“Il segreto della mia carbonara è che non ha segreti.”
Pasta, uova, guanciale, pepe e pecorino.
Cinque ingredienti, punto. Che regalano l’accesso diretto alle porte del paradiso del godimento puro. La carbonara è sesso, Italia, popolarità, casa. Ma soprattutto, la carbonara è Roma.
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E quindi il suo Re non poteva che essere qui.
Luciano Monosilio ha la tipica faccia del ragazzo per bene. Una barba curata, i capelli ben tagliati, gli occhiali grandi un po’ da nerd. Sembra un tipo serio, da lontano. Poi ti avvicini, lo guardi sorridere e ci parli di qualsiasi cosa, tra risate e passioni. Insomma, appena lo conosci un attimo, capisci subito che incarna quel tipo di veracità che esiste solo a Roma.
Siamo nel suo locale, Luciano-Cucina Italiana. C’è un laboratorio per fare la pasta, all’ingresso, per farla e anche per essiccarla. Sono le otto di sera e qui è ancora presto, il locale è quasi vuoto. Un ragazzo tira fuori la pasta dalla macchina, nell’aria si spande un odore di pizza che ti penetra le narici senza chiederti il permesso e io mi sento male dalla fame. Aspetto, faccio finta di niente. Sei un ospite. E in questo caso ero l’ospite di un Re.
“La gente era letteralmente impazzita per la mia carbonara. La norma era che si facevano un menù degustazione e alla fine mi dicevano ‘ao, senti Lucià…Ma che ce le fai du forchettate di carbonara???’ Era diventato un incubo.”
Tutti noi conosciamo la carbonara. Quasi tutti noi siamo in grado di farne una commestibile fin dalla prima volta. Tra le paste tipiche di Roma – amatricana, cacio e pepe e gricia- è l’imperatrice quasi all’unanimità. Perché è facile, veloce, ti riempie, ma soprattutto perché, che cazzo, è buona da morire.
Le origini di questa pasta non sono poi così antiche, sicuramente non esiste una versione ufficiale. Mettiamola così: c’è una storia bella e una inaccettabile. Quella bella racconta dei carbonai che, soliti portarsi il pranzo da casa, avevano aggiunto il guanciale alla pasta cacio e ova di derivazione perlopiù abruzzese. Il guanciale non costava molto, si conservava bene, ma soprattutto si metteva al posto dell’olio. Si faceva sciogliere per creare del grasso e poi si univa, perché non si butta via niente. Ma siccome non ci sono delle fonti accreditate vere e proprie di questa pasta, e soprattutto siccome nel libro sulla cucina popolare romana di Ada Boni del 1930 non viene menzionata, la carbonara potrebbe avere un’origine totalmente inaspettata. Tenetevi forte: la carbonara potrebbe essere stata inventata a partire dagli americani arrivati durante la Seconda Guerra Mondiale. Noi non avevamo niente, loro uova in polvere e bacon. E si dice che siano stati loro ad assemblare il tutto durante il periodo delle razioni K. Io ve l’ho raccontata, spero che non vi ci affezioniate troppo alla carbonara americana, eh.
Ma torniamo a noi. La storia di Luciano Monosilio è una di quelle un po’ romantiche, che non si vedono quasi più. Dalla stella Michelin alla trattoria. Questa è la fine. L’inizio è in una macelleria.
“Ho iniziato a lavorare in macelleria a 16 anni, da un vicino di casa“, mi dice dopo una cena a base di sei portate belle grosse e quattro bicchieri di birra. “A 18 anni, grazie a mamma, che arrotondava cucinando in un hotel, ho iniziato anche io a lavorare in cucina, ad Albano Laziale. Ma di cucina c’era poco, più che altro mi dovevo portare su per le scale sei o sette abbacchi al giorno. Interi.”
Il maestro tunisino che insegna la carbonara al romano non solo è una bella storia da raccontare, è poetico da morire
E dopo la prima gavetta, i primi passi alla scuola alberghiera, arriva a Roma. E da qui inizia una serie praticamente perfetta di incastri fortunati che l’hanno portato sull’Olimpo e ad avere la forza di fare un passo indietro per seguire quello che davvero amava di più. “Quando sono andato a Roma, ho iniziato in questo ristorante dell’EUR che si chiama Rucola e Pachino.” Al di là del nome incredibile per un ristorante, da Rucola e Pachino all’EUR in cucina c’era Nabil Hadj Hassen. Nabil, chef tunisino, non solo è tra gli chef più rispettati della Capitale, ma è anche cintura nera di carbonara.
“Nabil venne chiamato a gestire la cucina di Roscioli, e io l’ho seguito, ovviamente. Imparo sempre di più a stare in cucina, comincia a essere uno di quei lavori che ti avvolge e così vado a fare uno stage da Uliassi (che ha appena preso la terza stella Michelin, N.d.R) a Senigallia. Mi presentai a questo tizio e lui mi rispose: “piacere Mauro”. Quindi ero assolutamente convinto che fosse Mauro Uliassi, lo chef. Arriva la sera, faccio il primo servizio e vedo un signore che comincia a urlare ordini a destra e sinistra come un matto. Quindi mi giro e chiedo: “scusate, ma quel matto chi è?”. “Veramente quello è chef Uliassi”, mi rispondono. E così ho iniziato la mia storia con una bella figura di merda.”
