgustato dalla vita”, il secondo dopo è “innamorato di qualsiasi cosa veda”. Guardandola da un altro punto di vista, sembra che la band sia incappata in questo strano e nuovo fenomeno culturale, qualcosa cosa che ricorda un po’ la filosofia orientale: essere consapevoli, ma non così autocoscienti, essere sinceri, ma senza prendersi sul serio, essere seri, ma leggeri, tutto questo in una sola attitudine.

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Questo concetto è ciò che si dice post-ironia. C’è sempre una vaga diffidenza quando terminologie del genere nascono e vengono diffuse, il che è comprensibile, dato che il significato di questo concetto è molto vago e parole come post e ironia sono tendenzialmente parte del vocabolario di gente con cui non è tanto piacevole dialogare. Tuttavia non è carino rifiutare un’idea prima di prenderla in seria considerazione, e questo concetto, in realtà, ha della sostanza. Oltretutto, a meno che non si viva lontano anni luce dalla cultura pop, si può facilmente capire di cosa stiamo parlando.

La questione è questa: la post-ironia è ovunque. Ogni elemento di cliché culturale—come quelle cose che dovrebbero essere semplicemente ridicole, ma in realtà si rivelano dense di significato—è da considerarsi post-ironia. La contrapposizione che fanno gli Ought tra cinismo e atteggiamento ottimistico è post-ironia. Quando i Future Islands hanno suonato da Letterman, almeno il 70% delle espressioni facciali del cantante erano post-ironia allo stato brado, così come l’entusiasmo della gente che condivideva il video, molto post-ironico. I fenomeni di Internet degli ultimi tempi, come Riff Raff, Kitty Pryde, Yung Lean e, sì, anche Lana Del Rey hanno tutti un sentore post-ironico, e la loro fanbase è formata da ascoltatori post-ironici, il che non è necessariamente un male. La post-ironia non è un’attitudine per forza caratterizzata moralmente. Non è né buona né cattiva, esiste e basta.

Altre generazioni hanno conosciuto un mondo immune da ogni ambiguità, un tempo in cui esistevano estremi ben definiti, generi in cui identificarsi. Quando il prog era diventato troppo serio, ecco che è giunto il punk a scuotere un po’ le regole. Quando il “no future” agognato dal punk divenne realtà, ecco che il post-punk ha fatto sì che i producer ritornassero in studio. Allo stesso modo, a metà degli anni Novanta, spadroneggiavano generi come il grunge statunitense e il brit pop che si prendevano decisamente sul serio. Il pendolo puntava sull’estrema serietà o sulla sdrammatizzazione quasi grottesca, caricaturale, a seconda delle volte.

Nel 2003, però, le cose cambiarono, e la storia ci mandò un segnale di cambiamento sottoforma di band: arrivarono i The Darkness.

Era un periodo anche abbastanza bizzarro: il popolo dell’Internet era diviso tra nerd e sessuomani e la musica rock era in uno stato agonizzante. Il soft rock era in una fase espansionistica che nessuno si sarebbe aspettato durare così tanto. Stavano vincendo i deboli, i lamentosi, i romanticoni come i Coldplay o i Travis. Anche le prepotenze mediatiche di band come gli Strokes avevano i propri limiti (specialmente quando poi li vedevi suonare dal vivo). Suona un po’ strano che ora parliamo dei Darkness come dei Superman della musica che hanno salvato il rock, cavalcando le loro chitarre elettriche con mantelli glam, ma la loro presenza era decisamente quello che serviva al panorama musicale del 2003.

Le cose hanno iniziato a fermentare qualche tempo prima, in mezzo agli anni Novanta. Mentre le band tipo i Pavement o i Silver Jews sembravano prendersi sempre più sul serio, la cultura popolare ospitava fenomeni come The Sims o i primi reality show, che hanno infuso, si può dire, una sorta di autocoscienza all’audience, uno sguardo su se stessi che di solito prelude alla nascita di quella cosa che chiamiamo autoironia. Questo si può notare anche per il fatto che in TV iniziavano a comparire serie un po’ particolari come i Simpsons. Iniziarono, ovviamente, anche alcune riflessioni sociali a riguardo.

Autori come David Foster Wallace o George Saunders, specializzati nella decostruzione di dinamiche sociali e intrecci etico-psicologici, avevano previsto una recessione della moralità e dell’emotività nel mondo dell’arte. In risposta a questi pericoli promossero un nuovo e più profondo utilizzo della sfera sentimentale. Nel suo saggio del ’93 E Unibus Pluram, Wallace identifica “i prossimi ribelli letterari” che sarebbero stati “pronti ad affrontare lo sbadiglio, gli occhi al cielo, il sorrisetto, i sospirini, le parodie degli ironisti,” e contenti di “rischiare di essere accusati di sentimentalismo e melodramma.”

Quello che Wallace voleva scoperchiare qui era un’impossibilità nella cultura televisiva di quel tempo (quella che ora è la cultura di Internet) di scrivere qualcosa di anche lontanamente sincero senza sovra-analizzare la sua originalità e autenticità. Un’interpretazione di questo monito, più recentemente, si è sedimentata anche nella musica alternativa. “Sfidare la natura commerciale di un prodotto è una tattica altrettanto commerciale,” ha dichiarato AG Cook a Tank Magazine, “anche perché l’autenticità è difficile da mantenere, dato che spesso viene svenduta a marchi e pubblicità”. Cook prosegue poi con una sottile critica al capitalismo, “sistema in cui lo shock e l’ironia sono sostituiti con ambiguità e mistero.” Il manifesto della post-ironia dovrebbe essere, secondo Cook, non tanto una parodia della pop culture—che sarebbe puramente umoristica—ma scandagliare i lati più grotteschi di quel mondo e tentare di rifletterli, se possibile, in forma ironica e radicale.

