Música

L’Italia dovrebbe superare definitivamente il rap delle posse


In copertina 
Ero Un Autarchico di Frankie Hi-NRG, poco prima di essere fatto a pezzi da Noyz Narcos.

Quella che segue è un’opinione personale e in quanto tale non può, ovviamente, essere presa come unica chiave di lettura del rap italiano in questo momento storico. Sì, lo so: sembra una paraculata, ma a mia discolpa bisogna ammettere che è una paraculata necessaria nell’analizzare un fenomeno che tende a trovare la sua forza nel chiudersi a riccio verso l’esterno.

Come un qualsiasi decenne che si ritrova ad ascoltare Mr. Simpatia, rimasi abbastanza influenzato dai miei primi ascolti. Ancora oggi credo che possa esser divertente scherzare sulla morte di un qualcuno che si schianta dopo quindici Peroni, ho la continua paranoia di essere l’uomo nel mirino e, soprattutto, non riesco a identificare come rap quello che fanno i 99 Posse. C’è anche da dire che, di solito, a dieci anni non capisci ancora un cazzo della vita e certe frasi ti rimangono attaccate più per imprinting che per motivi razionali. La carica con cui Fibra sparava le sue rime probabilmente ha fatto sì che prendessi per dogma quella che era solo una visione estremamente provocatoria della realtà. Con il tempo ho continuato a non capire un cazzo della vita, ma a credere che dietro quel “non è rap quello dei 99 Posse” ci fosse qualcosa in più che una provocazione a vuoto.

Quando sono entrato a contatto con il genere, quindi quando usciva Mr. Simpatia, probabilmente era il periodo peggiore del rap italiano di sempre, o almeno è questa la percezione che avevano i rapper. Prima di quegli anni a occupare la fetta di mercato non troppo generosa riservata al rap c’erano gente come Jovanotti, Frankie Hi-NRG e i 99 Posse. Oltre a non capire un cazzo della vita, a dieci anni te ne freghi della politica e per quanto tu possa trovare divertente canticchiare “Sono come noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi”, a un certo punto vuoi anche dell’altro.

Non voglio analizzare i testi dei 99 Posse, non mi interessa farlo in questa sede, ma posso sicuramente dire che determinati ambienti abbiano al contempo il merito e la colpa di aver fatto arrivare il genere in Italia. Per qualcuno che aveva conosciuto il genere vedendo su MTV il video di “Still D.R.E.”, sognava una macchina con le sospensioni idrauliche e la pelle di un altro colore, guardare nel proprio paese e trovare solo il rap delle posse era (quantomeno) deprimente. In un’intervista recente, qualche mese prima della pubblicazione di Vero, Gué Pequeno sosteneva che in Italia il rap fosse arrivato con “una mentalità un po’ barbona, quando in realtà era tutt’altro”. A causa del fatto che in Italia il rap popolare, per molto tempo, fosse quasi ed esclusivamente il rap delle posse e politicizzato ha fatto sì che il messaggio e il background del genere venissero storpiati e fraintesi. In un Paese che crede ancora che il rapper sia un tizio con un cappellino storto che fa “yo” e le corna con le mani e che non è capace di analizzare un fenomeno da più punti di vista, questa mancanza di alternativa ha fatto sì che il genere, ancora oggi, venga difficilmente compreso, ma che, soprattutto, gli esponenti di questa sorta di “sotto-genere” si sentano in diritto, ancora oggi, di dire la loro o di decidere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.

Quella del rapper “anziano” che critica la nuova scuola ovviamente è un leit motif ricorrente non solo nel panorama italiano. Il problema del rap nostrano è però che questa critica, spesso e volentieri, arriva da un pulpito costruito oltre che sulla convinzione che a maggior esperienza corrisponda una qualità più alta, anche su tutto un discorso di contenuto e di morale. Il primo caso che mi viene in mente, in ordine cronologico, è Frankie Hi-NRG che critica il Truceklan dopo un’operazione di polizia che vide coinvolto qualche membro della crew romana. “I pitbull, le mignotte, che pena! Il rap è tutta un’altra cosa. E non saranno questi quattro fessi a togliere vigore e nobiltà a una cosa bella come il rap. Ora la parte sana avrà più lavoro da fare per far capire che il rap può essere una cosa diversa, migliore, pulita”, è la prima dichiarazione del Dr. Di Gesù, seguita da un tentativo di demonizzazione del “voler fare l’Americano”. Ovviamente ciò che segue sono pagine di storia, come questo video in cui Noyz spezza un disco di Frankie Hi-NRG.


