Dai geroglifici fino alla scrittura cuneiforme, passando per i capolettera miniati dei monaci amanuensi, gli esseri umani si sono sempre fatti abbindolare dalle forme comunicative che non prevedevano la lettura di lunghe serie di lettere messe in fila una dietro l’altra. Proprio per questo, dopo migliaia di anni di fatiche per imparare a usare le parole, quando le tecnologie informatiche hanno permesso di sfruttare di nuovo i simboli non ce lo siamo fatti ripetere due volte: le emoticon avrebbero salvato i nostri rapporti con il prossimo.
Il primo passo nel fantastico mondo della regressione comunicativa è stato fatto nel 1857, quando nella National Telegraphic Review and Operators Guide di quell’anno viene citato la sequenza “7-3” del codice Morse a significati “love and kisses.” Poco più di un centinaio di anni dopo, nel 1963, l’artista freelance Harvey Ball ha presentato al mondo il suo capolavoro: l’emoticon della faccina sorridente—il primo, storico, smiley :).
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Da lì in poi non è stato altro che un pozzo senza fondo: il 19 settembre 1982 Scott Fahlman utilizza per la prima volta, storicamente parlando, il :-) e il :-( per esprimere delle emozioni:lo fa in una proposta molto specifica per la board di informatica della Carnegie Mellon University. Avanti veloce—anno domini 2016: l’essere umano utilizza l’emoji della melanzana per parlare di cazzi e fare sexting.
È evidente, però, che negli ultimi tempi il dibattito si sia piuttosto espanso. Recentemente l’universo mediatico si è lanciato in un’approfondita diatriba meta-comunicativa secondo cui le stesse emoji hanno significati diversi in base ai dispositivi su cui vengono letti. Allo stesso tempo, però, l’utilizzo sempre più diffuso delle emoji potrebbe trasformarsi in un rischio: davvero è possibile definire lo spettro delle emozioni umani attraverso una tavola di pittogrammi?
La ricerca ha confermato che il nostro rapporto con le emoji è ormai talmente importante che le stesse aree del cervello che si attivano quando dobbiamo interpretare un’espressione umana, vengono stimolate dal processo cognitivo necessario e interpretare le emoji. O ancora, che le emoji stanno diventando sempre più fondamentali nella creazione di un canale comunicativo in tutto e per tutto parallelo a quello orale: quando chattiamo, infatti, quello che manca sono il tono di voce e la gestualità—Le emoji, secondo una ricerca di Instagram, sono qui per questo: se prima ero lo slang (lol, rotfl, kek) a sostituire il tono di voce, ora le emoji svolgono lo stesso compito, anche meglio.
Così, nella consueta riunione editoriale settimanale, la redazione di Motherboard Italia si è ritrovata a spendere più tempo del necessario a discutere proprio di questo: che significato hanno le emoji per noi? A differenza di quanto pensavo inizialmente, la domanda è molto meno banale del previsto—Così abbiamo deciso di avviare un sondaggio.
Ironicamente, solo dopo aver speso diversi minuti a incazzarmi con questi benedetti computer ho scoperto che Motherboard non supporta nativamente le emoji nel testo, quindi eccovi degli orribili screenshot.
Per Giulia Trincardi, staff writer di Motherboard, le emoji dell’era WhatsApp hanno mutato il suo rapporto con questo codice comunicativo, “Ho passato l’adolescenza a detestare quei contatti su MSN che infilavano simil-emoji al posto delle vocali doppie, delle congiunzioni, delle esclamazioni, dei numeri e di qualsiasi altro simbolo alfabetico, di norma meravigliosamente asettico,” spiega. “Quando è esplosa la moda degli emoji più grossi del dovuto, ho iniziato a mal giudicare un sacco di persone—Da tempi immemori dispongo di una cartella dei preferiti piena di URL di GIF da Oscar, salvate con nomi tattici da ricordare tipo “cat eating a banana” o “eheheheheh,” che tiro fuori quando devo commentare urgentemente qualcosa e le parole non bastano,” continua, raccontando un’esperienza comune a moltissimi.