Cook descrive la propria musica come “un tuffo in un mondo di idee e riferimenti culturali,” il che suona già abbastanza ironico: la sua label PC Music si prende gioco di ogni cosa, anche molto bene. Il suo scopo però non è solo far incazzare gli incalliti di ResidentAdvisor, Cook e il suo partner SOPHIE utilizzano linee vocali cheesy e un immaginario plasticoso per distrarre dalle produzioni, che in realtà sono grezze e sporche. La voce pitchata che parla di sesso, soldi e consumi sembra quella di una ragazzina. Nel pezzo “Hey QT”, utilizzano l’immagine di un energy drink immaginario che si chiama ‘QT’ come simbolo di consumismo iper-reale (“Buy me a drink and I’ll drink it, drink it… Red and blue. Red, silver and blue”). Nel frattempo, marchi come Red Bull—cui questa satira è sottilmente indirizzata—nel mondo reale sono quelli che, spesso, mettono i soldi per far muovere qualcosa nell’industria musicale, per esempio tramite la Red Bull Music Academy, che, guarda caso, ha anche ospitato gli show della label di Cook. Scoperchiare questi compromessi con l’industria portandoli all’estremo nel proprio immaginario artistico è forse l’unico modo per portare attenzione su quanto sta succedendo all’arte oggi, anche perché l’ironia alla vecchia maniera su questo tipo di meccanismi avrebbe forse solo l’effetto di far sentire superiore chi la mette in atto.

La teoria che regge tutta la messinscena di Ought e PC Music non è nulla di nuovo, nel dibattito socio-musicale. Quando i Pavement uscirono con Crooked Rain, Crooked Rain nel 1994, The Blue Album dei Weezer aveva già qualcosa di meta-consapevole, non fosse che si trattava di grunge auto-deprecativo, anziché di ironia. Oggi però, dato che la cultura pop ha raggiunto livelli di consapevolezza e serietà molto elevati, è necessario più che mai mettere in atto meccanismi post-ironici. Musicisti come Yung Lean o Riff-Raff manifestano il subconscio post-ironico della coscienza mainstream. Nel secondo, in particolare, la velleità di incarnare forzatamente uno stereotipo si trasforma in qualcosa di così ridicolo che nemmeno ha bisogno di essere ridicolizzato, e allo stesso tempo è un processo talmente reale e sincero che non si riesce a denigrarlo così facilmente. Le sue uscite sono così assurde e caricaturali che, a volte, sembra quasi un grido d’aiuto. È come se Riff-Raff fosse prodotto interamente dall’immaginario di Internet, tanto che è difficilissimo pensarlo al suo esterno. In Italia, pur con una certa cautela, si può pensare a tutti i protagonisti del lol rap, di cui comunque abbiamo già parlato abbondantemente.

Qualcosa di simile succede a Lana Del Rey, la cui inautenticità, anche se accentuata da coordinate vagamente sessiste, è molto connessa con il suo fascino. Alcuni pensano che la sua malinconia o l’aria da ragazza che si è fatta strada grazie al gattamortismo non possano essere espressioni spontanee, ed è proprio questa interazione tra autenticità e artifizio, glacialità e bizzarria, che genera il suo alone post-ironico.

A Montreal questa tendenza post-ironica ha preso largamente piede. Personaggi come Grimes, Braids e tutto il clan di Arbutus Records non temono di tuffarsi nella loro natura infantile, lanciandosi in immaginari post-new age sostituendo scenari escapisti con performance audaci che sfidano ogni artista che si prenda troppo sul serio.

Uno è il “filosofo pop” Sean Nicholas Savage, che suona ballate tropicali (a volte dal suo iPod) mentre canticchia peana amorosi pieni di melodramma, allusioni masturbatorie e linee vocali piene di ironie, il tutto molto spesso a petto nudo. I Majical Cloudz, un duo elettronico il cui frontman Devon Welsh è più o meno sulla linea di Savage. Il babbo di Welsh è noto per aver ricoperto il ruolo del cattivo di Twin Peaks Windom Earle, e la voce disperata di suo figlio è perfettamente in linea con i dettami lynchiani. Come per i Future Islands, gli show del duo sono strutturati in modo tale da dividere l’audience, non solo tra chi sta al gioco e chi non ci sta, ma anche in una terza categoria: i fanche accettano che il gioco c’è e allo stesso tempo non c’è, e che parte del gioco è che il gioco non esiste. Stare dietro a questa sottile linea di confine non è da tutti, e non è da tutti capire dove finisce l’ironia e dove inizia la sincerità.

In un certo senso, accettando questa nuova modalità si possono abbandonare le vecchie forme di ironia metaforica e si riesce a rimanere più aderenti a quei cari vecchi valori umani che la nostra generazione ha disintegrato mentre da Dawson’s Creek si passava a The OC. In un momento storico in cui siamo troppo informati, troppo consapevoli, troppo connessi per sentirci davvero scossi dagli estremismi, questo punto intermedio è la chiave di volta per sentire di nuovo la realtà.

Che quella che finora abbiamo chiamato post-ironia sia un inside-joke e che sia molto spesso strumentalizzata è secondario, ma quello che conta è che in un certo modo abbiamo superato una patina che ci distaccava troppo dalla realtà, dalla sensibilità e dalla libera espressione dei nostri sentimenti, ed era un po’ che i prodotti musicali o artistici non riuscivano a rispecchiare così bene la realtà dell’animo umano.