Il Sudafrica, con un ristorante italiano tradizionale, il Meloncino, e il ritorno a casa, ai Castelli. “Sono stato prima a Zagarolo, da Tordomatto e poi da Pipero ad Albano Laziale.” La cosa divertente è che entrambi questi ristoranti ora sono a Roma con lo stesso nome, e entrambi si sono presi la stella. “In quel periodo era folle, ho navigato un ristorante fino alla chiusura, ho lavorato nell’altro e poi lasciato lo spazio a Roy Caceres, abbiamo chiuso ad Albano Laziale e ci siamo spostati in centro a Roma. Era un disegno completamente fuori di testa e azzardato, ma forse per quello poteva funzionare”.
Insomma, Luciano arriva a Roma, si mette dietro i fornelli di Pipero all’Hotel Rex e comincia a stupire tutti per sei anni. Si prende la sua stella, e diventa quel ristorante gourmet dove se non c’eri già stato, eri un dilettante. Dai, nella carta dei vini c’era il Tavernello a 1 euro accanto a bottiglie da 200, come facevi a non andarci?
Ed è qui che compare la carbonara, quella più buona del mondo. Che ci crediate o meno, una delle pochissime carbonare allo stesso livello di Luciano, è quella di Nabil da Roscioli. Il maestro tunisino che insegna la carbonara al romano non solo è una bella storia da raccontare, è poetico da morire. I piatti cambiano, la cucina si evolve, ma la carbonara di Luciano rimane lì. “La gente era letteralemente impazzita per la mia carbonara. Non sapevo più che fare, la odiavo a morte. La norma era che si facevano un menù degustazione e alla fine mi dicevano ‘ao, senti Lucià…Ma che ce le fai du forchettate di carbonara???’ Era diventato un incubo. Tu ti sforzavi per la cucina gourmet e alla fine vinceva sempre lei. E che fai la togli? No, ovvio che no. Perciò ho cominciato a pensarla in modo diverso. Ho cominciato a girare il mondo per cucinarla.“
“Volevo un luogo per i miei amici. Per fare in modo che le persone a cui voglio bene fossero un’unica famiglia sotto il tetto della cucina italiana, romana.“
Immaginatevi lo chef stellato che fa la carbonara più buona del mondo che si mette in tasca spaghetti, uova, pecorino e guanciale e se ne va in Cina, in USA e in Centro America. Per farla assaggiare alla gente, per insegnarla. “E in quel momento ho capito che non potevo odiare un piatto del genere, che mette d’accordo tutto il mondo. Non erano gli altri che sbagliavano a ordinarla dopo un menù di 8 portate, ero io che non l’avevo capita a fondo. Quando l’ho capito, ho mollato la stella e mi sono aperto questo ristorante-pizzeria come una volta, ma moderno, dove faccio io la pasta perché il mio sogno è di fare il pastaio e piatti tradizionali che ti fanno uscire soddisfatto,” mi dice orgoglioso.
“Ero uno chef, ora sono anche imprenditore. Dovevo provare un’altra faccia della medaglia, cambiare totalmente punto di vista. Avere una visione a 360 gradi. Già da Pipero usavo solo farine di semola, non ho mai usato il riso. La pasta è da sempre il mio più grande amore.“
Prima della chiacchiera mi sono mangiato un Carpaccio di agnello, un Vitello tonnato strepitoso, della Pizza, un Supplì croccante e questo piatto di carbonara che ti esplodeva in bocca facendoti dire “oh mio Dio. Datemene un camion” con il boccone ancora integro. Densa, cremosa, tanta, con un retrogusto di limone, una roba da lacrime.
“Ma ci hai messo il limone, eh?”, gli faccio come per dire ehi, bello, ti ho beccato. Ecco il segreto.
“No, non c’è nient’altro che guanciale, uova, pecorino e pepe. Non c’è nessun segreto. Il segreto è che sono io il segreto. Solo io so come farla”. Sì, come se non glielo avessi strappato dopo qualche bicchiere.
Il passo indietro di Luciano il suo passo in avanti più grande. Aver avuto l’umiltà e la consapevolezza di doversi fare da parte un attimo nella sua vita per vederla in un modo diverso e fare quello che gli piace. “Non era per lo stress. Ho fatto questo posto perché volevo un luogo fatto per i miei amici. Per fare in modo che le persone a cui voglio bene e i clienti nuovi fossero tutti un’unica famiglia sotto il tetto della cucina italiana, romana. Qui è casa mia, mi rendo conto di cose che mai avrei visto prima. Ho visto clienti dello stellato entrare con i figli, ma chi lo sapeva che avevano figli? Ti accorgi di un fattore umano molto più grande. Questo è un posto aperto a tutti, per tutti. Se poi vorro rifare il gourmet lo farò, si può riprendere una stella. Ma con questo posto ho creato una casa.”
La gente ride, leggera, il locale che sembrava vuoto si riempie, anche se è lunedì e sono le undici di sera. I camerieri svolazzano, le paste aleggiano sulle teste dei clienti e la pizza fa sempre quell’odore buonissimo.
Noi, sconosciuti fino a due ore prima, siamo al tavolo con altre persone. Si chiacchiera, si fanno discorsi seri, si dicono cazzate. E alla fine di tutto esci, ti giri, e ti rendi conto che non sei appena uscito dal tempio della carbonara, ma dal calore di casa de nonna.
P.S. Ovviamente il segreto per la carbonara perfetta, me lo tengo per me, mica sono scemo.
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