L’artiglio

Illustrazioni di Daniele Villa, traduzione di Raul Schenardi

Padre, le cose che avrà sentito nel confessionale e qui in sacrestia… Lei è giovane, è un uomo. Non le sarà facile capirmi. Non sa quanto mi dispiace rubarle del tempo con i miei problemi, ma con chi posso confidarmi se non con lei? Davvero non so come iniziare. Gioire delle disgrazie altrui è peccato. Lo commettiamo tutti, vero? Pensi a quando c’è un incidente, un delitto, un incendio. Che gioia provano gli altri perché non è toccata a loro almeno una fra le tante disgrazie di questo mondo.

Lei non è di qui, padre, non ha conosciuto la capitale quando era una città piccola, graziosa, molto accogliente, e non quella mostruosità che dobbiamo sopportare adesso nel 1971. Allora si nasceva e si moriva nello stesso posto senza mai cambiare quartiere. Eravamo di San Rafael, di Santa María, della Colonia Roma. Niente sarà più come prima… Mi scusi, sto divagando. Non ho nessuno con cui parlare e quando attacco… Ah, padre, che vergogna, se sapesse, questa cosa non ho mai osato raccontarla a nessuno, nemmeno a lei. Ma adesso sono qui. Poi sarò più serena.

Videos by VICE

Vede, io e Rosalba siamo nate in due palazzi della stessa strada, a soli tre mesi di distanza. Le nostre madri erano molto amiche. Ci portavano insieme all’Alameda e a Chapultepec. Insieme ci hanno insegnato a parlare e a camminare. Da quando siamo entrate nella scuola materna, Rosalba è stata la più bella, la più spiritosa, la più intelligente. Era simpatica a tutti, gentile con tutti. Alle elementari e alle medie lo stesso: l’alunna più brava, quella che portava la bandiera alle cerimonie, ballava, si esibiva o recitava alle feste. “Studiare non mi costa fatica,” diceva. “Mi basta sentire qualcosa per impararlo a memoria.”

Ah, padre, perché le cose sono distribuite così male? Perché a Rosalba sono toccate tutte le cose buone e a me solo le cattive? Brutta, grassa, ignorante, antipatica, volgare, monella, con un pessimo carattere. Insomma… Può già immaginare quello che ci è successo alle superiori, quando erano poche le donne che raggiungevano quel livello. Tutti volevano fidanzarsi con Rosalba. Io ero cibo per cani: nessuno avrebbe notato l’amica brutta della bella ragazza.

Su un giornaletto studentesco avevano scritto: “Secondo le malelingue, Rosalba va dappertutto con Zenobia perché il contrasto faccia risplendere ancor di più la sua bellezza unica, straordinaria, incomparabile.” Naturalmente l’articolo non era firmato. Ma so chi era l’autore. Non lo perdono, anche se è passato più di mezzo secolo e oggi è un personaggio molto importante.

Che ingiustizia, non trova? Nessuno si sceglie la faccia che ha. Se una nasce brutta fuori, la gente fa in modo che diventi orribile anche dentro. A quindici anni, padre, ero già amareggiata. Odiavo la mia migliore amica e non potevo esprimere il mio odio perché lei era sempre buona, gentile e affettuosa con me. Quando mi lamentavo del mio aspetto, diceva: “Quanto sei sciocca. Come puoi pensare di essere brutta con quegli occhi e quel tuo sorriso così bello.” Era soltanto la gioventù, di sicuro. A quell’età non c’è nessuno che non abbia un certo fascino.

Mia madre si era resa conto del problema. Per consolarmi mi parlava di quanto soffrono le belle donne, e di come si perdono facilmente. Io volevo studiare Giurisprudenza, diventare avvocatessa, anche se allora faceva ridere che una donna si mettesse a fare lavori da uomo. Avevamo passato assieme tutta la vita e non ho avuto il coraggio di iscrivermi all’università senza Rosalba.

Non avevamo ancora finito le superiori quando lei ha sposato un ragazzo di buona famiglia conosciuto a una festa di paese. Se l’è portata a vivere sul Paseo de la Reforma in una casa elegantissima che è stata demolita molto tempo fa. Naturalmente mi ha invitato alle nozze, ma non ci sono andata. “Rosalba, che mi metto? Gli invitati di tuo marito penseranno che ti sei portata la serva.”

Con tutte le illusioni che mi ero fatta, fin dai diciott’anni mi sono vista costretta a lavorare, prima ai grandi magazzini Palacio de Hierro e poi come segretaria al ministero delle Finanze. Sono rimasta relegata nell’appartamento dove sono nata, nella zona di Pino Suárez. Santa María ha perso il suo splendore d’inizio secolo e si è molto degradata. A quel tempo mia madre era già morta fra atroci sofferenze, mio padre era cieco a causa dei vizi di gioventù e mio fratello era un ubriacone che suonava la chitarra, scriveva canzoni e ambiva alla gloria e alla ricchezza di Agustín Lara. Povero fratello mio: per tutta la vita ha voluto essere all’altezza di Rosalba ed è morto ammazzato in un tugurio di Nonoalco.

È passato parecchio tempo senza che io e Rosalba ci vedessimo. Un giorno è venuta nel reparto dell’intimo, mi ha salutato come se niente fosse e mi ha presentato il nuovo marito, uno straniero che capiva a malapena lo spagnolo. Ah, padre, lei non ci crederà, Rosalba era più bella ed elegante che mai, al suo massimo, come si suol dire. Ci sono rimasta così male che mi sarebbe piaciuto vederla cadere stecchita ai miei piedi. E la cosa peggiore, la più dolorosa, era che lei, con tutta la sua ricchezza e la sua bellezza, era gentile e alla mano come sempre. Le ho promesso che sarei andata a trovarla nella nuova casa a Las Lomas. Non l’ho mai fatto. Di notte pregavo Dio di non farmela più incontrare. Dicevo fra me: Rosalba non viene mai al Palacio de Hierro, compra gli abiti negli Stati Uniti, io non ho il telefono, non c’è alcuna possibilità che ci vediamo di nuovo.

