Yuki fa i compiti. Non si ferma mai. Prende appunti, poi torna a sprofondare nel suo libro di testo. Nell’ultima ora ha riletto la stessa parte esattamente trecentosessanta volte. La ragazza che studia, senza sosta, sul canale “lofi hip hop radio – beats to relax/study to” è leggermente più alacre: scrive, si ferma, guarda fuori e sospira. Nell’ultima ora ha riempito centottanta pagine del suo inesauribile quadernetto di scuola. Le GIF animate che scorrono, sotto la musica di queste due web-radio, sono l’esatto corrispettivo visivo dell’effetto mesmerizzante e ipnotico dei brani che si susseguono, tutti uguali, nel corso delle ore, dei giorni.
È abbastanza comune, per un frequentatore di youtube, essersi imbattuto in una di queste web-radio. Nate tutte attorno al 2015 la loro proposta musicale è interamente composta da brani di un genere non meglio definito: “lo-fi hip hop”. Su internet si comprende subito quanto i confini di questo genere siano sfumati. Per descriverne le sonorità, in giro per il web, si ricorre al confronto con J Dilla, DJ Shadow e pochi altri, ma non esiste una pagina Wikipedia per il lo-fi hip hop (che è anche il titolo di un articolo di Reddit).
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L’analisi della struttura di un brano qualsiasi trasmesso da queste web-radio, fa emergere il principio dell’omogeneità come carattere fondante di questo “genere”. Ciò che appare chiaro e sconvolgente, in questi brani, è la totale scomparsa di un arco drammatico. La scomparsa, cioè, di uno sviluppo che dia il senso di una qualsiasi evoluzione.
Penso sia interessante, per comprendere il fenomeno, confrontarlo con un’altra manifestazione musicale esistita fra la fine degli anni Ottanta e il primo decennio dei Duemila: la chill-out. La musica chill-out nasce a Londra nell’ambiente rave proprio alla fine degli anni Ottanta, un’epoca a dir poco eccitante per il neoliberismo. Con i brani di lo-fi hip hop radio condivide una serie di tratti estetici, ma la differenza sostanziale è l’uso che se ne fa. Mentre la chill-out è una musica di decompressione dallo stress lavorativo e si somministra generalmente in luoghi adibiti allo svago post produttivo (cocktail bar e locali del genere) la musica trasmessa dalle lo-fi hip hop radio, diventa invece la colonna sonora lavorativa di una generazione che non ha conosciuto l’euforia del capitalismo ruggente né l’euforia del divertimento selvaggio. Il lavoro non finisce mai, ma si distribuisce sottilmente su ogni momento della nostra vita. Il motto “work hard party hard” degli yuppies è andato in pensione. Il senso del momento produttivo è stato irrimediabilmente sgretolato e l’acme del divertimento, d’altro canto, non si raggiunge mai. Il desiderio è quello di sostare in una fluttuante stasi di torpore indotto musicalmente. Le lo-fi hip hop radio assicurano questo effetto trasmettendo brani assolutamente innocui per le nostre bolle di filtraggio.
All’interno dei pezzi, della durata media di 100 secondi, esistono delle piccole variazioni come l’erogazione di basse addizionali, effetti e modulazioni. Tuttavia il pezzo non va letteralmente da nessuna parte. Le melodie sono ossessive e attingono al catalogo infinito del cool jazz. La pratica compositiva è quella del campionamento. Il suono di pianoforti elettrici tipo Rhodes o Wurlitzer è quasi onnipresente. Il tutto è tenuto assieme da una drum machine morbida assestata attorno ai 90 BPM. Satie parlava all’inizio del Novecento della sua opera come di furniture music: letteralmente “musica d’arredamento” o “musica tappezzeria”, termine poi ripreso e operativamente svolto da Brian Eno. Non è un caso che le Gymnopédies di Satie ritornino in una grande quantità di brani delle lo-fi hip hop radio.