“Da quando ho WhatsApp, però, qualcosa è cambiato. Improvvisamente, comunicare a geroglifici mi diverte da morire. Sono in grado di mandare interi messaggi solo di faccine, pesche, aerei, fiori e via dicendo e vedermi arrivare risposte a tono. Alcuni li uso in maniera casuale, altri sono un passaggio obbligato. Se devo indicare me stessa, per esempio, uso sempre e solo la vecchietta. Una volta ho perso un’ora a costruire una storia di spionaggio facendo botta e risposta con un amico, improvvisando i dettagli della narrazione come quando giochi a Cadaveri eccellenti. Pura sperimentazione.” conclude.
Per Federico Martelli, staff writer di Motherboard, i meriti degli emoji sono da attribuire alla loro origine, “Ho sempre creduto che, essendo nati in Giappone, siano ottimi per esprimere tutta quella serie di espressioni rappresentate con rara capacità di sintesi nei manga,” spiega. “Credo che i fumettisti giapponesi abbiano fatto un ottimo lavoro nel metterci di fronte a emozioni che non sapevamo neanche di provare: che dire ad esempio della faccina imbarazzata con la goccia di sudore? Chi sapeva che l’uomo può provare livelli di imbarazzo simili prima dei manga?”
Per Federico, però, l’unica emozione che le emoji non sanno trasmettere è quella di una grassa risata, “Ogni volta che il mio interlocutore ride attraverso le emoji vengo assalito da un dubbio: come fa a ridere così tanto se è abbastanza lucido da scegliere le emoji giuste per comunicarmelo?” mi spiega.
Per Antonella Di Biase, editor di Motherboard, la faccenda è ben più primitiva: usiamo le emoji perché siamo pigri, “Non ho ancora elaborato un rapporto fisso significante-significato con quei simboli, sicuramente per una forma di pigrizia digitale,” spiega. “Le uso quando voglio essere carina con qualcuno—mando cuoricini e bacini ai miei per farmi perdonare quando sparisco—quando voglio edulcorare un po’ il messaggio—”no, non vengo a fare l’ennesimo aperitivo in Porta Genova”—o quando voglio confondere le idee—in questi casi uso il palloncino rosa, o il cactus. In generale, comunque, preferisco la versione afroamericana di tutto.”
Elena Viale, magazine editor di VICE, ribalta le carte in tavola con una dichiarazione contro-corrente, “A me le emoji piacciono e non mi piacciono le persone che non le usano per partito preso/gli fanno schifo etc etc,” mi spiega. “Sono molto utili soprattutto perché a volte riescono a dire cose che altrimenti non potresti dire: l’emoji che si lacca le unghie quando stai parlando con una tua amica e vuoi comunicarle qualcosa che orbita attorno a una frase tipo ‘non me ne frega niente sono superiore però sto facendo pettegolezzi succosi con te.’”
Anche per Elena le emoji assumono un carattere ausiliare nei confronti della comunicazione non-verbale, “Penso che la comunicazione non verbale sia fondamentale per qualsiasi tipo di scambio, e le emoji in qualche modo possono rendere tutta quella gamma di reazioni fisiche e di espressioni fondamentali.” spiega. “A parte questo, ovviamente quando litighi o fai cose simili non mandi emoji perché le emoji sono un attestato di felicità e del fatto che vuoi passare del tempo a cercare una melanzana sulla tastiera. Lo smiley passivo aggressivo invece fa male al cuore,” conclude.
Per Mattia Costioli, online editor di Noisey, la questione è ben più pragmatica, “La mia preferita è quella del pupazzo di neve e la uso quando sono in imbarazzo/propongo di scopare. ”
Per quanto mi riguarda invece, le emoji nel corso del tempo hanno assunto carattere diverso: inizialmente sono stato un aficionado della pluralità di espressioni garantita dal roster di emoticon che i forum su ForumFree offrivano, in seguito ho manifestato per anni tutta la mia indole passivo-aggressiva da uomo di Cromagnon represso mediante l’uso del alle fine dei messaggi (in genere succedeva quando, da minorenne, mi intrattenevo discutendo e incazzandomi su internet con altri minorenni). Infine mi sono redento e ho scoperto lo spazio e la finanza—Ora vivo sufficientemente bene.