A 15 anni, le preoccupazioni dei miei compagni erano i classici drammi adolescenziali. Come togliere il vomito dal tappeto dopo una festa in casa? Come riuscire a fare finalmente sesso? Per me, c’era un problema più reale. Non riuscivo a smettere di pensare a quanto ci sarebbe voluto perché la gente dimenticasse di aver visto le foto del mio sedere.
Questa storia comincia nel 2007, quando tra un poster di Christina Aguilera e uno di Ronaldo, seduta sul letto della mia camera—mani sul seno, gambe aperte—mi sono fotografata in reggicalze e perizoma. A ripensarci, il fatto che avessi scelto un orrido completo rosa e bianco avrebbe dovuto farmi capire che non ero ancora pronta per farmi foto sexy.
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Quando il mio ragazzo dell’epoca è tornato da scuola gliele ho mandate via Bluetooth, ma lui le ha cancellate. “Se le tieni finiscono ovunque,” ha detto.
Aveva ragione. Ci sono volute solo due settimane prima che una compagna corresse da me e mi mostrasse una di quelle foto sul suo telefono. Non era stato il mio ragazzo. Altri due ragazzi mi avevano rubato il cellulare e si erano mandati le foto, poi le avevano mandate a tutti i loro amici, che avevano fatto lo stesso. Una slavina al termine della quale tutta la scuola mi aveva vista nuda.
Il mio corpo era pubblico. Originariamente, quelle foto indicavano un momento speciale per me: era la prima volta che mi vedevo sexy e cresciuta. Posando mi ero sentita forte. Ma dopo, mi sono sentita terribilmente ingenua.
“Si fa spesso in modo che le donne si sentano in colpa per foto e video di questo genere,” mi dice Anna Hartmann, esperta di violenze online. Nel 2017, l’associazione per cui lavora ha lanciato una campagna per aiutare chi ha subito esperienze come la mia a reagire.
Secondo Hartmann, sono sempre di più le persone che cercano aiuto per motivi analoghi, ma né i servizi di counseling né la polizia hanno dati precisi. Un portavoce della polizia federale tedesca ha confermato che nel 2016 sono stati denunciati quasi 6mila casi di leak di foto e video di situazioni intime. Una ricerca austriaca ha stabilito che nel 2014 il 16 percento degli adolescenti di età compresa tra i 14 e i 18 anni ammettevano di essersi fotografati nudi, e il 50 percento diceva di conoscere qualcuno che era stato derubato delle foto, che poi erano state a volte usate per ricattarlo o bullizzarlo.
Quando gli account iCloud di donne famose come Rihanna e Jennifer Lawrence sono stati hackerati nel 2014, l’allora Commissario europeo per l’economia e la società digitali Günther Oettinger ha dichiarato: “Se qualcuno, soprattutto una celebrity, è così stupido da farsi foto nudo e metterle online, non dovrebbe aspettarsi che noi lo proteggiamo.” E invece è proprio il contrario. Come dice Hartmann, il problema non è il sexting; la colpa è di chi ruba immagini private e le pubblica per fare click. “Ma noi, troppo spesso, diamo la colpa alle vittime.”
Due giorni dopo che le mie foto hanno cominciato a girare, ho scoperto che la mia migliore amica le aveva pubblicate sul suo blog. La didascalia recitava, “Troia.” Mi sono sentita imbarazzata e sola, e sapevo di non poter tornare a scuola.
Secondo Hartmann, si tratta di una reazione perfettamente normale. “Veder girare proprie foto o video privati senza sapere quante persone le guarderanno porta a un’ingombrante sensazione di perdita del controllo,” dice.
A dicembre 2017, l’Unione Europea ha varato nuove misure per tutelare le vittime di revenge porn e atti collegati. Ma in Germania non ci sono leggi specifiche in materia. Quando è successo a me, pensavo che avrei dovuto fare i conti con questa faccenda per il resto della mia vita.
Non appena ho visto le mie foto online ho capito che da sola non avrei potuto fare granché. Così sono andata da mio padre, che ha chiamato uno dei ragazzi responsabili minacciandolo di contattare i genitori se non avesse fatto sparire le immagini.
Poco dopo le foto sono sparite dal blog, ma il problema è rimasto—non sapevo quante altre persone le avessero scaricate, salvate e caricate altrove, o se fossero già arrivate a qualcuno dei miei professori.
Alla fine, la consapevolezza che di lì a poco a scuola ci sarebbe stato un altro piccolo scandalo e tutti avrebbero dimenticato le mie foto mi ha permesso di andare avanti. Nelle settimane successive ho tenuto un profilo basso. Ero convinta di dover dimostrare alle persone che mi avevano insultata che non ero quella che credevano. Mi vestivo nel modo più innocente possibile: scarpe da ginnastica, jeans e felpe. Mi truccavo poco e non uscivo. E sono rimasta col mio ragazzo anche nella convinzione che, essendo fidanzata, nessuno avrebbe avuto motivo di darmi di nuovo della troia.
Per i due anni successivi sono stata compagna di classe dei due ragazzi che mi avevano rubato le foto. Si erano scusati, e io avevo accettato le loro scuse perché ero convinta che nemmeno loro si aspettassero tutto quello che è successo poi. Chi non ho perdonato è stata la mia ex migliore amica. Non ci siamo parlate per dieci anni, finché di recente non mi ha aggiunta su Facebook. L’ho ricontattata per la stesura di questo pezzo, per chiederle se si ricordava di quel periodo. “Volevo farti male,” mi ha detto. “Non mi ricordo perché, l’ho fatto e basta. E il fatto che me ne sia dimenticata dovrebbe farti capire quanto poco mi importasse dei tuoi sentimenti.”
Quanto a me, non sono riuscita a dimenticare del tutto quell’invasione della mia privacy, o il modo in cui sono stata trattata. Per anni, persone che non mi conoscevano e che nemmeno avevano fatto la mia scuola mi hanno detto di aver visto le mie foto. In un certo senso, tutta la faccenda è ancora parte di me. Anche se so che posso vestirmi come mi pare, non posso non pensare di aver fatto qualcosa di male ogni volta che qualcuno fa un commento sul mio aspetto.
Servono misure più efficaci affinché le vittime di revenge porn vengano prese sul serio, e serve che social media, piattaforme video e autorità reagiscano più in fretta a segnalazioni di leak. Perché, come spiega Hartmann, il revenge porn è qualcosa di più: “in primo luogo, una forma di reato sessuale specificamente nei confronti di un genere.”