La musica tappezzeria è finita sulle pareti di una quantità di giovani adulti; le stesse pareti che una volta ospitavano poster di Sting, Spice Girls o Justin Bieber. Il vecchio divismo delle rockstar è stato sostituito da una comunità di campionatori senza volto. Ciò tratteggia i bordi di una delusione diffusa verso le pratiche di produzione e consumo (di musica, ma poi tout-court). L’avvento di nuove forme lavorative (come ad esempio la possibilità di erogazione di servizi on demand della gig economy) ha rilocalizzato il luogo di lavoro facendolo spesso coincidere con casa propria e ha delocalizzato i rapporti lavorativi. Questo ha finito per eliminare non solo la relazione datore di lavoro-lavoratore, ma anche la relazione orizzontale fra colleghi. Ciò ha polverizzato il senso di appartenenza ad una comunità mettendo a repentaglio la coscienza di classe, svilendo in definitiva il tempo produttivo.
L’effetto è un generalizzato rifiuto verso la competizione. L’ansia da prestazione ha vinto restituendo una comunità senza messaggio, libera di non provarci. La fortuna delle lo-fi hip hop radio ne è testimone. La stessa opzione non-competitiva sembra avanzata da atteggiamenti quali la reclusione volontaria degli hikikomori, i giovani giapponesi che rifiutano di uscire di casa, e dalla parabola degli shy radicals (comunità di introversione militante descritta da Hamja Ahsan nel libro Shy Radicals: the Antisystemic Politics of the Militant Introvert, 2017). In questo senso, è indicativo che queste radio non abbiano un mercato discografico di riferimento e che di fatto mettano in crisi il concetto stesso di artista.
Il prodotto di queste radio sembra essere generato, più che dallo sforzo del singolo artista, da uno sforzo collettivo. Se approfondiamo i tanti nomi di artisti del lo-fi hip hop, che si succedono senza sosta su queste radio, ci accorgiamo che essi non sono che pseudonimi generici, indici senza referente di una moltitudine annoiata che rifiuta di esporsi, di farsi identificare e di finire in una classifica. Non esiste per gli ascoltatori di queste radio un artista preferito, ma è proprio questo il punto: la rassicurante interscambiabilità di questi musicisti e brani. La grandezza, se c’è, di questa protesta silenziosa è quella di aver trasformato l’indifferenza e la stessità, che propone il moderno assetto socio economico, da un motivo di frustrazione a un dispositivo consolatorio.
Ho l’impressione che le lo-fi hip hop radio siano un luogo privilegiato per guardare alla nascita e al destino di certe sonorità narcotiche rubricate di recente sotto l’etichetta di xanax rap. Come ha evidenziato, giustamente, Chris Richards sul Post, l’avvento dello xanax rap potrebbe essere la risposta dell’ansia generalizzata dei millenial, e l’imprevisto e la diversità si possono rivelare elementi di disturbo per chi soffre di ansia.
Di certo ci sarebbe bisogno di recuperare, nelle culture schiave di un capitalismo che è il primo produttore di ansia da prestazione e inquietudine, una cultura dell’errore. Tra aspettative altissime e terrore del fallimento è una musica in cui la ripetizione è davvero una necessità per l’ascoltatore. Nello stesso senso si possono leggere la progressiva scomparsa della forma canzone e la tendenza verso la corrosione, nel rap contemporaneo, di tutto ciò che non è ritornello. Non è sorprendente, dunque, che Lil Pump, in una canzone di centotrenta secondi, possa ripetere “Gucci Gang” quarantanove volte. La generazione millennial, affamata di continuità e di esperienze di flusso, ha finito per sonorizzare la propria vita con una musica liquida e innocua. Lo scorrimento senza increspature delle lo-fi hip hop radio è la risposta musicale all’insofferenza per la discontinuità di una generazione che ha conosciuto solo la crisi, il cambiamento, la flessibilità e, da giovani adulti, la precarietà, la fragilità e la paura.
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