“C’è chi prepara l’impasto, chi taglia la pasta, chi mette il ripieno di ricotta di capra ed erbette, chi chiude i tortelloni, chi li serve a tavola. Ognuno fa un pezzetto”
Per raccontare La Lanterna di Diogene funziona molto bene la metafora dei tortelloni, uno dei piatti più apprezzati dell’osteria, un casolare ristrutturato a Solara di Bomporto, accoccolato sull’argine del fiume Panaro, nel cuore della bassa modenese.
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L’attività ristorativa, però, è solo una parte della realtà della Lanterna che è anche, e soprattutto, un’azienda agrituristica e un laboratorio socio-occupazionale che impiega persone con patologia.
Quando arrivo, in una mattina luminosa di settembre, stanno facendo la loro riunione quotidiana: gli 8 soci assunti, di cui 5 normodotati, e i 16 ragazzi del laboratorio, sotto la guida di Giovanni Cuocci, fondatore della Lanterna, diventato celebre negli ultimi mesi perché inserito di nella rosa dei dieci finalisti della quarta edizione del Basque Culinary World Prize, il premio che ogni anno premia gli chef che operano per trasformare la società attraverso la gastronomia, promosso dal Basque Culinary Center.
“In Emilia quando una persona sta male si dice ‘L’è un brut lavorir…’, ‘È un brutto lavoro’: lo stato di salute coincide con il grado di produttività della persona, con la sua capacità lavorativa.”
Quando ognuno si è diretto verso la propria attività del giorno lui si mette seduto con me a raccontarmi un po’ della sua storia, anzi, della loro storia. “Eravamo un gruppo di amici intorno a un tavolo, mangiando pane salame e bevendo un bicchiere di vino, e abbiamo iniziato a pensare a cosa ci piaceva fare. Coltivare la terra. Trasformare i prodotti. Ma anche occuparci dell’inclusione sociale,” racconta Giovanni, che prima di laurearsi in Pedagogia aveva frequentato l’Istituto Agrario.
“Dovevamo, e volevamo, avere cura del territorio intorno a noi in modo sostenibile. Non si può ignorare il fatto che alcune delle persone che lo abitano hanno una patologia. Prendersi cura di loro vuol dire lavorare insieme a loro. In Emilia quando una persona sta male si dice ‘L’è un brut lavorir…’, ‘È un brutto lavoro’: lo stato di salute coincide con il grado di produttività della persona, con la sua capacità lavorativa.”
È così che nel 2003 è nata la Lanterna: una cooperativa sociale in cui lavorano persone con sindrome di down, psicosi, paralisi cerebrale infantile. Quella parola, lavorano, assume significati diversi a seconda di chi ne è il soggetto. Intorno a noi i ragazzi hanno iniziato ad affaccendarsi, ognuno con un compito diverso: c’è chi prepara il ragù, chi dà da mangiare ai maiali, chi va a raccogliere le uova delle galline, chi pulisce le erbe aromatiche dell’orto.
E c’è anche chi non fa niente, come una timidissima ragazza che si mette il cappello da cuoco ma rimane in un angolo, dietro a un’altra che lava i piatti: “Ognuno partecipa a seconda delle proprie capacità.” Federico è il ragazzo che appena eravamo entrati ha cantilenato “Buongiorno e benvenuti alla Lanterna di Diogene” e poi aveva mormorato, a voce più bassa, “Non mi stancherò mai di ripeterlo.” Lui inizia subito ad apparecchiare la tavola per il pranzo, controllando che tutti i bicchieri con i nomi siano girati dalla stessa parte.
“La Lanterna funziona un po’ differente dalle aziende classiche. Qui l’attività agricola, quella ristorativa e il laboratorio si intrecciano costantemente. Non potrebbero esistere separati,” spiega Giovanni, indicandomi ‘la Simo’, una dei tre soci iniziali della Lanterna, che sta stirando su un tavolo. “Due settimane fa ha detto che voleva stirarci le divise. Nessuno qui aveva mai stirato, ma le abbiamo comprato un ferro da stiro e ora fa quello tutti i giorni. Abbiamo una proposta infinita di attività: se una persona si stanca può mettersi a farne un’altra.”
E le cose da fare aumentano di anno in anno. Oltre all’allevamento di animali e la coltivazione di ortaggi e alberi da frutto, coltivano una vigna di Trebbiano con cui creano l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, e dal 2016 insieme al vignaiolo Marco Lanzotti producono, utilizzando vigne in affitto, Lambrusco e Pignoletto. Ogni giorno porta con sé una sfida nuova: mentre Giovanni ci mostra le galline modenesi (razza in via di estinzione) che razzolano felici, in cucina finiscono il latte per i biscotti e le capre fuggono dal recinto. Andiamo a recuperarle con alcuni ragazzi, pure il cane Lulù dà il suo contributo, e abbaiando le fa correre dentro al recinto. Ci si passa i compiti a vicenda, ci si chiede aiuto.
Le cose che non riescono a produrre loro, come i formaggi, vengono da produttori di Campi Aperti di cui la Lanterna è socia. “Partecipare ai loro mercati è bello ma il tempo per conoscere è breve. La ristorazione è sempre stata la punta dell’iceberg, quella che ci ha dato visibilità: noi abbiamo acquistato uno sguardo sul mondo, e il mondo si è accorto di noi,” spiega Giovanni. L’osteria è aperta venerdì e sabato a cena, domenica a pranzo e gli altri giorni solo su prenotazione.