A quel punto quasi tutte le nostre amiche se n’erano andate da Santa María. Quelle rimaste erano grasse, piene di figli, con mariti che le sgridavano e le picchiavano e andavano a spassarsela con le donnacce. Per vivere in quel modo, meglio non sposarsi. Io non mi sono sposata, anche se non mi sono mancate le occasioni. Per quanto possiamo essere disgraziati, dietro di noi c’è sempre qualcuno pronto a raccogliere ciò che gettiamo nell’immondizia.

Sono passati gli anni. Sarà stato ai tempi di Ávila Camacho o di Alemán quando una sera, mentre aspettavo il tram sotto la pioggia, l’ho intravista nella sua grande Cadillac, con l’autista in uniforme e tutto quanto. L’auto si è fermata a un semaforo. Rosalba mi ha riconosciuto in mezzo alla gente e si è offerta di accompagnarmi. Anche se può sembrare incredibile, si era sposata per la quarta o quinta volta. Malgrado tutto il tempo passato, si curava molto ed era rimasta la stessa: il viso fresco da ragazza, il fisico snello, gli occhi verdi, i capelli castani, la dentatura perfetta…

Mi ha rimproverato perché non l’avevo cercata, anche se lei ogni anno mi mandava biglietti d’auguri per Natale. Ha detto che la domenica successiva l’autista sarebbe venuto a prendermi per cenare da lei. Quando siamo arrivate, per cortesia l’ho invitata a entrare. E ha accettato, padre, pensi un po’: ha accettato. Può immaginare la pena che ho provato nel mostrarle il mio appartamento, a lei che viveva in mezzo al lusso e alle comodità. Anche se pulita e in ordine, era la stessa stamberga che Rosalba aveva conosciuto quando anche lei era una poveraccia. Tutto così vecchio e miserabile che per poco non mi metto a piangere di rabbia e di vergogna.

Rosalba si è rabbuiata. Non era più tornata alle sue origini. Ci siamo raccontate episodi di quei tempi. D’un tratto ha cominciato a dirmi quanto era infelice. È per questo, padre, e pensi a chi glielo dice, che non dobbiamo provare invidia: nessuno può sfuggire, la vita è ugualmente terribile per tutti. La tragedia di Rosalba era non avere figli. Gli uomini la illudevano per un momento. Poi, delusa, accettava un altro dei tanti che la corteggiavano. Povera Rosalba, non l’hanno mai lasciata in pace, come a Santa María e alle superiori, o come in quei posti tanto ricchi ed eleganti che ha frequentato in seguito.

Si è fermata poco. Andava a una festa e doveva farsi bella. La domenica si è presentato l’autista. È rimasto un bel po’ a suonare il campanello. Lo spiavo dalla finestra e non gli ho aperto. Che ci andavo a fare io, la brutta, la grassa, la zitella, la commessa, in quell’ambiente di ricchi. Perché espormi di nuovo al confronto con Rosalba. Non sarò nessuno, ma ho il mio orgoglio.

Quell’incontro mi è rimasto impresso dentro. Se andavo al cinema, o mi sedevo a guardare la tv o a sfogliare una rivista, m’imbattevo sempre in belle donne che somigliavano a Rosalba. Al lavoro, quando mi toccava servire una ragazza che aveva qualche somiglianza con lei, la trattavo male, le creavo difficoltà e cercavo il modo di umiliarla davanti agli altri commessi per avere questa sensazione: mi sto vendicando di Rosalba.

Lei, padre, mi domanderà che cosa mi abbia fatto Rosalba. Niente, assolutamente niente. Questa era la cosa peggiore, che mi faceva imbestialire ancor di più. Le ripeto, padre: con me è sempre stata buona e affettuosa. Però mi ha soffocata, mi ha rovinato la vita per il solo fatto di esistere, di essere così bella, così intelligente, così ricca, così tutto.

Io so cosa significa stare all’inferno, padre. Tuttavia, non c’è scadenza che non arrivi né debito che non venga pagato. Quell’incontro a Santa María deve essere avvenuto nel 1946. Quindi ho aspettato un quarto di secolo. E finalmente, padre, questa mattina l’ho vista all’angolo fra Madero e Palma. Prima da lontano, poi da molto vicino. Lei non può immaginare, padre: quel corpo meraviglioso, quel viso, quelle gambe, quegli occhi, quei capelli, sono andati perduti per sempre in un barile di grasso, borse sotto gli occhi, macchie della pelle, rughe, doppi menti, vene varicose, capelli bianchi, fard, rimmel, dentiera, ciglia finte, lenti spesse come fondi di bottiglia.

Mi sono affrettata a baciarla e abbracciarla. Quello che ci aveva separato non c’era più. Il passato non aveva più importanza. Non saremmo più state la brutta e la bella. Ora io e Rosalba siamo uguali. Ora la vecchiaia ci ha rese uguali.

José Emilio Pacheco (1939-2014) è stato un poeta, scrittore e traduttore messicano. Il principio del piacere, la sua prima opera tradotta in italiano, uscirà per SUR quest’autunno.

© José Emilio Pacheco, Ediciones Era 1987

© Edizioni SUR 2015