La presa di posizione è categorica e probabilmete un po’ forte, ma già solo il fatto che qualcuno chiami Frankie Hi-NRG quasi fosse un santone del genere per un parere sull’arresto di altre persone dell’ambiente indica quanto oppressiva fosse la figura di certi personaggi. Altro caso paradigmatico è quello di Militant A che intervista per XL i Club Dogo, dando successivamente vita a una faida con Gué Pequeno. Nel 2009 il rap era massicciamente in major da almeno tre anni, eppure sembrava ancora — anzi lo era a tutti gli effetti — qualcosa di alieno. 

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Nel 2009 erano ancora i tempi di MySpace, che è dove avvenuto questo scambio, tra l’altro.


Se avete ascoltato Fastlife Mixtape vol. 2 probabilmente avete un’idea anche solo vaga di ciò che è successo, per la versione estesa potete rivolgervi a questo sito, ma in breve: XL non ha idea di cosa siano i Club Dogo, Universal Records vuole lanciare i propri artisti appena approdati da Virgin Records, così chiede a XL di fare l’intervista, XL va in confusione, cerca rap sull’enciclopedia — siamo pur sempre nel 2009 — legge Assalti Frontali, chiama Militant A come “traduttore” e pubblica sul proprio cartaceo un’intervista “commentata”, ovvero: domanda, risposta e giudizio dal forte retaggio cattolico di Militant A [Secondo un ex redattore di XL l’intervista nasceva invece fin dagli accordi come un confronto tra la vecchia guardia militante e la nuova scuola disimpegnata]. Come al solito il problema e la “colpa”, se così possiamo definirla, non è certo delle parti in causa: è giustissimo che Militant A abbia la propria idea, è meno giusto che qualcuno decida di ascoltare quest’idea per giudicare universalmente Club Dogo e rap.

Si potrebbe analizzare il fenomeno per ore e parlarne per giorni, davvero, ma credo sia sufficiente postare il passo conclusivo della già citata intervista: “Mentre vado non posso non pensare alla piazzetta sopra il centro commerciale vicino a casa mia dove i ragazzi sentono le canzoni dei Club Dogo sui loro cellulari. Convinti di essere ribelli, ma schiavi. Ribelli schiavi. Dei soldi, dei vestiti, dell’idea che rimbalza da tutti i cartelloni e le televisioni che la donna sia una merce come le altre. Schiavi della coca. Schiavi a vita. Io un po’ di responsabilità me la sento, soprattutto per i più deboli e soli. Cioè quasi tutti. Ma spira un vento forte e contrario.” 

¯\_(ツ)_/¯

Il motivo per cui ultimamente il “rap delle posse” è tornato “d’attualità” è lo “scontro” tra il fonico dei 99 Posse e Luché, che potete recuperare dalla fanpage dell’autore di Malammore, ma che in breve si può riassumere con: Luché pubblica un disco fenomenale per gli standard dell’hip hop italiano, un disco che gli porta un’esposizione maggiore rispetto a quella degli anni precedenti. Alla data napoletana, cioè quella in casa, fa 6000 spettatori paganti e tra i vari commenti c’è quello di Tierrese, il fonico dei 99 Posse, che coinvolge anche Marco Messina, uno dei membri del gruppo. Il discorso, ovviamente, cade subito sul politico e sulla realness, Luché viene additato come borghese e fake. Anche in questo caso, le loro parole hanno una risonanza maggiore di quella che meriterebbero, complice anche probabilmente la natura di perenne insoddisfatto di Luché.

Al di là dell’inutile dissertazione sulla street credibility presunta o reale di Luché, anche in questo caso, se si guarda il calendario, sembra impossibile che i 99 Posse (non tutti, in realtà, visto che più tardi Zulu prenderà le difese di Luché) abbiano ancora voce in capitolo, segno che in Italia non abbiamo ancora superato appieno il movimento.

Una delle prime accuse mosse a Luché nella discussione è l’aver composto questo pezzo:

Al di là della forza del brano (è uno dei primi che ascoltai di Luché e Corrado, ora CoCo), non riesco in realtà, in virtù di un necessario ascolto di rap americano, a immaginare come un’opera di bragging del genere possa essere considerata “lontana dai canoni del rap”. Se in Italia siamo indietro rispetto alla comprensione del genere, che diventa considerato dalla cultura di massa solo quando sveste i panni del rap (penso a Moreno nel 2012 o Fedez e J-Ax oggi) è anche perché è permeato nel credo popolare che il rap debba essere necessariamente una roba politicizzata, impegnata, sociale, che al di là di quegli argomenti non possa più essere vero rap, ma soltanto una sterile copia.

Riuscissimo definitivamente a scrollarci di dosso questa gerontocrazia, forse finalmente potremmo cominciare a viverci questo genere in pace.

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