Non si mangia bene perché ci lavorano persone con patologia, si mangia bene e ci lavorano persone con patologia.
Alla Lanterna l’antipasto è a buffet e di solito consiste nei prodotti del loro orto; i primi piatti sono quelli della tradizione, tra i secondi non mancano mai le proposte vegetariane, come la frittata con spinacio rampicante e aceto balsamico oppure lo sformato di ricotta e verdure, e i dolci sono quelli da forno – sempre a buffet.
Alcune ricette, come i tagliolini al sugo di prosciutto, vengono da un librone della nonna di Giovanni. “Quando ho un dubbio su una tecnica da applicare in cucina chiamo uno di quegli chef famosi,” ride Giovanni. “Viene qui e ce la spiega. Alcune cose non le capiamo, altre sì, tipo le cotture a bassa temperatura: prima per me significava cuocere il cotechino nella vaschetta dell’acqua sulla stufa a legna, poi ho scoperto il roner.” Lui stesso di definisce un autodidatta ma, dopotutto, qui tutti imparano qualcosa ogni giorno.
L’osteria ha il riconoscimento ‘massimo’ della Guida Osterie di Slow Food, la Chiocciola, da anni. Non si mangia bene perché ci lavorano persone con patologia, si mangia bene e ci lavorano persone con patologia. Non si mette in scena nessun teatrino della compassione: si fa da mangiare bene, si accolgono gli ospiti bene. Racconta Giovanni: “Qualche anno fa sono venute delle persone di una trasmissione TV in cui, sul desiderio di una persona estremamente sfortunata, si creava un evento quasi magico. Dopo una visita ci hanno detto che gli dispiaceva ma non potevano fare la nostra trasmissione con noi perché c’era troppa dignità. Un complimento bellissimo.”
Prima di arrivare qui temevo l’effetto pietistico ma, in effetti, c’è ben poco da pietire: ci sono dei ragazzi che lavorano, c’è un caos affaccendato. “Ognuno ha le sue specializzazioni, certo, i propri desideri e le proprie preferenze. Ma tutti devono partecipare, anche solo per un pezzettino. E ogni stagione cambiano i prodotti, cambiano le erbe. Penso sia meglio, per ogni essere umano, fare un lavoro non ricorsivo e alienante.”
Oltre all’esempio dei tortelloni, mi fa quello dell’orto sinergico, dove piante diverse stanno tutte insieme, vicine, e ognuna rilascia elementi nutritivi a quelle di un’altra specie tramite le radici. La diversità qui viene vista sempre e solo come una risorsa, mai come un limite. E quella parola, patologia, dopo una giornata con i ragazzi della Lanterna diventa appunto solo quello: una parola. Non perché non esista o non abbia un peso, più o meno significativo. Ma perché alla fine, patologia o non patologia, tutti siamo diversi: “La biodiversità è un arricchimento che avviene normalmente nell’umano, anche nei normodotati,” semplifica Giovanni, alzando le spalle. “Uno alto e uno basso, uno sa nuotare e uno sa correre, uno ha l’intelligenza emotiva e uno quella matematica. Ognuno ha la propria visione del mondo e dà il proprio contributo. Solo così si costruisce insieme qualcosa di buono, che serve a tutti. Pensa al racconto della cicala e della formica: per me è una cosa fantastica! Se io cucino tutta la notte e tu suoni, se io ti do il pane e tu l’arte, cosa vuoi di più? È la diversità che arricchisce!”.
Dopotutto anche Ludovica, la sua compagnia, qui è sia psicoterapeuta che sfoglina. Mentre ci stiamo per sedere a tavola sua figlia Maya, dall’alto dei suoi sette anni, si siede a un tavolo da sola. “Sono abbastanza grande per farlo,” dice. Giovanni la prende in braccio e la rimette a sedere con gli altri. “Qui nessuno mangia da solo, mai,” le ricorda. L’aspetto familiare è uno degli aspetti che ci tiene di più ad evidenziare.
Stanno insieme tutto il giorno, tutti i giorni, fino a sera – con aggiunta del turno serale quando è aperta l’osteria. “Come in tutte le migliori cucine qui ci si scontra, si discute, ma non si mettono in discussione il progetto e soprattutto l’affetto.” Penso alle cucine che ho conosciuto: non so quante funzionino come dice lui, ma me lo tengo per me.
In tavola arrivano le lasagne vegetariane e, per me e il fotografo, gli ospiti speciali, i famosi tortelloni di ricotta di capra e ortiche, semplicemente bolliti e conditi con un filo d’olio d’oliva. Sono deliziosi.
Mentre usciamo per andarcene noto che in giardino c’è davvero una statua di Diogene con in mano la lanterna. Si dice che una volta Diogene, filosofo greco e tra i fondatori della scuola cinica, sia uscito di casa con una lanterna e abbia detto, a chiunque glielo chiedeva, che la usava per cercare l’uomo. Intendendo con questo un uomo che vive secondo la propria natura, che sa liberarsi dalle convenzioni della società ed essere autenticamente, orgogliosamente, se stesso. E quindi felice. Di uomini, su questo argine del fiume Panaro, se ne trovano parecchi.
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